reat job! Thank you». Sono state queste le parole con cui Donald Trump ha ringraziato Benjamin Netanyahu: «Bel lavoro! Grazie». Dopo aver detto, con il sorriso sulle labbra, con il tono di una battuta tra amici al bar: «Ti ho dato le armi migliori e le hai usate bene».
Silenzio.
Il capo del governo italiano ha urlato la sua indignazione, con il solito repertorio di smorfie, vocine e frasi urlate, per una infelice battuta di Maurizio Landini, che l’ha definita «cortigiana di Trump». Certo il segretario della Cgil poteva esprimersi meglio e credo che con “cortigiana” volesse dire succube, al servizio di e non prostituta, di cui il termine cortigiana è più una metafora. Ma su «Great job! Thank you», non una parola.
“Lavoro”, già questo termine era stato usato dal premier israeliano alle Nazioni Unite: «Porteremo a termine il nostro “lavoro”». Come un meccanico che deve finire di riparare un’auto o un imbianchino che deve terminare di verniciare una parete.
Lavoro, come si può definire così un massacro durato due anni, che ha causato la morte di oltre sessantamila persone? Non è solo il cinismo verbale dei due “lavoratori” a indignare, è il delirante distacco da ogni forma di umanità. È la versione 2.0 della banalità del male. Di chi, come molti gerarchi nazisti perpetuavano massacri quotidiani, facendo calcoli di costi, redigendo tabelle con dei numeri, come nella normale routine di un impiegato delle poste.
«Cosa ti aspettavi? Artigli? Incisivi di grandi dimensioni? Saliva verde? Follia?» scrive Leonard Cohen in una sua intensa poesia. Ecco l’errore, pensare che i cattivi siano come in certi film di bassa lega, facilmente riconoscibili dallo sguardo truce. Invece, la crudeltà passa attraverso l’aria compiaciuta di Donald e Bibi, che si congratulano per il lavoro ben fatto, come due artigiani che contemplano il loro bel manufatto. Passa anche attraverso il silenzio dei cosiddetti “grandi del mondo”, che sono invece piccoli cortigiani (nel senso di servili, se non adulatori), che hanno taciuto di fronte a quelle parole.
La disumanizzazione: è questo il primo elemento che serve per fare un “buon lavoro”, ridurre le vittime a oggetti di cui non vale neppure la pena contare il numero. Cose su cui si può persino scherzare, per passare un istante dopo a parlare di business, di progetti di ricostruzione, appena si siano depositati i fumi dei bombardamenti. Gioco, questo, a cui si sono subito prestati anche i nostri governanti, che tappandosi le orecchie per non sentire i pianti di dolore di tante, troppe persone che hanno perduto i loro cari, si sono immediatamente affrettati, da buoni cortigiani, a sgomitare per avere un posto nell’affare Gaza.
Questo è il segno della piccolezza di molti politici, gli stessi che, supportati da media complici, finiscono per distrarre l’attenzione da queste tragedie, negando i fatti, come nel caso della portavoce Rai e di altri esponenti politici oppure per concentrarle su piccole beghe interne. Le parole sono pietre e il linguaggio è una terribile cartina di tornasole per comprendere i pericolosi cambiamenti che stanno avvenendo nella nostra società, sempre più disattenta. A rimanere indifferenti, l’asticella dell’accettazione si alza sempre di più, fino a che troveremo normale tutto questo.
Paragonare un’azione militare finalizzata a un massacro a un “lavoro” è una pesante opera di camuffamento lessicale, che peraltro rivela le intenzioni di compiere una completa eliminazione di un popolo: un genocidio.
Ricordiamo i versi di Bertolt Brecht: «E - vi preghiamo - quello che succede ogni giorno/non trovatelo naturale/Di nulla sia detto: è naturale/in questi tempi di sanguinoso smarrimento,/ordinato disordine, pianificato arbitrio,/disumana umanità,/così che nulla valga/come cosa immutabile».
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