lunedì 25 giugno 2012

POLITICA E FINE DEL DISSENSO. SEBASTE B., La messa al bando della politica, L'UNITA', 23 marzo 2012

E’ così da anni, ma le distrazioni di massa del premier puttaniere e la sua pittoresca dittatura pubblicitaria impedivano di vederlo: la politica è scomparsa, implosa. Il dissenso è relegato ai margini, praticamente bandito. E con la scusa di screditare le ideologie (troppo volgari?), abbiamo liquidato le idee. Il cosiddetto governo “tecnico” non attesta ovviamente solo il fallimento dei politici, ma l’obbligo di consenso a un’azione di governo che, per definizione, non si assume responsabilità politiche. Pur essendo (eccome) sia politiche che ideologiche. Torna insomma d’attualità la definizione della tecnocrazia che risale agli anni ’60, anzi agli autori della beat generation (che intanto guardiamo al cinema: è in uscita On the road): quel sistema impersonale e a suo modo totalitario in cui ogni tecnico si appella a un altro tecnico e nessuno è responsabile di nulla, come nella burocrazia.


La politica ridotta a gestione notarile dell’esistente non esclude però la violenza della decisione, come mostrano la vicenda della Tav e quella del lavoro (dell’articolo 18). Anche negoziare è troppo politico, disturba e impedisce l’azione efficace del governo, come già il Parlamento secondo l’ex premier era una perdita di tempo. Di fatto, il Parlamento è esautorato visto che il governo non ha opposizione, e il consenso è d’obbligo, anzi preliminare. Un circolo vizioso che mette i brividi.
Avere idee diverse sul mondo, sull’economia e sui valori della nostra civiltà è consentito al massimo nelle conversazioni da salotto o nelle pagine culturali, non nell’agenda politica. Si predica il dialogo, ma senza porre in discussione i paradigmi e gli imperativi vigenti, come l’impersonalità del mercato (la circolazione delle merci) o la retorica della velocità (al centro della Tav e di altri scempi ambientali, come il raddoppio della superstrada per Leuca che devasterà un parco archeologico e naturale nel Salento), o l’indifferenza dell’economia ai diritti e alla dignità di chi lavora. Politica non è solo l’esercizio di una cittadinanza, come giustamente rivendicato al convegno di “Giustizia e Libertà”, ma significa immaginare il mondo, anzi i mondi, promuovere valori e orizzonti impensati o nascosti dalla loro evidenza – come la lentezza, le risorse del cosiddetto glocal, l’inesauribilità del patrimonio culturale riscoperta da poco come investimento economico. E, per quanto cancellata alla vista, significa non negare la dialettica delle classi sociali – il cui esercizio è censurato ai deboli ma non ai potenti. E intanto continua a fare scandalo – come quando il dimissionario governo greco voleva sottoporre al giudizio del popolo le dure misure economiche che di fatto ne hanno tolto la sovranità – anche l’idea di un referendum sulla Tav, cioè il puro esercizio della democrazia.
A proposito: è circolato nei giorni scorsi un appello internazionale di intellettuali dal titolo “Salviamo il popolo greco dai suoi salvatori” (il sottoscritto figura tra i primi 20 firmatari). Sostiene come la svendita della Grecia, cioè il suo fallimento differito per salvare non il popolo greco ma i suoi creditori, non sia che “il laboratorio di un cambiamento sociale che in un secondo momento verrà generalizzato a tutta l’Europa”, il cui modello è una società senza servizi pubblici e dove la parte più vulnerabile della popolazione è destinata a un’eliminazione programmata attraverso forme estreme di povertà e precarizzazione. Un’esagerazione? Non credo. (L’appello è leggibile qui, dove si può aderire: http://www.editions-lignes.com/sauvons-le-peuple-grec-de-ses.html) (e qui in italiano: http://beppesebaste.blogspot.it/2012/02/salvamo-la-grecia-dai-suoi-salvatori-un.html ).

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