La didattica a distanza, partita alla fine di febbraio con tanta buona volontà da parte dei docenti e, inevitabilmente, non poca improvvisazione, si è trasformata in un treno lanciato a gran velocità sui binari della scuola del futuro, senza nemmeno il tempo di un rodaggio che ne valuti la solidità e la tenuta di strada. Da modalità emergenziale, cui ricorrere per non interrompere la relazione educativa con gli studenti, è stata già promossa a modalità ordinaria da assumere per imboccare la via virtuosa dell’innovazione, anche quando cesserà quello stato d’eccezione che ne ha giustificato l’uso.
L’utilità della didattica a distanza, partita alla fine di febbraio con tanta buona volontà da parte dei docenti e, inevitabilmente, non poca improvvisazione, si è trasformata nel giro di appena due mesi, senza nemmeno avere avuto il tempo di un rodaggio che ne valuti la solidità e la tenuta di strada, in un treno lanciato a gran velocità sui binari della scuola del futuro. Peccato che, sotto la spinta di venti fortissimi, rischi di deragliare per avere preso il binario sbagliato: da modalità emergenziale, cui ricorrere per non interrompere la relazione educativa con gli studenti in questa precisa situazione indotta dall’epidemia da Covid 19, è stata già promossa a modalità ordinaria da assumere per imboccare la via virtuosa dell’innovazione, anche quando cesserà quello stato d’eccezione che ne ha giustificato l’uso.
Malgrado la notevole capacità di reagire ad una circostanza eccezionale dimostrata oggi dagli insegnanti e nonostante il profluvio di riforme di cui è stata teatro negli ultimi decenni, la scuola, per la composita squadra di esperti dell’educazione a vario titolo che occupano la scena pubblica, rimane sempre indietro, non è mai all’altezza delle aspettative che la società le assegna di volta in volta, deve continuare a dimostrare la sua disponibilità ad adeguarsi alle richieste che premono da tutte le parti, anche in modo contraddittorio.
Ora, l’epidemia ha fornito una succosa opportunità che non si mancherà di mettere a frutto, tanto più che promette interessanti sviluppi- sotto l’aspetto economico e sotto quello culturale ed ideologico- che potrebbero finalmente liberare la scuola da quelle residue e vetuste pratiche che ostacolano ancora la sua perfetta integrazione nella società di mercato, che è poi l’obiettivo finale di tutta la mitologia dell’innovazione in campo educativo. Considerata la rapidità dei mutamenti tecnologici e produttivi, la scuola non può che essere alla perenne loro rincorsa, una volta messasi su questo piano, e può annullare lo scarto (che, invece, è molto fecondo) solo rinunciando ad essere se stessa- luogo di elaborazione di percorsi individuali e collettivi di crescita culturale ed affettiva in senso lato – per trasformarsi in un’ agenzia formativa fornitrice di capitale umano.
Le resistenze a questo modello sono ancora troppe: nonostante incertezze, contraddizioni e tentennamenti, la maggior parte dei docenti continua a ritenere che spiegare una poesia o illustrare un dipinto, ragionare su un filosofo o un teorema rappresentino un’opportunità unica per i ragazzi e continua a concepire ricchezza e sviluppo in termini non riconducilbili al PIL. Bisogna dunque aiutare gli insegnanti a svecchiarsi, a liberarsi da arcaiche suggestioni umanistiche che si puntellano sulla trasmissione delle conoscenze e la lezione frontale, per avviarli a divenire coach di una squadra dinamica, proattiva e performativa.
Cambiare la mentalità di insegnanti e studenti è una sfida importante tanto quanto offrire alle grandi imprese della rete un’appetitosa fetta di mercato. Da un lato, queste ultime entrano da protagoniste nel sistema dell’istruzione con tutto il peso dei loro ingenti interessi economici, dall’altro la scuola rappresenterà uno straordinario terreno di coltura per imprimere un’accelerazione significativa alla colonizzazione di ogni ambito dell’esistenza (sin dalla prima infanzia) da parte del digitale.
Ciò che legittimamente inquieta è la rapidità di tale processo e il carattere di inevitabilità che gli viene attribuito, senza che vengano minimamente prese in considerazione le numerose ricerche effettuate da studiosi di diverse discipline che mettono in luce criticità, pericoli e limiti del digitale sui processi di apprendimento[1], così come le esperienze negative registrate in contesti scolastici che hanno fatto largamente ricorso alle nuove tecnologie. [2]
Riserve e prudenza, che dovrebbero informare l’approccio alla questione, se ne fosse chiara la complessità e la molteplicità di livelli che essa comporta, vengono invece allegramente derubricate a consuete espressioni di passatismo e di ripiegamento su antiche certezze di fronte al nuovo che avanza. Ora, anche se l’e-learning si rivelasse un efficacissimo metodo di insegnamento -cosa ancora tutta da dimostrare- basterebbe, comunque, considerare l’impatto sociale e culturale devastante delle grandi “innovazioni“ che hanno investito i paesi europei dall’inizio degli anni ‘80 ad oggi per legittimare un atteggiamento perlomeno dubbioso nei riguardi dell’ennesima “rivoluzione”.
