Viviamo una stagione in cui prevalgono le posizioni “contro” e l’opinione pubblica spaventata ha bisogno di trovare un nemico contro cui scagliarsi
Donald Trump sta scalando le vette dei sondaggi sul prossimo candidato repubblicano alle elezioni presidenziali del 2016. Sta sbaragliando i suoi avversari usando un armamentario retorico che ci è ormai noto : l’essere un imprenditore che si è fatto da solo, il proporre soluzioni disumane per il fenomeno della migrazione, l’insultare le donne. Il tutto condito da un linguaggio estremo, dalla totale indifferenza per ogni coerenza e praticabilità reale delle proposte, e da una buona dose di antipolitica.
In nome del rifiuto dell’ormai usurato “politically correct” si fa strada un frasario della politica barbaro e violento, che parla alla pancia dell’elettorato e sollecita intolleranza e estremismo. In effetti candidati simili si sono già visti , nella storia del dopoguerra americano: Barry Goldwater per i repubblicani e George Wallace per i democratici. Quest’ultimo, partito da posizioni ultra liberal, approdò, per ottenere voti, a una linea di sostegno alle posizioni segregazioniste e discriminatorie nei confronti dei neri. La motivazione che fornì per questo radicale cambiamento, cinica e spregiudicata, è riassunta in queste parole, terribilmente attuali, «Sa, ho cercato di parlare di buone letture e di buone scuole e di queste cose che sono state parte della mia carriera, e nessuno ascoltava. Poi ho cominciato a parlare di negri, e si sono messi a battere i piedi sul pavimento». Tutti e due questi candidati non ebbero successo e tutto fa dire agli osservatori che lo stesso sarebbe se davvero Trump ottenesse la nomination repubblicana. E che Hillary Clinton sarebbe la più felice se davvero si candidasse il miliardario americano perché, con le sue posizioni così estreme, libererebbe uno spazio politico enorme, come spesso è stato nelle elezioni americane. Può essere sia così. Così è stato, si pensi al trionfo di Nixon contro George Mc Govern. I prossimi mesi ci daranno il responso. Io però non ne sarei più tanto sicuro. Infatti si vanno affermando , in tutto l’Occidente, pulsioni del tutto nuove, fenomeni carsici che spingono fasce di elettorato all’impegno o al disimpegno a seconda del grado di mobilitazione che l’estremizzazione delle posizioni determina.
I n un sondaggio svolto in North Carolina, gli elettori hanno risposto che preferirebbero Trump, con il 40% dei voti, alla Clinton con il 38%. Ma la cosa più strana e interessante è che il 9% si pronuncia per un candidato, Deez Nuts, che in realtà non esiste. È infatti lo pseudonimo, preso da una canzone di un gruppo che ama, di un ragazzino di quindici anni che, per gioco, si è iscritto alla competizione e che, lavorando su Facebook, ha raggiunto un consenso singolare. Lo cito solo per dire quanto sia grande la confusione e per questo sia sbagliato guardare l’evoluzione degli orientamenti dell’opinione pubblica solo con le lenti tradizionali della politica tradizionale.
E, d’altra parte, il partito Laburista inglese non sta per eleggere un suo leader che ha posizioni, sui temi sociali e politici, molto lontane dalla più recente tradizione laburista, quella di Kinnock, Blair, Brown e dello stesso Miliband? In Spagna e in altri paesi non si vanno affermando posizioni simili? Persino in Grecia non si sono sollecitate elettoralmente spinte estreme, fino al referendum, salvo poi virare su soluzioni meditate e su accordi che un tempo venivano bollati con il marchio dell’infamia? Prendere voti è un conto, governare un altro.
Ma come mai, nel tempo più complesso della storia, si vanno affermando posizioni così semplificate? Si potrebbe dire che viviamo una stagione in cui prevalgono, persino nelle primarie dei partiti, le posizioni “contro”, in cui un’opinione pubblica spaventata e preoccupata ha bisogno di trovare sempre un nemico contro cui scagliarsi. In cui la paura ha preso il posto della speranza e l’odio quello della ragione . È già successo, nella storia. A questo contribuiscono certamente più fattori. Il primo è l’estenuante prolungarsi della più lunga crisi economica dal dopoguerra che, a dispetto di annunci ottimistici, si estende in tutto il mondo e, lo vediamo in questi giorni, colpisce anche economie forti e paesi emergenti. La recessione si sposa poi con l’altrettanto infinita catena di attacchi e minacce terroristiche e con l’esplodere, anche in conseguenza delle decine di conflitti che devastano il mondo, di un fenomeno di migrazione di proporzioni enormi di cui vediamo non solo a Lampedusa ma in Macedonia, in Grecia, a Calais le dimensioni umanamente incalcolabili.
