martedì 11 novembre 2014

LO SFALDAMENTO DELLA SOCIETA' ITALIANA. E. GALLI DELLA LOGGIA, Argini infranti di una comunità. I segni di un degrado civile, CORRIERE DELLA SERA, 11 novembre 2014

L’Italia innanzitutto cade a pezzi. Il Paese fisico, il suo territorio, è perennemente sotto una spada di Damocle dall’Alpi alla Sicilia. In qualunque parte della Penisola bastano in pratica 24 ore di pioggia intensa per allagare interi quartieri di città, far chiudere le scuole, far franare tutto ciò che può franare, per interrompere ogni genere di comunicazioni. E regolarmente dopo che da anni ed anni tutti i rischi erano a tutti ben noti; e sempre, o quasi, dopo che i fondi per i lavori necessari erano stati stanziati, e sempre, o quasi, perfino dopo l’esecuzione dei lavori stessi. Ma non c’è niente da fare. Piove, e regolarmente i muraglioni costruiti si sbriciolano, gli argini alzati non tengono, i sistemi fognari saltano, i ponti crollano: il nostro destino è l’esondazione. 



L’Italia poi è di chi se la vuol prendere. Chiunque, su un autobus o un treno di pendolari, solo che lo voglia (e lo vogliono in tanti) può non pagare il biglietto, può lordare, rompere, imbrattare con lo spray, intasare i gabinetti, minacciare i passeggeri, aggredire il personale. Per strada può fare dei cassonetti dell’immondizia e di qualunque altro arredo urbano ciò che più gli garba. In ogni caso l’impunità è garantita. E tanto più se si tratta dell’Italia dove vive la parte più debole della popolazione, quella che non prende l’Alta Velocità, che la notte non può permettersi un taxi: se si tratta cioè dell’Italia del Sud e delle periferie. Qui, poi, abitare una casa popolare - come questo giornale ha fatto sapere a tutti - può voler dire spesso essere costretti a stare perennemente barricati perché c’è sempre un prepotente pronto a impadronirsi con la violenza di ciò che non è suo, a intimidire, a minacciare. E quasi sempre senza che a contrastare la violenza ci sia l’intervento risoluto di chi pure avrebbe il dovere di farlo. 

L’Italia infine non è più un solo Paese. Sgretolando lo Stato centrale e accaparrandosi le sue funzioni, un demenziale indirizzo politico federalista, al quale hanno aderito tutti i partiti, ha di fatto liquidato l’eguaglianza dei cittadini proclamata dalla Costituzione. Oggi ogni italiano paga tasse diverse, viene curato in modo diverso, gode di servizi pubblici, di mezzi di trasporto, di quantità e qualità diversa, studia in edifici scolastici degni o fatiscenti, a seconda che abiti a Sondrio o a Trapani, che sia un italiano del Sud o del Nord. I modi e i contenuti reali del suo rapporto concreto con la sfera pubblica dipendono in misura pressoché esclusiva solo da dove si è trovato a nascere e a vivere. Mentre di fatto le cricche politiche locali fanno ciò che vogliono, usando a loro piacere le enormi risorse a disposizione: salvo l’intervento necessariamente casuale di questa o quella Procura. 
Questo (e molte altre cose, eguali o peggiori) è il Paese reale. 

Ed è a partire da esso che va ripensata la crisi italiana. Il cui carattere più intimo e vero non sta nell’economia, che in certo senso ne è solo l’involucro. Sta nel fatto che una parte sempre maggiore di italiani - in modo specialissimo quelli che abitano il Paese reale, per l’appunto - non riesce più a credere di far parte di una comunità retta da regole certe fatte rispettare da un’autorità vera. Non riesce più a credere, cioè, che esista uno Stato. 

