L’assassinio di Charlie Kirk ha scatenato sia in America sia in Italia scontri verbali feroci. Il fanatismo che conduce alla violenza fisica è responsabilità soprattutto della destra o della sinistra? Che rapporto c’è fra la violenza verbale e la violenza fisica? O fra il fanatismo che si manifesta attraverso messaggi di odio e quello che passa all’azione picchiando colui che si considera il «nemico» oppure uccidendolo?
Per tentare di sbrogliare la matassa conviene partire da tre considerazioni: la prima è che il fanatismo è in politica una merce assai diffusa. La seconda è che esistono varie gradazioni di fanatismo (dalle più blande alle più virulente). La terza è che, in genere (tranne che nel caso delle guerre civili) solo un piccolo sottoinsieme di fanatici passa dai messaggi d’odio alla violenza fisica.
In generale, il fanatico si riconosce facilmente: egli vede il mondo in bianco e nero. È incapace di empatia. L’altro, quello che la pensa diversamente, è un mostro, un corrotto, un delinquente. O, nella migliore delle ipotesi, uno stupido burattino manovrato dai malvagi. Il mondo diventerebbe di gran lunga migliore — pensa il fanatico — se i malvagi venissero eliminati. I fanatici sono tutti uguali: non c’è, da questo punto di vista, nessuna differenza fra il fanatico che si dice di sinistra e quello che si dice di destra, il fanatico religioso o quello (diciamo così) laico. Il fanatico traduce in aggressività le sue frustrazioni private e la politica è un luogo perfetto in cui scaricarle.
Egli si può raccontare,e raccontare agli altri, di essere al servizio di qualche nobile causa, può persino sentirsi un eroe.
Però, come si è detto, ci sono varie gradazioni di fanatismo. Per capirlo bisogna squarciare il velo di ipocrisia che circonda la democrazia. Che ha molte virtù. Forse però la sua virtù maggiore, quella più preziosa, è di costringere, attraverso le sue istituzioni e le sue regole, persone che si riconoscono in parti politiche diverse e che, spesso, si disprezzano quando non si odiano, a trattarsi da «avversari» anziché da «nemici». Certo, ci sono fasi, nella vita delle democrazie, in cui la polarizzazione cresce e la reciproca avversione diventa particolarmente visibile. Ma non è vero, per fare un paio di esempi, che segmenti rilevanti di elettori democratici e repubblicani non si disprezzassero e non si odiassero anche prima di Trump. E ciò vale anche, nell’Italia di un tempo, per l’atteggiamento reciproco di comunisti e anticomunisti. Magari non valeva, e forse non vale nemmeno oggi, nel caso delle élite ma valeva e vale per porzioni dell’elettorato. Ci sono forme di fanatismo blando che chiunque può cogliere nelle conversazioni private: persone miti, che non farebbero male a una mosca, sono capacissime, se parlano di politica, di pronunciare parole d’odio all’indirizzo di quelli che ritengono avversari politici. Ricordate il clima all’epoca dello scontro fra berlusconiani e anti-berlusconiani? Il fanatismo blando, poiché resta confinato nelle conversazioni, passa per lo più inosservato, al massimo viene etichettato come «eccesso di passione politica».
Tuttavia, contiene molti degli elementi (il mondo in bianco e nero, l’avversario politico come incarnazione del Male, eccetera) che ritroviamo nelle forme più attive, e più distruttive, di fanatismo.
C’è, dopo il fanatismo blando, il fanatismo attivo di chi passa il suo tempo libero a manifestare il suo odio contro questo o quello: la Rete consente oggi al fanatico da tastiera di sparare ovunque quei messaggi di odio che un tempo potevano ascoltare solo i frequentatori del suo stesso bar o i suoi colleghi di lavoro. È possibile, quanto meno plausibile, che questa forma di fanatismo, quello che fa ricorso alla violenza verbale, crei il clima che finisce per spingere all’azione alcuni. Ho scritto prima che la politica è il luogo privilegiato ove si manifesta il fanatismo. Però è anche vero che non c’è troppa differenza fra il fanatico che colpisce l’avversario politico e, ad esempio, il branco che dà fuoco a un povero barbone: anche in questo caso il fanatico può auto-rappresentarsi come un eroe, impegnato a liberare il mondo da quelli che considera parassiti. Ma il fanatico politico che passa alla violenza non capirà mai quanto egli assomigli ai membri di quel branco.
Nelle democrazie esiste da sempre un dibattito sui limiti (devono esserci o non esserci?) nella libera manifestazione del pensiero: ne fa parte o no il messaggio d’odio contro qualcuno? Sul piano empirico le leggi dei vari Paesi affrontano in modi diversi il problema. Sul piano teorico, del dover essere della democrazia, la questione resta apertissima, mai davvero risolta.
La democrazia ha bisogno per funzionare di una certa dose d’ipocrisia. Ciò spiega perché le parti politiche in competizione mostrino sempre una certa indulgenza verso i fanatici che stanno nelle rispettive pance elettorali e la massima intransigenza verso i fanatici che si trovano nelle pance altrui. Certo, quando il fanatico in qualche modo riconducibile alla propria parte fa un atto di violenza, lo si condanna ma si evita di contrastarlo e di isolarlo prima che agisca. Ci sono in ballo voti e consensi. E in ogni caso, condannando l’atto, si possono sempre trovare delle giustificazioni e delle attenuanti. Giustificazioni e attenuanti che non ci si sogna di cercare quando il fanatico è uno del campo avverso.
La democrazia, avrebbe detto il filosofo Montesquieu, è un regime «moderato», ossia un regime che, per funzionare al meglio, richiede auto-controllo e disponibilità al confronto pacifico fra le opinioni. Se ne può quindi dedurre che nelle fasi in cui la polarizzazione delle opinioni cresce, la democrazia arranca e il fanatismo trova ampi varchi attraverso cui diffondersi. Sfortunatamente, questa è una di quelle fasi. In America e, giù per li rami, in tutto l’Occidente.
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