L’atteggiamento di molta pubblicistica di sinistra nei confronti della Russia odierna si divide in due grandi filoni. Da un lato, una perenne venerazione di tutto quanto promani da Mosca, ignorando persino le critiche rivolte al Cremlino anche dai comunisti del KPRF, di cui, pure, spesso ci si fa portavoce. Dall’altro, il completo silenzio su qualsiasi manifestazione dell’opposizione che non sia quella liberal-borghese o confessionale, come se altra non ne esistesse.
Non ci è capitato di leggere nulla, ad esempio, sui duecento dipendenti licenziati dai supermarket SPAR e SemJA di Pietroburgo, caricati il 30 dicembre dalla polizia mentre stavano picchettando gli uffici di Intertorg, chiedendo il pagamento di 10 milioni di rubli di salari arretrati. I lavoratori erano dipendenti di un’agenzia interinale, “scomparsa”; così, i funzionari di Intertorg, ritenendosi estranei alla cosa, hanno chiamato i reparti speciali della milizia per disperdere i manifestanti.
Lo stesso giorno, a Mosca, una cinquantina di custodi addetti a manutenzione e pulizia dei caseggiati del rione “Lomonosov” avevano chiesto un incontro col direttore dell’impresa semi-pubblica di gestione, per lamentare l’organico ridotto alla metà, il non esser ammessi al convitto (sono tutti migranti da altre Repubbliche dell’ex URSS, con salari dai 20 ai 27mila rubli: 3-400 euro) anche in caso di malattia, se non dopo le 18, mancata fornitura di tenute invernali e di materiali per le riparazioni. Il direttore li sbatte fuori dell’ufficio e loro cominciano la protesta in strada. Risultato: tutti alla stazione di polizia e in tribunale; il rischio è condanna e espulsione dalla Russia.
A metà dicembre c’è stata una settimana di “sciopero all’italiana” (seguendo alla lettera regolamenti e istruzioni) dei conducenti di tram a Pietroburgo, contro la videosorveglianza e la perdita dei premi alla minima infrazione. Si chiedeva anche la modifica dell’impianto salariale, che ora dipende dal numero di corse, il che li costringe a velocità pericolose, con conseguenti incidenti, anche mortali.
Ma, per molti lavori, non c’è alcun contratto e non si conosce il padrone, che si rivolge ai lavoratori su Instagram.
Cose che accadono quotidianamente in ogni paese capitalista che si rispetti.
E mentre si licenziano o non si pagano i lavoratori, uno dei “padroni di casa”, Gazprom, ha detto ai russi di prepararsi a forti aumenti di tariffe, perché l’attuale prezzo del gas sul mercato interno è di tre volte inferiore ai prezzi europei (169 $ per mille m3) e non è sufficiente a mantenere l’azienda. Quindi, dice Gazprom ai russi: scordatevi presto i 4.050 rubli (62 $) attuali.
In compenso, il governo decide l’ulteriore riduzione del controllo statale su imprese strategiche. Si parla della vendita di parti dei pacchetti azionari di Počta Rossii, Sovkomflot, RusGidro, Transneft, Rostelekom, Rosseti; in predicato anche parte delle azioni di Ferrovie, Aeroflot, Rosselkhozbank. Tutte aziende strategiche in forte attivo, che nel 2018 hanno portato alle casse federali utili dal 18, al 30, al 65% più del 2017. Fatto paradossale, dice Il vice presidente del KPRF, Jurij Afonin, esistono in Russia leggi che consentono di privatizzare le proprietà statali, ma non c’è una legge sulla nazionalizzazione.
Ora, come si sa, le privatizzazioni portano di regola con sé forti ristrutturazioni: se in un villaggio si chiude anche lo sportello postale (Počta Rossii), dopo che, un po’ dappertutto in provincia, si sono chiusi ospedali, scuole, case della cultura, quel villaggio muore. Un anno fa, Komsomolskaja Pravda riportava un elenco di piccoli villaggi a rischio scomparsa, abbandonati dagli abitanti: 2.234 solo nella regione di Tver, appena 200 km a nord di Mosca, ma cifre simili riguardano le regioni di Vologda, Jaroslav, Pskov e altre.
