«Morte della patria l’8 settembre? Ma quando mai! Solo dirlo è una bestemmia, un insulto gratuito al nostro popolo e alla Resistenza che, viceversa, proprio dall'8 settembre prese l'avvio riscattando l'onore del Paese; è certo: l'amor di patria non uscì mai dal cuore degli italiani». Queste parole (più o meno) e queste obiezioni me le sono sentite ripetere alcune migliaia di volte da quando per primo (se mi è lecito accampare questo dubbio merito) nel 1993 mi capitò di ripescare l'espressione fatale da un vecchio libro di Salvatore Satta, «De profundis», e di adoperarla come titolo di una relazione ad un convegno di storia, poi pubblicata l'anno successivo negli atti.
Come si capisce, a mia volta ho provato anch'io a ribattere alcune altre migliaia di volte. A spiegare cioè che un conto è il generico sentimento patriottico e un conto è la costruzione storico-ideologica di patria come operante matrice di valori collettivi; che la disfatta militare non era stata solo la disfatta del regime fascista ma anche di tale idea di patria risalente all'Unità; che la Resistenza, per le sue stesse caratteristiche ideologico-politiche, non aveva potuto fare nulla per rimetterla in piedi. Niente da fare. Sicché alla fine mi sono arreso avendo finalmente capito, peraltro, il vero punto chiave: vale a dire che stracciarsi le vesti contro la sola idea di «morte della patria» e contro il suo uso storiografico serve, in realtà, ad accreditare una versione del passato in vari modi politicamente utile nel presente. Utile per esempio ad accreditare retrospettivamente alla sinistra una supposta devozione agli interessi nazionali in realtà all'epoca per molti aspetti più che dubbia; ovvero, per dirne un'altra, serve a cancellare il non cale in cui ieri fu tenuta ogni resistenza che non fosse quella sotto l'egida dei partiti rispetto, invece, all'esaltazione che si fa oggi della Resistenza dei militari, della Resistenza dei civili, di quella della «zona grigia», insomma di qualunque «altra Resistenza».