Le condizioni dell’economia sono certo un fatto grave e importante
. Ma molto più grave e importante è che troppi italiani si stanno convincendo dell’immodificabilità di tali condizioni perché le vedono saldarsi ai mille segni di un degrado, di uno sfilacciamento più generali al cui centro c’è un dato nuovo e inquietante: la latitanza dello Stato. Troppi italiani si stanno facendo l’idea che ormai quindi non possono più contare che su se stessi (che nessuno più cercherà il modo di far trovare loro un lavoro, penserà a dar loro una pensione, ad assicurargli con la sicurezza quotidiana, la certezza delle leggi e la sovranità politica). Che nessuno controlla e dirige realmente più niente, che nessuno è davvero al timone del Paese con in mente una rotta, e avendo non solo la visione e la determinazione, ma soprattutto gli strumenti e l’autorità necessari a farsi seguire. 
È la sensazione di questo vuoto ciò che oggi nell’Italia delle periferie urbane e della piccola gente, del Mezzogiorno mortificato e incarognito, dei tanti microimprenditori che stentano la vita, nell’Italia del Paese reale, più contribuisce ad esasperare ogni egoismo ma anche a incrinare ogni fiducia. E quindi ad aggravare ulteriormente la stessa crisi economica. 

È facile attribuire anche quanto ora ho detto all’universale «crisi della politica» di cui si parla tanto. In realtà c’è qualcosa di più, e di specificamente italiano. Se oggi il Paese reale sente come sente, se avverte sopra di sé una latitanza della sfera pubblica, un vuoto di leggi, di controllo, di Stato, non è perché abbia le traveggole. Ma forse perché esso percepisce che, a partire dagli anni Ottanta, vi è stata in effetti una progressiva secessione dall’Italia delle classi dirigenti un tempo italiane, e di conseguenza il relativo abbandono da parte loro del presidio della statualità. Un virtuale svuotamento di questa. 

Vi è stata in quelle élites , una progressiva perdita di identificazione emotiva e culturale, rispetto a quella che fino ad allora era stata la loro patria. Con la conseguente, inevitabile rinuncia a guidarla e a portarne la responsabilità. È stato come un pervasivo moto di abdicazione dal proprio ruolo, le cui cause almeno a me appaiono oscure (percezione di una crescente insicurezza del contesto internazionale? Avidità di guadagni delocalizzando tutto all’estero?), ma del quale restano comunque ben impressi alcuni segnali altamente simbolici: l’europeismo elevato al rango di ideologia ufficiale obbligatoria, la fuga della Fiat dalla Penisola nell’indifferenza generale, l’abbandono a se stesso del sistema dell’istruzione e della comunicazione radio-televisiva. 

È questo lo stato di cose di fronte a cui si trova oggi Matteo Renzi: dal quale anche chi non l’ha votato si aspetta comunque fatti e parole nuovi. Ma mi domando se il presidente del Consiglio sappia vedere quel Paese reale che si è detto sopra e se lo sappia vedere nei termini indicati. Se sappia vedere lo sfascio dei suoi territori e delle sue città, capire la sua sensazione di abbandono, la sua percezione di vuoto istituzionale, la sua richiesta di controlli, di autorità, di guida. Dubito che basti dare 80 euro ad una parte di quel Paese per ricostituire l’idea che esista un governo, che esista qualcosa che assomigli a una classe dirigente. Se vuole davvero essere l’uomo della rottura rispetto al passato che ha promesso di essere, Renzi deve andare in mezzo a quel Paese reale, casomai mettendosi le calosce o fermandosi ad aspettare alla fermata di un autobus. Deve parlare ai suoi abitanti faccia a faccia, non da qualche studio televisivo. Magari immaginando anche i gesti concreti con i quali accompagnare le parole. 

Egli ha dimostrato finora di sapere interloquire molto bene con l’Italia dei piani alti, e di sapersene accattivare le simpatie. È un’ottima cosa. Non abbiamo certo bisogno di populismi d’accatto che magari si prefiggano di «far piangere i ricchi». Ma un’autentica comunità politico-statale si ricostruisce sempre dal basso, e nell’Italia attuale c’è bisogno precisamente di questo: di ricostruire una tale comunità. Di ridarle un senso di sé e uno scopo che vadano oltre l’oggi, di ridarle il coraggio che sta scemando, di garantirle che ancora esistono una legge e un’autorità. Di dire a noi tutti: «Siamo qui, e anche a costo di sacrifici vogliamo restarci, e restare in piedi!». Di dire le parole - e compiere i gesti - che nei grandi momenti di crisi decidono del futuro di una nazione. 

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