Dove siamo?
“Ovunque la gente – in condizioni molto diverse – si chiede: dove siamo? La domanda è storica, non geografica. Cosa stiamo vivendo? Dove ci stanno portando? Cosa abbiamo perso? Come andare avanti senza una visione plausibile del futuro? Perché non riusciamo più a vedere cosa c’è oltre la nostra esistenza personale? Gli esperti ben pagati rispondono: Globalizzazione, Postmodernismo, Rivoluzione delle comunicazioni, Liberismo. I termini sono tautologici ed evasivi. All’angosciosa domanda ‘dove siamo?’, gli esperti rispondono: ‘Da nessuna parte!’”
Piergiorgio Giacché (Perugia, 1946) è un antropologo, scrittore e saggista italiano.
Piergiorgio Giacché (Perugia, 1946) è un antropologo, scrittore e saggista italiano.
Si può cominciare da questa frase di John Berger1 oppure da altre più elaborate considerazioni sulla “fine della storia”, ma il risultato non cambia: una sensazione di smarrimento fa il paio, ma fa anche contrasto, con un senso di delusione. Insomma, non sappiamo dove siamo, oppure lo sappiamo fin troppo bene?
Il fatto è che “da nessuna parte” è un luogo e un modo che esiste: ce lo si può figurare come la stazione del treno dove eravamo saliti con orgogliosa sicurezza. Un luogo vasto e un mondo fermo, dove si doveva finalmente arrivare e come volevasi dimostrare… Un tempo – ma si può dire fino a ieri – si festeggiava l’accelerazione di quel treno, ci si compiaceva di essere “in transizione” dal vecchio piccolo mondo tradizionale al nuovo grande spazio senza frontiere, con la sensazione di essere al centro della Storia e nel cuore dell’eterna battaglia tra permanenze e innovazioni. Non importava più di tanto da quale parte stare, se da quella dei conservatori o da quella dei progressisti: tutti avevano comunque una parte e tutti pensavano di possedere il tutto, situati nel valico fra passato e futuro, e di poter scegliere i modi e sciogliere i nodi della trasformazione in atto.
“Una società in rapida trasformazione” c’era scritto nei libri e si viveva nei fatti soltanto pochi decenni fa, quando si apriva un’epoca di pace e di benessere, di apertura al mondo e di conquista dello spazio, di abbondanza di merci e di opportunità, di progresso scientifico e di sviluppo tecnologico… che è ancora il nostro paesaggio storico, o così è se ci pare. E alla retorica politica, ma anche alla chiacchiera privata, così in effetti continua a parere, a dispetto di una cronaca – surrogato della storia – che continuamente aggiorna le carte della cultura e cambia la tavola della società. Ma infine – per la cronaca e dentro la cronaca – ogni cambiamento è una notizia e viceversa: sotto la fitta pioggia di sempre nuove novità, si sta per così dire a riposo e magari a disagio, ma il progresso ne risulta fertilizzato, tanto da farci credere che essere “da nessuna parte” e “con nessuna parte” è ancora il migliore dei mondi e dei modi possibili. E ancora una volta non importa il partito, ma sapersi adattare a tutto quello che è arrivato, anche se non si sa più dove e quando e perché.
Così, un centro studi di un grande partito di sinistra può perfino eccitarsi nel dichiarare che – a seguito dei recenti cambiamenti accuratamente elencati – “tutto l’ecosistema politico è stato sconvolto”: “il capitalismo si è mondializzato, i grandi paesi emergenti sono emersi, la terza rivoluzione ‘industriale’ – quella di internet, delle energie rinnovabili, dell’agricoltura biologica, delle nanotecnologie – ha preso il suo slancio, l’imperativo ecologico si è imposto, i lavoratori dipendenti si sono frammentati in categorie con interessi divergenti e la ‘classe operaia’ ha cessato di rappresentarli o di guidarli, l’immigrazione ha cambiato sia le dimensioni che la sua natura, la democrazia delle opinioni – mediatica e informatica – ha superato la democrazia rappresentativa, nel cielo dell’ideologia, il nazionalismo, le religioni, il liberalismo economico hanno il vento in poppa…”2
L’ottimismo della volontà è indistruttibile, bontà sua, ma il pessimismo della ragione – per bocca di Cornelius Castoriadis (ma è solo una bocca fra le tante) – aveva già vent’anni prima avvertito che la tavola della società era alla deriva e le carte della cultura si erano irrimediabilmente rovesciate: in sintesi, si constatava il “trionfo dell’immaginario capitalista-liberale” (centralità dell’economia, espansione indefinita della produzione e del consumo e dei divertimenti-spettacoli, pianificati e manipolati) e la contemporanea e non rimpianta “sparizione dell’altro immaginario della modernità: il progetto d’autonomia individuale e collettiva”, verso e dentro il quale tutti i paesi occidentali avevano investito le loro speranze e orientato i loro progetti, sia quello socialdemocratico della sinistra che quello conservatore della destra. Insomma, l’Occidente si stava paradossalmente rivelando “etnocida e suicida al tempo stesso”, sposando l’antinomia fondamentale del capitalismo contemporaneo: “tendere all’espansione illimitata di una pretesa padronanza razionale, ma costituire di fatto un delirio di potenza che sta distruggendo i significati immaginari, che gli hanno fornito le condizioni per la sua espansione.” E Castoriadis concludeva dichiarando “il capitalismo incompatibile con la vera democrazia”, mentre il Mercato onnipresente e onnipotente rende di fatto impossibile ogni effettivo governo: “Il potere non è più il governo, la governance è una logica che viene rinviata ai meccanismi e alle leggi del mercato, che peraltro non sono regole ma indici, che devono sempre andare verso il più e l’alto, costi quello che costi…”3