Altro aspetto delle privatizzazioni è il declino del potenziale industriale. Secondo lo scienziato Jurij Savelev, dalle “80mila macchine utensili prodotte nel 1985, si è scesi a 9.000 nel 2000, a 4.232 nel 2018. Compriamo tutto all’estero”. Effetti deleteri anche dall’esportazione di petrolio: “si vende una tonnellata di petrolio: le accise vanno al bilancio; il resto va ai privati, stranieri compresi, che controllano il 50% del settore energetico. Con la stessa tonnellata di petrolio si potrebbe produrre l’energia elettrica necessaria a un impianto metallurgico per sfornare diverse tonnellate di laminato, una sola delle quali vale quanto una tonnellata di petrolio”.
È così che si approfondisce sempre più il divario tra miliardari – i vari Potanin (Nornikel), Mikhelson (Novatek), Alekperov (Lukoil), Mordašov (Severstal), Abramovič (Evraz), Velselberg (Renova) – dei settori energetico, chimico, metallurgico, e il resto della popolazione: dal 2010 al 2019, i primi hanno incrementato i propri patrimoni di decine di miliardi dollari (il più “fortunato” è Leonid Mikhelson, passato da 4 mld agli attuali 27), mentre, nel decennio, secondo Rosstat (Istituto federale per le statistiche) i redditi reali della popolazione sono diminuiti del 8,3%.
Da alcuni anni rimane stabile il dato del 3% dei più ricchi che deterrebbero l’89% delle risorse finanziarie del paese. Il “coefficiente Gini” sul livello di stratificazione sociale, dice l’analista Aleksej Korenev, è “oggi per la Russia di 0,44, più o meno lo stesso dell’impero romano al suo massimo splendore; mentre in epoca sovietica era di 0,25 e solo a fine anni ’80 era salito a 0,28: grosso modo quanto è oggi nei paesi scandinavi”.
Ma, evidentemente, il governo giudica ancora troppo poco lo 0,44; ecco dunque alcuni ulteriori benefit: sull’IVA, ad esempio, passata dal 18 al 20% nel 2019, ma eliminata per quei “disgraziati” oligarchi cui siano state imposte sanzioni occidentali. Già due anni fa, la Duma aveva approvato il decreto che consente di non pagare le tasse alle persone fisiche oggetto delle sanzioni USA e UE, che abbiano la residenza fiscale, oltre che in Russia, anche in altri paesi.
Il sito opentown.org riporta un elenco di deputati, senatori, ministri, con cittadinanza (a volte doppia) in “paesi stranieri. Non ce n’è nemmeno uno con passaporto del fraterno Venezuela: la maggior parte ha almeno un passaporto di paesi della NATO”. Cittadinanze, residenze permanenti o permessi di soggiorno spaziano un po’ in tutti i paesi europei. Pare che il vice sindaco di Mosca abbia cittadinanza estone e cipriota, residenza in Spagna e permesso di soggiorno in Francia.
Quanto a tasse, l’aspetto più sfacciato è la cosiddetta flat tax. Ci sono cinque diversi coefficienti di tassazione (dal 9 al 35%, a seconda di stipendio, dividendi, obbligazioni, vincite, ecc.), ma quella base, uguale per tutti, è al 13% e la maggioranza governativa alla Duma ha sempre respinto i progetti, presentati da partiti diversi, per una tassazione progressiva.
Il deputato del KPRF Nikolai Arefeev si chiede: “Per chi lavora il governo? Per l’oligarchia! Se un oligarca viene privato di una proprietà da un tribunale straniero, viene compensato dal bilancio russo; se all’estero è soggetto a sanzioni, non paga le tasse in Russia”. L’ultima novità, è la creazione di due zone a speciale regime fiscale, nelle regioni di Kaliningrad e Primorje: qui “i nostri oligarchi sono esentati dall’IVA e da tasse su capitali e proprietà fondiarie”.
E, come si dice: agli zoppi grucciate! La deputata del partito governativo Russia Unita, Irina Guseva, commentando la proposta di esentare dall’IRPEF le categorie indigenti, ha paragonato queste ultime a criminali comuni: “Queste persone potrebbero non lavorare un solo giorno, sedere in prigione, accudite e nutrite a spese nostre; poi, uscite di galera, gli daremmo anche la possibilità di non pagare le tasse”. Criminali comuni, dunque, secondo lei; poca differenza con il giornalaccio torinese e il suo “lato bestiale” dei manifestanti francesi. Tra borghesi ci si intende.
