Esistono fratture profonde che attraversano e dividono la società italiana in gruppi sociali contrapposti? Se pensiamo alla nostra storia e ci ricordiamo che siamo il popolo dei guelfi e ghibellini, dei Capuleti e Montecchi e dei mille campanili è probabile che la risposta sia positiva. In effetti, la politica italiana degli ultimi vent’anni porta il segno della conflittualità estrema e della divisività. E, detto en passant, è grave la responsabilità di quei leader politici che hanno fatto di tutto per approfondire i solchi tra i partiti, delegittimando costantemente gli avversari.
Un sondaggio condotto dall’Swg su questo tema offre un quadro illuminante delle divisioni che i cittadini ritengono più intense. A fronte di una serie di gruppi sociali posti in contrapposizione - ad esempio, operai/imprenditori, laici/cattolici, giovani/vecchi - gli intervistati dovevano indicare quanto forte fosse, a loro giudizio, il confitto tra ciascuna di queste coppie, in una scala da un minimo di 1 a un massimo di 10. Le contrapposizioni più nette rivelano la resistenza dei vecchi conflitti e l’emergere prepotente dei nuovi. Infatti, in cima a tutto troviamo, a pari merito, sia la storica frattura di classe (vista in termini tradizionali, operai/imprenditori, e in termini più generici, poveri/ricchi), sia la nuova frattura che attraversa l’Europa e l’Italia da almeno due decenni, quella populista, rappresentata dalle dicotomie popolo/élite ed esclusi/inclusi. Lotta di classe e conflitto socio-economico da un lato, contrapposizione populista tra chi sta in alto e chi sta in basso dall’altro, focalizzano l’attenzione e definiscono lo “spazio” dove si concentra la lotta politica. La difesa degli interessi di classe è sempre stata, e in parte lo è ancora, la bandiera dei partiti socialisti. Negli ultimi anni si è affievolito il richiamo di classe dei partiti di sinistra i quali hanno subìto l’offensiva neoconservatrice e liberista senza essere in grado di reagire efficacemente. Eppure, questo conflitto è ancora al centro della sensibilità dei cittadini. Certo, viene declinato anche in termini meno “politicamente corretti” come antagonismo tra ricchi e poveri, ma la questione del divario, abissale, delle condizioni economiche nelle società contemporanee viene tuttora considerata la più importante di tutte. A questa visione dei contrasti più laceranti che attraversano il Paese si affianca, con una intensità simile, un antagonismo di taglio diverso, tra popolo ed élite, rinforzato da quello tra inclusi ed esclusi. La retorica populista, in Italia veicolata dal forza-leghismo, altrove da partiti estremisti come il Fronte nazionale di Marine Le Pen, ha fatto breccia: è diventata un criterio interpretativo delle società, semplificatorio ma di grande efficacia. Chi riesce quindi a interpretarequeste due coppie di conflitti, sul versante di classe e su quello populista, ha in mano le chiavi del successo elettorale. Silvio Berlusconi, insieme a Umberto Bossi, ha dominato la scena per lungo tempo perché rappresentava larga parte di chi “stava in basso” e dell’uomo qualunque, contrapposti all’establishment. Ora che il richiamo forzaleghista si è esaurito, è Beppe Grillo che dà voce, - ed è una voce ancor più potente - a questa divisione. Dall’altra parte dello schieramento politico Matteo Renzi tenta una operazione ambiziosa: colmare il fossato tra una rappresentanza tradizionale della sinistra - vedasi il feeling con la Fiom di Maurizio Landini e gli 80 euro in busta paga a operai e piccola borghesia - e la platea degli esclusi dando loro in pasto nemici vari, dagli alti burocrati ai professoroni, dai manager pubblici milionari agli stessi politici appollaiati sui loro scranni nelle Province o nel Senato. Il confronto tra Grillo e Renzi riflette proprio le più acute priorità e sensibilità dell’opinione pubblica. Entrambi combattono su toni populisti, con diverso grado di sguaiataggine, ovviamente; ma Renzi gode di un vantaggio competitivo, se lo sa giocare: quello della tradizione socialista.
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