Dal quotidiano degli Agnelli, Massimo Recalcati indirizza una struggente lettera nella quale difende a spada semi-tratta l’operato di Matteo Renzi che ha portato alla caduta di Giuseppe Conte. Una difesa improbabile, acritica, rabbiosa, fossilizzata sugli ultimi momenti di vita politica del renzismo, volutamente priva di uno sguardo rivolto alle origini.
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Una sonata minore sulla stessa aria della stagione della Leopolda: il livore. L’ultimo peana esordisce infatti col dente avvelenato verso Massimo D’Alema, il Grande Colpevole di Tutto, accompagnato da una stoccata a Bersani, tradendo un rancore antico e oggi, che la fine è vicina, libero di sgorgare. Con l’avversione verso questi due era iniziata la trionfale avanzata di Telemaco, col dito puntato verso di loro finisce la parabola di Italia Viva.
Si percepisce nitidamente un digrignar di denti coattivamente rivolto verso qualcuno, qualcosa che, appostato là fuori, ha teso un agguato al prode Telemaco portandolo al tracollo. Il livore lamentato verso Renzi è risultato proiettivo di una rabbia che, da quelle parti, ancora non sono riusciti a simbolizzare.
Scrivevo tempo fa che sin da subito il pensiero telemaico si sosteneva sull’edificazione del nemico. Prima erano gli incestuosi 5 Stelle, poi le mummie della sinistra, infine l’Italia intera presentatasi con la lettera di sfratto la sera del 4 dicembre. Mi ricorda la storiella del tipo che, in autostrada, sente alla radio: “Attenzione, un’auto in contromano”, e lui risponde: “Uno? Ma sono migliaia!”.
Questa lettera esce prudentemente adesso, dopo che un furente e saggio Sergio Mattarella ha disperatamente messo una pezza al baratro nel quale Telemaco stava per precipitarci, portandoci alle urne. Sarebbe stato interessante farla uscire ad urne aperte, in piena pandemia. Sarebbe stato interessante sottoporre questa lettera agli operai e imprenditori che, caduto il Governo, avrebbero visto evaporare i sussidi e i ristori dati dal governo Conte. A padri e madri di famiglia costretti a veder la fine del blocca licenziamenti finendo sul lastrico.
Il livore tuttavia è un buon segno. È quel rumore che accompagna la fine, quello stridore di violini che suonano mentre il Titanic si inabissa. Questa lettera costituisce l’epitaffio del renzismo. Quelli che udiamo oggi sono solo rumori. Rumori che ci consegnano il ritratto di un gruppo di uomini, politici, pensatori, attivisti i quali, alla fine della loro parabola politica, arroccati nel castello, corrono freneticamente alla ricerca di un colpevole da affiggere alle mura e al quale attribuire la causa dell’implosione che li sta seppellendo. Messaggi di questo tipo servono a compattare le ultime truppe rimaste utilizzando annunci iperbolici contro i nemici, evocando la madre di tutte le battaglie contro i cospiratori.
Leggendo queste righe si percepisce l’assedio. L’asfissia.
Manca l’aria, manca il generale che si rivolge ai soldati superstiti dicendo: smettete di combattere nemici fasulli, è finita!
L’amicizia falsa la visione delle cose, o forse il redattore ha tagliato alcune parti. Quando l’autore mostra stupore perché non crede alle sue orecchie di analista, sono quasi certo che la lettera continuava con uno stupore ancor maggiore, per un analista, per il silenzio tombale che Telemaco ha osservato mentre omaggiava Bin Salman, padrone di un luogo nel quale l’omosessualità è punita, i diritti son negati, le donne relegate ad oggetto privo di parola.
Invece su frasi quali “un presidente del Consiglio che non sarà più rappresentato da Casalino per evidente incompatibilità etica ed estetica”, è bene non dilungarsi, e chiosare. Fanno parte del medesimo lessico di chi definiva Di Maio “un ex stewart con evidenti difficoltà di ragionamento e lessicali”.
Livore, solo livore. Null’altro che livore di un movimento sul viale del tramonto.
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