Il filosofo Álvaro García Linera, tra i più importanti teorici dei movimenti sociali, e per tre volte vicepresidente di Evo Morales, oggi distantissimo da questo, sintetizza: «Che la destra si sia appropriata del paradigma del cambiamento, è figlio del conservatorismo del progressismo». È una lezione che ci ricorda quella che fu la forza creatrice del Mas, il Movimento al socialismo che seppe portare l’indio Evo Morales alla presidenza.
C’erano, negli anni Novanta e Duemila, le “guerre” per gas e acqua privatizzati dai governi neoliberali. Costarono decine di morti ma anche per quei movimenti indigeni e sociali la coscienza che un modello dove perfino l’acqua piovana appartenesse a una multinazionale potesse essere abbattuto.
C’era l’epica novecentesca del medico Chato Peredo, erede dei fratelli Peredo che morirono al fianco del Che Guevara. C’era la cosmogonia andina, aymara e quechua, incarnata dall’attuale vicepresidente, David Choquehuanca, che potresti ascoltare per ore. C’era il sindacalismo di base, soprattutto di minatori e cocaleros che espresse la leadership di Evo Morales e poi governi di grande trasformazione, di riduzione delle disuguaglianze, di transito alla classe media di parte della popolazione indigena nella stabilità economica data dalla disponibilità di commodities come il gas.
È il vecchio schema, che ha segnato l’ascesa e la caduta di tante esperienze latinoamericane. Durante il mandato di Luís Arce, che ha sostituito Morales nel 2020 per diventarne subito arcinemico, quel modello nazionalista di sinistra si è via via esaurito nella riduzione della produzione di gas, elevata inflazione, carenza di carburante e mancanza di dollari, che hanno reso insostenibili i sussidi statali per l’integrazione delle classi subalterne.
SENZA EVO NON C’È ELEZIONE
Così il Mas è imploso. Non per cause esogene, l’imperialismo americano che pure l’ha osteggiato sempre o l’eversione delle destre bianche, che volevano la secessione delle zone ricche di Santa Cruz per non farsi governare dall’indio, e poi nel 2019 arrivarono al colpo di stato. Le cause sono endogene, interne a un partito che nel 2020 elesse 21 senatori su 36 e 75 deputati su 130, e oggi elegge un deputato e zero senatori.
Al presidente Luís Arce si addebita la crisi, ma anche la mancanza totale di empatia verso un elettorato del Mas che resta indigeno, contadino, popolare, di sinistra.
D’altra parte è stato Arce a rendersi protagonista di una guerra giudiziaria contro l’arcinemico Evo Morales, che oggi vive da ricercato nel Chapare.
Evo, appena fuori dal Palazzo Quemado di La Paz, ha sviluppato la sindrome di Luigi XV dell’ “après moi le déluge”, per trasformarla in una profezia che si autoavvera. Ha promosso una campagna per il voto nullo che ha chiamato “Senza Evo non c’è elezione”, e oggi si dichiara «molto soddisfatto» (sic) del 19 per cento di boliviani che hanno annullato la scheda, affossando le speranze di ballottaggio del suo ex-delfino Andrónico Rodríguez, 36 anni, e con una personalità popolare e sindacale molto simile a quella di Evo. È bastato che si candidasse per diventare anche lui nemico.
CAPITALISMO PER TUTTI
La catastrofe del Mas ha rimescolato il quadro politico. Le due cariatidi della destra neoliberale che si rappresentavano come “il nuovo”, pur essendo in politica da quarant’anni, Samuel Doria Medina, terzo ed escluso dal ballottaggio, e Tuto Quiroga, secondo col 28 per cento, non hanno visto arrivare il democristiano Rodrigo Paz, figlio di quel Jaime Paz Zamora del quale entrambi in gioventù erano stati ministri che, con un 8 per cento dei sondaggi, è arrivato al 31 per cento, votato anche da moltissimi elettori del Mas che dall’attesa del socialismo son passati al «capitalismo per tutti» slogan di Paz.
Nato in esilio in Spagna 57 anni fa, ha stravinto nella capitale e in tutti i dipartimenti andini, mentre Quiroga ha vinto a Santa Cruz, rideclinando la contrapposizione tra Bolivia bianca e indigena.
Dire di Rodrigo Paz “democristiano” vuol dire etichettare un moderato che ora cerca il voto della sinistra e, se vincerà, dovrà manovrare una palude parlamentare da dove è scomparso l’attore principale degli ultimi vent’anni. In questi mesi ha battuto il paese palmo a palmo – dichiara di aver fatto 230.000 km – potendo dire, fin nei più piccoli villaggi, «io conosco la Bolivia, Doria Medina e Quiroga (due businessman) non li conoscono».
Al ballottaggio si scontrerà con Tuto Quiroga che, a questo punto, prende i galloni dell’estrema destra che guarda a Donald Trump e Javier Milei.
Le elezioni che per vent’anni s’erano vinte a sinistra adesso si vincono al centro, con la variabile impazzita del 19 per cento di voto nullo in mano a Evo Morales.
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