Il calo demografico
È in questa situazione che il Rosstat computa il calo di popolazione per i prossimi 16 anni. Secondo lo scenario più ottimistico, la popolazione arriverebbe a 150 milioni nel 2035, se annualmente il declino naturale si riducesse a 21.000 persone e gli ingressi nel paese salissero a 381.000. Lo scenario medio è di 143 milioni e quello peggiore di 134 milioni.
“Il calo della popolazione in Russia è in atto da inizio anni ’90, dalla vittoria del capitalismo nel paese” scrive ROTFront, con il “massiccio impoverimento, il declino degli standard di vita, i colpi ricevuti da istruzione e sistema sanitario, che hanno determinato il calo dell’aspettativa di vita e natalità, unite all’aumento della mortalità.
L’innalzamento dell’età pensionabile sta ora facendo il resto. Evidente” continua ROTFront, “che per correggere la situazione, sarebbero necessarie misure opposte a quelle governative. Occorrerebbe sviluppare un sistema sanitario gratuito, aumentare il numero di cliniche di ostetricia, asili e nidi d’infanzia”. Ciò “richiederebbe investimenti, per far fronte ai quali sarebbe necessario un sistema fiscale progressivo, che il governo non ha alcuna intenzione di introdurre”.
Un anno fa il demografo Vladimir Timakov affermava che, “intorno al 2050 la popolazione russa sarà ridotta a circa 120 milioni, rispetto ai 146 attuali”: effetto delle riforme liberali eltsiniane, che fecero registrare anche una “mortalità record, negli anni ’90 e 2000, superiore di circa 7 milioni alla media degli anni ’80”, a causa della catastrofica situazione economica e socio-assistenziale. Nel complesso, diceva Timakov, “negli anni eltsiniani le perdite sono state di 12 milioni di nati in meno e 7 milioni di morti in più: si sono perse quasi 20 milioni di persone”.
Ora, secondo il Ministro della sanità, Veronika Skortsova, nel 2019 l’aspettativa di vita dei russi è salita a 73,4 anni. Ma, scrive Dmitrij Rodionov su Svobodnaja Pressa, in “molte regioni, la vita media degli uomini è di 63 anni. E allora: come si può aumentare l’età pensionabile a 65 anni per gli uomini, se la maggior parte di loro muore prima? Sorge il sospetto che le cifre sull’aumento dell’aspettativa di vita a 73 anni servano quale “argomento” per la riforma pensionistica”.
Il politologo Vladimir Lepekhin ritiene che l’innalzamento dell’età pensionabile abbia “inferto un duro colpo morale agli anziani”, tale da determinare “un deterioramento della loro salute, con depressione, apatia, atti sconsiderati”. Ciò, unito a “scadimento dei servizi sanitari, bassi salari e licenziamenti in massa di medici in diverse regioni del paese, non può che portare a un calo dell’aspettativa di vita, non all’aumento”.
Ancora secondo Rosstat, da gennaio a settembre 2019, il saldo negativo è stato di 259.600 persone. Il precedente “record” risaliva al 2008, con 362.000. La ragione principale è il calo di natalità, registrato in 80 regioni su 85. Non c’è nulla di sorprendente in questo, scrive ROTFront: “la situazione delle persone comuni è tale che non c’è fiducia nel futuro. I redditi dei lavoratori sono in costante calo, mentre i prezzi aumentano. Una famiglia su quattro è sotto la soglia di povertà”.
La protesta operaia
In ogni caso, pur se appare difficile parlare di movimento operaio vero e proprio, ancor meno guidato da organizzazioni di classe, proteste e manifestazioni operaie abbracciano più o meno tutta la Russia, anche se sui media occidentali non riscuotono la stessa visibilità dei “ragazzi di Navalnyj” o delle ONG liberal-religiose. Il sito news.ru riporta i dati della rete “ZabastKom” (zabastovka = sciopero) su conflitti e proteste operaie nel 2019, la maggior parte innescati da bassi salari e ritardi nella riscossione: a luglio 2019, i lavoratori aspettavano ancora 2,57 miliardi di rubli.
