Prendo la parola per fatto personale. Personale ma anche a nome di quei colleghi — Cinzia Bearzot, Giovanni Belardelli, Silvia Capuani, Elvira Migliario, Marco Pellegrini, Federico Poggianti, Adolfo Scotto di Luzio — che insieme a me (che non ero il loro Führer ma semplicemente il coordinatore del gruppo) hanno preso parte per quanto riguarda la materia «storia», all’elaborazione delle nuove «Indicazioni nazionali» per la scuola volute dal ministro Valditara. Lo faccio per rispondere ai nostri critici (per fortuna peraltro non sono mancate voci di apprezzamento).
Con una premessa: capisco il loro problema di non avere a disposizione il testo delle indicazioni ma di doversi basare unicamente su un’intervista del ministro; capisco bene altresì che in Italia se una qualunque cosa viene comunque auspicata promossa e organizzata dal ministro di un governo di destra questa cosa non potrà per definizione che apparire agli amici della verità come «nostalgica», «reazionaria», «passatista», «punitiva», «conservatrice», «propagandistica» espressione dell’«afasia di una classe dirigente che si è ritrovata al potere quasi per caso» e via di questo passo (così qua e là sui giornali di ieri). Ma forse anche gli apostoli dei «progressi dello spirito umano» troveranno perlomeno esagerato sostenere, ad esempio, che con le suddette indicazioni la nuova scuola intenderebbe dar vita a «un’istruzione pubblica funzionale alla costruzione di un futuro elettore sovranista» (Il manifesto) o essere d’accordo con Elly Schlein secondo la quale il nostro ministro dell’Istruzione «sembra strizzare l’occhio alla repressione, rimpiange un tempo di bacchettate sulle mani, orecchie d’asino e ceci sotto le ginocchia» (nientemeno!).
Tutto questo per dire che forse nel parlare delle cose della scuola servirebbe un po’ meno di furore partigiano e un pizzico in più di ragionevolezza e di senso della realtà. Ad esempio non sarebbe meglio partire sempre dall’effettiva, attuale condizione — catastrofica — dell’istruzione nel nostro Paese? Ad esempio che chi critica dicesse se secondo lui la scuola italiana attuale funziona a dovere, e se no perché, e che cosa lui propone di cambiare, di fare? Ma che ce lo dica, per favore, tenendo conto della realtà, non limitandosi a enunciare ovvietà sacrosante tipo pagare di più gli insegnanti o costruire nuovi edifici scolastici — che peraltro nessuno dei tanti governi succedutisi nei decenni ha mai realizzato.
Vengo ora alle critiche diciamo così nel merito che sono state fatte alle nostre indicazioni per la storia. In sostanza sono due, anche se spesso confuse e accavallate: A) le linee guida in questione avrebbero un’impostazione marcatamente ideologica e perfino confessionale (vedi Bibbia); B) in tutta la loro impostazione spira un ritorno al passato come si vede dal fatto che in esse c’è solo l’Occidente e l’Italia, manca il mondo.
Rispondo a ognuna. A) Certo che in quelle indicazioni c’è un’impostazione ideologica. Dirò meglio: c’è una determinata visione del passato, delle ragioni del suo accadere e del suo significato e quindi dell’opportunità del suo insegnamento, costruita sulla base dei nostri valori morali e civili attuali. Ma non è forse così per chiunque si occupi a qualunque titolo di storia? Voglio sperare di sì vivaddio! In realtà chi muove tale critica vuole fare credere che quanto sopra significhi essere faziosi, e che naturalmente gli altri lo sono mentre lui solo non lo sarebbe. Una pietosa menzogna. Quanto alla Bibbia ci si è rimproverato addirittura di volerla far «studiare» in barba a ogni laicità della scuola. Ma quando mai? Abbiamo solo pensato a quel testo come al «grande codice» della letteratura mondiale (mai sentito parlare di un certo Northrop Frye?) e che quindi le sue «storie», affiancate a quelle di Omero o di Virgilio, potessero essere utilmente proposte a dei bambini di sei sette anni come introduzione «favolistica» al passato più remoto della nostra civiltà, all’eco che esse ancora hanno nel nostro presente
B) È vero: nelle nostre indicazioni — salvo per l’ultimo anno dove la storia mondiale invece irrompe e la fa da padrona (si prega di prendere nota) — sono in gran parte prevalenti l’Italia e l’Occidente. Non c’è la storia del mondo. Ma qui è necessario essere chiari e smetterla di esercitarsi in una spudorata demagogia. Sapere di storia non significa sapere quattro nozioni appiccicate alla bell’e meglio. Significa riuscire a connettere fatti e personaggi di un Paese o di una civiltà, a padroneggiarne un minimo il contesto geografico economico religioso, a saperne lo sviluppo nel tempo. E allora si faccia avanti chi pensa davvero che dei bambini di 8 ,9 anni o anche dei ragazzi di 15, 16 possano spaziare con un minimo di agio, come ora detto, dalla Cina al Giappone, dall’America Atzeca e Inca ai regni africani, dall’India del Mogul all’Orda d’oro e all’impero mongolo. Non si può sapere tutto, ahimè, e chi pretende il contrario, chi pretende che a scuola si possano insegnare due millenni di storia mondiale è semplicemente un imbroglione. Ma se dunque è inevitabile scegliere, si può decentemente dubitare, mi chiedo, che la scelta non debba cadere sull’Italia, sulla sua storia, e insieme sul più vasto contesto geo-storico-culturale con cui essa è venuta in contatto, alle cui vicende le sue si sono alimentate e che queste hanno alimentato, cioè sulla storia dell’Occidente?
Ogni critica , insomma non solo è lecita ma benvenuta. Prima di criticare non sarebbe male però pensare a quello che si sta per dire.
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