La politica si dibatte, ovunque, in una crisi devastante di autorevolezza e di prestigio, legata certamente ai due fattori strutturali prima richiamati. Una crisi che ha effetto persino sul significato della parola democrazia. Chiunque, agendo su questa debolezza, si sente autorizzato a dileggiare la politica, come in televisione ho ascoltato fare persino da partecipanti al funerale di Casamonica, un evento che ha ferito la città e il paese in modo molto profondo. Ma la perdita di stima e di consenso dipende anche dalla trasformazione dei partiti e dei luoghi istituzionali. L’ho richiamata varie volte e non ci torno, se non per dire che senza la riapertura di un grande dibattito politico, culturale, di valori tra le persone che militano in un partito, non importa quale, i criteri di selezione del personale politico saranno sempre più confusi: estremismo verbale (e disponibilità a compromessi deleteri), capacità di portare voti (spesso non importa in quale modo), fedeltà assoluta al leader di turno (in attesa di pugnalarlo alla prima difficoltà).
La politica, quella vera, o rinascerà o sarà travolta da questo impasto di populismo e furbizia di potere che costituisce per me, la miscela più pericolosa in questo tempo del tutto originale che siamo chiamati a vivere. Credo infatti che ci sia una pericolosa sottovalutazione degli effetti, persino antropologici, della rivoluzione tecnologica che ha cambiato il mondo con ancora maggiore velocità di quella industriale. Pochi si fermano a ragionare sugli effetti di lungo periodo, positivi e negativi, che si stanno determinando nel profondo della società. Cose importanti, che cambiano il nostro rapporto con gli altri, con le relazioni umane, con il sapere, con il formarsi del senso, con il mutare degli orientamenti dell’opinione pubblica. D’altra parte non fu così con la televisione? Non fu lo stesso Sessantotto, sul piano culturale, il prodotto dell’ingresso, nelle case dei cittadini di tutto il mondo di una scatola che mostrava universi, linguaggi, esperienze sconosciute e, nel momento stesso in cui lo faceva, le rendeva universali? La televisione e la cultura di massa hanno creato fenomeni collettivi, hanno modificato linguaggi pubblici. E hanno cambiato la stessa politica. È ormai straconosciuta l’analisi della barba lunga di Nixon e dell’aspetto fresco e giovanile di John Kennedy nel dibattito televisivo del 1960. E nel grande successo del Pci, in Italia, contò la semplicità di linguaggio e il carisma personale di Enrico Berlinguer veicolate, dalla tv, anche nelle case di chi era più lontano dalle sue idee.
Oggi la nuova rivoluzione culturale produce un effetto molto diverso. Intanto proprio per la velocità e la pervasività delle informazioni che in tempo reale giungono, a noi. Nicole Aubert ha scritto che «le strutture temporali della “ tarda modernità” sono oggetto di una triplice accelerazione: l’accelerazione tecnica, che rinvia al ritmo crescente dell’innovazione nel campo dei trasporti, della comunicazione, e della produzione; l’accelerazione del cambiamento sociale, che riguarda i mutamenti nelle istituzioni sociali, in particolare la famiglia e il lavoro, la cui stabilità appare sempre più minacciata; infine l’accelerazione del ritmo della vita, di cui risente l’esperienza quotidiana degli individui contemporanei che sentono in modo sempre più acuto che manca loro il tempo o che il loro tempo è contato». Di qui, dice il sociologo americano Richard Sennett, il fatto che «l’angoscia del tempo spinge le persone a sfiorare le cose, più che ad attardarsi su di esse» o , anche, che i new media determinano una condizione che si potrebbe definire di “soli, insieme” e cioè la sensazione di essere integrati in un sistema di relazioni esclusivamente virtuali, rapporti che vengono sperimentati dalla propria stanza, isolati dal mondo ma convinti di esserne il centro. D’altra parte solo chi ha un lavoro fisso, una famiglia solida, può forse permettersi il lusso di progettare lentamente. Chi vive in una dimensione di permanente precarietà che investe i rapporti personali e la sfera occupazionale ha come imperativo quello di sopravvivere e cerca nell’oggi, qui e subito, soluzioni. Tutta la società cambia così velocità. E la stessa politica viene investita da tsunami emotivi sotto i quali delibera in fretta e furia. Pronta però a decidere una cosa e/o il suo contrario se, ad esempio, un fatto di cronaca scuote l’opinione pubblica o attiva interessi di gruppi sociali specifici. A questa altezza di problemi la nuova politica è chiamata. Invece continua come ha sempre fatto, con i suoi riti, magari riverniciati, con le sue guerre di potere, con le sue parole che rischiano di sembrare vuote. Se non si vuole che questo diventi definitivamente il tempo dell’estremo, con i rischi che Papa Francesco e il Presidente Mattarella hanno correttamente indicato, spetta alla forza della ragione, alla sua capacità di suscitare emozioni e passioni di indicare una soluzione possibile. Gli esempi di bellezza, anche terribile, della propria missione civile e umana, non mancano. L’ ultimo, per me struggente, è quello di un intellettuale di ottantadue anni, Khaled Asaad, che ė stato torturato e poi decapitato per non aver voluto rivelare dove aveva nascosto, per salvarli, alcuni dei reperti archeologici più preziosi di Palmira, testimonianza essenziale di storia e di civiltà. Asaad ha difeso con la sua vita qualcosa che apparteneva non a lui, ma alla umanità intera. Qualcosa che i massacratori dell’Isis vogliono distruggere, come facevano i nazisti con i libri. Noi siamo, con tutti i nostri difetti, i difensori di quel bene supremo che è la libertà del pensiero. Non dimentichiamolo mai, in questo tempo complesso e confuso.
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