Il collasso dell’Urss ha lasciato un mosaico di Stati con molte etnie e confini improvvisati. Putin vuole riunire il “grande popolo russo”. Baltici e moldavi temono di finire nel mirino
Vladimir Putin avanza a Ovest, ma intanto gli si apre un fronte alle spalle: Nursultan Nazarbaev, il presidente del Kazakhstan, ha detto che il suo Paese potrebbe anche uscire dalla Unione Euroasiatica che Mosca ha cercato di mettere in piedi con tanta fatica per ricostituire sulle ceneri dell’ex Urss una sorta di anti-Ue. Il monito del primo e unico leader di Astana, al potere ininterrottamente dal 1989, fa seguito alle incaute parole di Putin sul fatto che ha «costruito uno Stato laddove non è mai esistito».
Voleva essere un complimento, ma visto il corso degli eventi in Ucraina Nazarbaev, che mantiene buoni rapporti sia con gli Usa che con la Cina, ha preferito rispondere con durezza. Anche perché i russi etnici sono più di un quinto della popolazione, e il Nord del Paese – abitato soprattutto da russi etnici, molti dei quali venuti a colonizzarlo due secoli fa – è stato più volte rivendicato dai nazionalisti russi, a cominciare da Solzhenitsyn.
È uno dei tanti punti vulnerabili in un’Est pieno di paure, dove il collasso dell’impero «internazionalista» sovietico ha lasciato un mosaico di etnie e Stati con identità e confini improvvisati. E da quando Putin ha proclamato che i russi sono «il più grande popolo diviso» e che la sua missione è proteggere il «mondo russo», la paura di pretese e pretesti aumenta. Qualche mese fa Mosca ha varato una legge che semplifica l’ottenimento della cittadinanza per tutti i sudditi ex sovietici o dell’impero dei Romanov, una mossa funzionale alla creazione di «quinte colonne» negli ex satelliti russi.
Il Baltico è il primo a temere la ripetizione di questo scenario collaudato. In Lettonia e in Estonia i russi – per non aumentare la confusione post-sovietica spesso si parla di «russofoni», in quanto anche altre minoranze come gli ebrei usano il russo – sono un quarto, e occupano posizioni rilevanti nell’economia. E molti di loro ricordano senza troppo piacere le umiliazioni per ottenere il diritto di cittadinanza. Anche se le nuove generazioni preferiscono godere dei privilegi europei, la «quinta colonna» di filo-russi resta cospicua. E l’appartenenza di alcuni territori di confine, come Narva, potrebbe venire facilmente rimessa in discussione.
L’incubo che nessuno vuole rivivere si chiama Transnistria, enclave a maggioranza russa ribellatasi alla Moldova già 25 anni fa e da allora oscura nazione non riconosciuta che oggi manda i suoi uomini addestrati a Mosca a Donetsk. Ad aprile, dopo l’annessione della Crimea, la Transnistria ha chiesto di unirsi alla Russia, ma non ha mai ricevuto risposta. Ma oggi, se si realizzassero i piani dei separatisti di scavarsi un «corridoio» nel Sud-Est ucraino, potrebbe congiungersi con la «Nuova Russia» che il Cremlino vorrebbe disegnare in quella regione.
Ma a preoccuparsi non sono solo gli ex satelliti di Mosca che oggi guardano all’Europa, ma anche i fedelissimi come Alexandr Lukashenko. L’«ultimo dittatore d’Europa» è stato molto cerchiobottista nella crisi ucraina, e si è rifiutato di aderire all’embargo sui prodotti occidentali imposto da Putin, meritandosi qualche giorno fa rimproveri pubblici di «contrabbando» (a Mosca si segnalano già apparizioni di «autentico parmigiano bielorusso» con etichette cambiate a Minsk). I sudditi russi di Lukashenko sono l’8%, ma il russo è lingua ufficiale e l’identità nazionale (come l’economia) è talmente fragile da poter soccombere facilmente a eventuali pressioni di Mosca.
Le schegge del «mondo russo» meno a rischio di venire sfruttate come «quinte colonne» sono anche quelle che più avrebbero voluto la protezione di Mosca: i russi nell’Asia Centrale, costretti negli ultimi 20 anni a emigrare o a venire abbandonati sotto il giogo dei nuovi khan post-comunisti. Ma è improbabile che Mosca guardi a Oriente, sia perché il suo braccio di ferro è con l’Europa, sia perché gli emirati del gas e del petrolio, dall’Uzbekistan alla Turkmenia, sentono ormai «l’ombrello» della Cina più vicino di quello russo.
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