Il Futuro è un cuore antico di Carlo Levi, del 1956, reportage di un viaggio compiuto in Unione Sovietica nell’autunno del 1955, viene ora ripubblicato da Einaudi (con una introduzione di Stefano Levi Della Torre) insieme alle altre sue opere fondamentali (è il cinquantesimo anno dalla sua morte). La lettura del libro mi suscita ammirazione, oltre che un piacere intenso della lettura, e insieme una lieve delusione dal punto di vista politico, il rimpianto per una occasione mancata. Ricordo come il viaggio di Levi avviene appena prima il disgelo del XX congresso del Pcus e la denuncia da parte di Kruscev dei crimini di Stalin.
Perché ammirazione? Perché Levi rinnova qui un genere letterario italianissimo, il reportage narrativo (ne accenna Mattia Acetoso nella postfazione), che va da Serao e Gozzano a Soldati, da Alvaro e Aleramo a Piovene e Parise, da Moravia e Pasolini a Manganelli e Fallaci, e in anni più recenti fino ad Alessandro Leogrande (memorabili il suo Naufragio, sulla tragedia in mare del 1997, 57 morti ), prematuramente scomparso. In queste pagine ritroviamo la mirabile prosa lirica di Levi, il suo stile intessuto di abbaglianti metafore, non estraneo alla esperienza della pittura, ma anche attento al dettaglio realistico. Probabilmente la qualità visiva della sua scrittura, la minuzia dell’osservazione, dovettero influenzare Italo Calvino. E ritroviamo pure la vocazione romanzesca, drammaturgica, i ritratti dei personaggi che incontra, incisi con pochi tratti, la figura del suo accompagnatore Stefano. Solo un prelievo: “Il silenzio della neve si sparge per la foresta…quelle brevi radure… sono diventate uno sconfinato, misterioso bosco del Nord”.
Inoltre, ritroviamo qui anche il “confronto tra mondi” che come dice Levi Della Torre, “è un argomento centrale in Levi”, la rivelazione di una alterità, di un mondo diverso da quello borghese, con altri tempi e altre logiche, e che ci mostra altre modalità dell’umano. Così come era avvenuto con Cristo si è fermato a Eboli e la civiltà contadina, arcaico-magica del Sud. In questa curiosità antropologica potremmo riconoscere una analogia con Pasolini (di cui era amico e del cui film Accattone disegnò il manifesto), attratto dal mondo del sottoproletariato, dai ragazzi di borgata. Entrambi, si badi bene, non intendono rieducare questi mondi altri, o risanarli, piuttosto sono alla ricerca di uno sguardo diverso sulle cose, diverso da quello della borghesia laico-illuministica,e che mostra un contatto con la dimensione del sacro. Leggendo poi queste pagine stringe il cuore la descrizione di Kiev, la città più bella di tutte, e dell’affetto filiale che le riservano i suoi abitanti, così amata che ogni suo angolo risente nell’aspetto “di questo diffuso e continuo amore”.
E passiamo alla delusione. Levi nel suo viaggio si beve acriticamente tutto quello che i funzionari gli raccontano, e trova solo conferme della bontà della patria del socialismo. Va bene, non era tenuto a sapere dei gulag, benché nel 1952 fosse uscito Un mondo a parte di Gustav Herling (prigioniero in Russia nel 1941, in un gulag che prefigura quelli successivi per i dissidenti). Ma possibile che non si accorge di niente? Certo, si interessa alla vita di tutti quelli che incontra, ma tutti gli sembrano contadini lucani (cittadini qualsiasi, burocrati, astronauti, dirigenti, scrittori…)! Come se l’Urss fosse una sterminata Lucania – con la sua “modalità contadina dell’accoglienza” – mettete solo gli Urali al posto dei calanchi! La stessa Mosca è “una grande campagna fatta di case”.Ora, la mia obiezione potrebbe sembrare astratta, incapace di contestualizzare, ignara del clima soffocante della Guerra Fredda.
Eppure l’anno prima in Urss c’era stata Anna Maria Ortese, con l’Udi (organismo del PCI). Ora la Ortese aveva uno sguardo impolitico, anche ingenuo e privo di strumenti raffinati di analisi, però capisce tutto, ci racconta una disillusione, e le basta entrare in un caffè per vedere le nuove gerarchie di potere e le nuove ingiustizie. Levi gira il paese in lungo e largo e non vede quasi nulla, non percepisce l’involuzione burocratico-autoritaria del regime.Eppure aveva fatto politica fin da giovane, e perdipiù nelle file di GeL e poi del Partito d’Azione, entro un antifascismo libertario e antitotalitario, insomma quello giusto! Ma anche nel suo reportage del 1959 – La doppia notte dei tigli – su un viaggio in Germania, ci mostra, di fronte a una Berlino Ovest ridotta a “vetrina senza vita”, una simpatia imbarazzante per Berlino Est, per la Repubblica Democratica Tedesca, per lui più autentica e “rispondente a una profonda tradizione popolare”, mentre sappiamo che si trattava di un regime distopico quant’altri mai, controllato capillarmente dalla famigerata Stasi, la polizia segreta, con la sua rete di agenti e informatori.
Confesso che dal Futuro ha un cuore antico mi sarei potuto aspettare il secondo capitolo dell’Orologio: lì la presa d’atto di un disincanto, di un tradimento (degli ideali della Resistenza), qui la cronaca di un altro tradimento (degli ideali del socialismo, dell’idea egualitaria, nella patria del socialismo). A tratti Levi è perfino esasperante, quando difende ad oltranza ogni cosa che vede, anche il “caloroso Kitsch” dell’oggettistica (quasi gozzaniana), per lui lontana dal nostro moralismo del buon gusto o perfino i ritardi dei voli interni, la totale inefficienza degli aerei russi, dal momento che non sono asserviti al profitto e alla fretta nevrotica degli occidentali!
Quali le ragioni di questa reticenza? Da una parte l’ottimismo caratteriale, quasi “fisiologico” di Levi, che ama così tanto la vita e la luce (potrei dire il sol dell’avvenire!), che spesso si mostra meno sensibile nei confronti dell’ombra, di ciò che non funziona. Poi il fatto obiettivo di una ripresa dell’Urss dopo la catastrofe bellica, e uno dei sintomi della ripresa è che i libri sono dappertutto (anche i libri di Levi!). Infine, visto che a un certo punto incontra Sartre, di ritorno da un viaggio in Cina (ovviamente entusiasta di quella civiltà!) viene in mente il ragionamento di Sartre quando tornando in Francia parlò bene del regime sovietico, e la sua polemica con Camus: parlarne male significava indebolire la classe operaia della Renault. Ovviamente aveva ragione Camus.
Può darsi che il futuro – e qui “futuro” sta per utopia, per progresso umano, per un mondo più giusto – abbia un cuore antico, e per parafrasare Marx non sia che la realizzazione del sogno di una cosa (che l’umanità ha da sempre). Però il “futuro” non stava più nell’Unione Sovietica, si trovava da un’altra parte, nella insurrezione dal basso di Budapest del 1956, in quella rivolta spontanea – schiacciata dall’Armata Rossa – di cui Hannah Arendt fu testimone entusiasta, e di cui scrisse, sottolineando il legame tra Comune di Parigi e i consigli operai ungheresi, un potere radicalmente democratico.
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