Rispetto al 2018, però, la causa primaria dei conflitti è passata dai ritardi (30,4% dei casi) ai livelli salariali (33,6%); seguono, chiusura di aziende (8,9%), condizioni di lavoro (6,1%), scelte padronali (5%), licenziamenti, riduzioni di personale. La maggior parte delle vertenze si è registrata in trasporti, manifatture e sanità; quindi: industria estrattiva, edilizia, istruzione e scienza, edilizia e servizi pubblici, commercio, agricoltura.
Si è trattato per lo più di richieste rivolte direttamente al padrone (di cui il 33% soddisfatte), scioperi (37,8% di successo) e manifestazioni (15,2% risolte vittoriosamente). Più raramente si è ricorsi a scioperi della fame (rivendicazioni soddisfatte nel 57% dei casi), scontri (oltre 20% soddisfatte) e invasioni stradali (vittoria dei manifestanti nel 23% dei casi). Oltre il 77% dei conflitti ha visto una vittoria più o meno parziale e nel 35% dei casi le richieste dei lavoratori sono state pienamente attuate.
Manifestazioni e proteste si sono avute soprattutto nelle regioni di Čeljabinsk, Crimea, Karelia, Novgorod, con circa 8 conflitti di lavoro per ogni milione di abitanti. Da quattro a otto conflitti, nelle regioni di Leningrado, Jaroslavl, Rjazan, Orël, Rostov, Astrakhan, Kemerovo, Irkutsk, Altaj, Trans-Baikal, Jakutija e altre.
Avanti verso lo zarismo
Il deputato del KPRF Jurij Afonin, scrive Elena Šestakova su zen.yandex.ru, ha twittato parole molto dure ma giuste – “il sogno dell’oligarchia al potere in Russia è di ripristinare il tipo pre-rivoluzionario di società divisa in ceti” – sono completamente d’accordo con questa affermazione, dice Šestakova, ma penso che “abbiamo già una società di censo a pieno titolo, di tipo medievale. Lo strato superiore dei ricchi detiene quasi tutta la ricchezza, commercia in risorse naturali, che invece dovrebbero appartenere al popolo. Loro promuovono leggi a proprio esclusivo vantaggio, mentre bloccano qualsiasi iniziativa che possa causare loro la minima perdita”.
E dunque, “come possono non sentirsi nuovi principi e conti, ai quali tutto è permesso e ai quali la vita sembra una fiaba? I loro figli studiano all’estero, le loro famiglie hanno accesso alla migliore medicina, hanno residenza all’estero. Chiaro che si considerino la classe superiore e considerino tutti gli altri bestiame, come i servi della Russia zarista. Nel 1917 il popolo smise di sopportare, mentre oggi noi tolleriamo in silenzio”.
Secondo il leader del sindacato dei lavoratori migranti, Renat Karimov, si avverte “l’assenza di sindacati combattivi e di un forte partito proletario; i lavoratori sono dispersi, i conflitti di lavoro hanno natura locale, non ci sono scioperi di solidarietà, che d’altronde sono proibiti dalla legislazione russa”.
Tirando qualche somma approssimativa, si può concordare con i comunisti del RKRP, a proposito della famosa frase di Putin, che “il crollo dell’URSS è la più grande catastrofe geopolitica del secolo”. In realtà, il crollo dell’URSS rappresentò “un’intera serie di catastrofi: ideologica, socio-economica, demografica. Ma Putin si rammarica solo del lato geopolitico: naturale, per un sostenitore del capitalismo liberale. Lui non rimpiange il crollo del sistema economico sovietico e delle sue conquiste sociali – assenza di disoccupazione, istruzione e assistenza sanitaria gratuite e di alto livello – che ha portato alla morte prematura di decine di milioni di ex cittadini sovietici.
Tra l’altro, nel defraudare il sottosuolo e venderne il bottino, i liberali non sarebbero stati ostacolati dalla scala geopolitica dell’URSS; il crollo dell’URSS ha ridotto le loro potenzialità geografiche, ma non i loro appetiti. Questo è ciò di cui si rammarica Vladimir Putin: non per l’URSS, come vorrebbero far credere i suoi difensori”.
È il capitalismo. Come diceva il vecchio Sismondi “L’uomo isolato lavorava per riposare; l’uomo sociale lavora per far riposare qualcun altro; l’uomo isolato accumulava i prodotti per utilizzarli dopo; l’uomo sociale vede ammassare il frutto dei suoi sudori da parte di colui che li godrà”.
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