Se, poi, consideriamo che la didattica in remoto si combina inevitabilmente con lo smart working, i contorni di questo vantato cambiamento si precisano in modo piuttosto allarmante: l’ammiccante e furbesca espressione inglese non basta a nascondere il suo carattere pesante, tanto invadente da abbattere la divisione tra tempo di lavoro e tempo di vita, a tutto vantaggio del primo, naturalmente. Il lavoro agile presenta dei vantaggi indubbi che vanno proprio nel senso delle “magnifiche sorti e progressive” messe in cantiere dagli alfieri dell’innovazione: il lavoratore è isolato, lavora non in base ad un orario, ma ad un obiettivo da raggiungere, secondo la modalità prescritta dal new management, mette a disposizione i suoi stessi mezzi di produzione, della cui manutenzione e sicurezza si prende cura, sollevando l’azienda da tutta una serie di responsabilità che era stata costretta ad assumersi. In breve, diventa un imprenditore di se stesso, il prodotto ultimo dell’antropologia neoliberista, finalmente libero da tutele sindacali e vincoli contrattuali che ne mortificherebbero il talento e il merito. Rispetto all’imprenditore classico, mancano i profitti, ma le vie del mercato sono infinite e da lassù il successo può sempre arridere….
E’ da anni che i contratti nazionali collettivi sono oggetto di ripetuti attacchi ad opera delle forze del rinnovamento, in primis ambienti confindustriali e loro padrini politici; residue pattuglie sindacali e una diffusa mentalità nostalgica di vecchi diritti hanno continuato a fare da argine alla piena dell’innovazione, ma lo smart working, celebrato in questi giorni come risposta perfetta al problema del traffico nelle città e dunque già iscritto d’ufficio fra le buone pratiche, può finalmente aprire un’autostrada al superamento di queste arcaiche regolamentazioni.
Non è certo inutile ricordare che uno dei think tank ispiratori della buona scuola (ispirato, a sua volta, da fondazioni bancarie e Confindustria) addita proprio nello stato giuridico, nel contratto di lavoro e nell’organizzazione del lavoro gli ostacoli maggiori alla valorizzazione della professionalità del docente.[3]
La didattica tramite piattaforme digitali rimette sicuramente in discussione questi aspetti organizzativi, contrattuali e giuridici. D’altronde, l’infatuazione per l’insegnamento a distanza non ha aspettato il noto virus per manifestarsi: è di qualche tempo fa il rilievo compiaciuto dato dal blog di Beppe Grillo ad uno studio che prevedeva per il 2027 la sostituzione degli insegnanti con avatar.[4] Derubricare questo scenario avveniristico a pura fantascienza significa ignorare che esso rappresenta l’esito estremo di una tendenza alla digitalizzazione dell’insegnamento e dell’apprendimento che si evidenzia come una delle costanti delle politiche scolastiche degli ultimi vent’anni. Dai videogiochi considerati come “la più grande rivoluzione epistemologica del Novecento“ da Marigliano, consigliere del ministro Berlinguer , nonché del think tank Treellle, alla scuola delle tre I( una delle cui stampelle era l’informatica) della ministra Moratti, al Piano Nazionale Digitale della buona scuola alle recenti dichiarazioni del presidente pentastellato della Commissione Cultura, Scienza, Istruzione della Camera Gallo che saluta con entusiasmo nella DAD “ la miccia di un primo graduale cambiamento” che vedrà affiancarsi didattica in presenza e didattica digitale e a distanza [5], la continuità si afferma a chiare lettere e travalica divisioni partitiche e ideologiche. Ultima arrivata, la Commissione di esperti voluta dal ministro Azzolina, dichiaratamente orientata in questa direzione, la quale trova, poi, un suo punto di riferimento più generale nelle posizioni del capo della task force incaricata di traghettare il Paese verso la fase 2 dell’emergenza. Vittorio Colao inneggia ad un futuro non troppo lontano in cui, grazie al 5G,“ si potrà fare tutto in remoto” e preconizza radicali cambiamenti che investiranno anche il mondo del lavoro.[6]
Una uniformità così accentuata traduce, nel migliore dei casi, la diffusa paura che la scuola non riesca a “stare al passo con i tempi” (come se non fosse proprio il luogo deputato ad un tempo “altro”, il tempo dell’otium, tempo lungo per rielaborare conoscenze, per pensare, per ascoltare, per domandare ), ma esprime, nelle sue linee di fondo, la necessità, cui i decisori politici sono piuttosto sensibili, di creare le condizioni per la formazione di profili professionali e attitudini mentali adeguati alle richieste del mercato e dei nuovi processi produttivi.
Il forte nesso tra digitale e didattica per competenze fornisce la chiave di volta per una più ampia e contestualizzata comprensione delle dinamiche in atto.
Che l’informatica sia oggi uno strumento indispensabile o perlomeno molto utile in svariati ambiti, ivi compreso quello culturale, è indubbio e come tale deve trovare una sua adeguata collocazione nella scuola; il problema nasce dalle sue crescenti pretese assolutizzanti, dall’ interessata tendenza a promuoverla da strumento a fine, da mezzo fra gli altri per arricchire un determinato percorso disciplinare a metadisciplina, quadro di riferimento obbligato per nuovi processi cognitivi.
La situazione “sospesa” che stiamo vivendo è esemplare a questo proposito: le tecnologie della comunicazione si sono rivelate davvero utili per mantenere la continuità didattica in tempi di chiusura degli Istituti, ma il loro uso -come è denunciato da un numero considerevole non solo di docenti, ma pure di genitori e studenti- nel giro di poche settimane è diventato massiccio, pervasivo ed invasivo e sempre più esse finiscono per imporsi come modalità unica di didattica a distanza e come sostituti a pieno titolo della lezione in aula. Da questo alla loro istituzionalizzazione, il passo è breve, considerato anche il plauso del Ministero, gli incitamenti della stampa, la pressione di forti interessi economici.
Una legittimazione in tal senso potrebbe provenire dagli insegnanti stessi, molti dei quali- per quanto desiderosi di ritornare ad un rapporto diretto con i loro studenti- tendono a riprodurre anche in questo periodo e non necessariamente dietro richiesta dei Dirigenti Scolastici organizzazione, tempi e ritmi consacrati dalla routine scolastica: interrogazioni, verifiche, valutazioni, riproposizione dello stesso schema orario delle lezioni in aula. Insomma, un doppione di una normalità che non c’è e che in tanti suoi aspetti, prima di tutto quello dell’ossessione valutativa, andrebbe comunque ripensata. Al netto delle buone intenzioni, questa tendenza rischia di accreditare la DAD come sostituto della lezione in presenza piuttosto che come rimedio temporaneo per non interrompere il filo della relazione educativa e, pertanto, di aprire le porte della scuola che verrà all’introduzione progressiva dell’ e-learning. Insomma, complice la grancassa mediatica ed una certa acquiescenza rassegnata di molti docenti, è fortemente probabile che la DAD entri nel senso comune e si trasformi a breve termine in didattica tout court chiamata ad integrare le attività in classe, contenitore sociale indispensabile finché non si sarà trovata un’ adeguata soluzione al problema posto dalla collocazione di ragazzi troppo piccoli per restare a casa mentre i genitori sono al lavoro. Si confida, comunque, in qualche app per il monitoraggio e il controllo dei minori…
Da subito, la consapevolezza critica da parte degli insegnanti nei confronti di questa inedita esperienza vissuta dalla scuola in tempi di Covid 19 dovrebbe prevalere su quell’atteggiamento esecutivo che troppe volte ha favorito l’accettazione di idee e pratiche estranee al contesto educativo, ma molto vicine alle istanze del mondo imprenditoriale. Gli studenti stessi vanno coinvolti in questo approccio razionale che potrebbe costituire il punto di partenza per una salutare demitizzazione della rete, ricollocata dal cielo delle possibilità infinite alla concretezza della sua dimensione materiale, in tutte le sue sfaccettature.
Inoltre, si potrebbe evitare di dare priorità alle videolezioni sulle piattaforme digitali e sperimentare altre modalità di DAD, a partire, per esempio, da una riproposizione della lettura, troppo spesso sacrificata durante il tempo scuola.
Dovrebbe essere chiaro che la partita in gioco è grande e va ben oltre la fine di questo anno scolastico: coinvolge in profondità modelli culturali ed educativi, nonché la stessa organizzazione del lavoro dei docenti. Queste settimane ce ne hanno dato un assaggio: dilatazione degli orari lavorativi, flessibilità assoluta e connessione permanente, esposizione sulle piattaforme senza tutele per la privacy e la salute. Le innovazioni da troppo tempo a questa parte finiscono sempre per imboccare questa strada…
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