Eppure, come si sa e come si vede, sia presso i governanti che i governati, nessuna paura: tutto quello che ci succede può essere salutato come un successo, e all’allarmata analisi di un capitalismo democratico che ha esaurito la sua spinta propulsiva si può opporre l’immagine di un capitalismo liberale che è arrivato felicemente alla fine della sua corsa, fermando il tempo storico e occupando lo spazio globale. Ma è poi necessario scegliere fra le due facce dell’unica medaglia? Per l’ennesima volta non importa da che parte o partito stare, visto che davanti a questa rivoluzione si è diventati tutti “riformisti”, sia quelli che vogliono adeguarsi sia quelli che vorrebbero ritrarsi dalla nuova situazione. E dunque tutti sul “dove siamo” cominciamo ad avere la stessa consapevolezza, a prescindere dalle differenze morali o umorali fra chi piange la fine della politica e della sua storia e chi si finge protagonista di un finale da vissero felici e contenti: abbiamo attraversato una trasformazione e siamo arrivati a una mutazione. Sembrano termini sinonimi ma sono terminali opposti: due diversi “dove”, l’uno dinamico e l’altro statico, si sono dati il cambio, anche se vorremmo tenerceli entrambi per via della nostalgia del primo e della comodità del secondo. E però è sempre più chiaro che la trasformazione correva verso un fine mentre la mutazione stagna come una fine. La trasformazione ci ha coinvolto e però lasciato interagire: ci si sentiva liberi di scegliere, attivi nel conflitto e propositivi nel cambiamento, insomma si è vissuta “in partecipazione”. La mutazione è avvenuta invece in modo indolore e al limite incolore e inodore, così da rendere difficile la sua stessa registrazione. Beninteso, si capisce e perfino si conosce di cosa è fatta, ma si digerisce volentieri ogni suo mutamento, perché e finché ci rende adeguati alla realtà “mutata”. In fondo però, anche questa non è una scelta ma appena una prova: la mutazione non si deve sopportare ma ci porta con sé, al punto che si ha la sensazione di non essere noi a interiorizzarla, ma è lei che gradualmente e pazientemente ci inserisce e ci digerisce.
Per esempio, fuori dalla grande storia e dentro la piccola filosofia dell’uomo comune, la mutazione comincia da una “riforma” del tempo e dello spazio, che le nuove dotazioni tecnologiche portatili ci permettono di affrontare con disinvoltura e soddisfazione. Ieri – in uno ieri che sembra mitico – lo spazio era fatto di luoghi, ovvero di cerchi e di centri, al limite di punti, mentre il tempo era la linea della vita o una via ancora più lunga, al limite una retta infinita; queste figurazioni o concezioni sono ancora ritenute valide ma non sono più reali esperienze, giacché nella vita quotidiana si sperimenta l’esatto contrario. Lo spazio è fatto di linee infinite e intricate, al limite una rete, mentre il tempo è fatto di punti, di eventi, al limite di infiniti “attimini”.
Sul “presente dilatato” che si vive come uno spazio, così come sul “non luogo” che si colloca fuori dal tempo, molti hanno detto meglio e di più di quanto qui si può ricordare4. Ma appunto si tratta di ricordi ovvero di scoperte del secolo scorso, legate alla “storica” trasformazione che ancora non si era sedimentata e assorbita come “antropologica” mutazione. Già, perché è questo lo scarto sul quale vale la pena di inserire sguardi e aprire dubbi: non si può confondere la corsa della trasformazione con la sosta della mutazione. Sono utili e restano illuminanti i lavori e i pensieri di chi ha saputo avvistare e interpretare i fenomeni della postmodernità e della globalizzazione, ma forse ha ragione Berger, che bisogna andare oltre questi termini tautologici ed evasivi. O al contrario bisogna andarci dentro, ché ci siamo già tutti fino al collo. E, per azzardare una prima verità, non si può negare che una tacita approvazione di massa supera e avvolge ogni delusione o smarrimento. Essere mutati non è poi tanto male: in tutta incoscienza si ha l’idea di possedere un patrimonio grande come tutta la storia e di vivere in un panorama grande come tutta la geografia, con in più il conforto di un pensiero magico che ci fa credere che siano i nuovi mezzi tecnologici tascabili quelli che infine hanno realizzato i nostri fini ideologici. Chi, specchiandosi nel suo tablet, non è soddisfatto di vivere in un’epoca di liberata postmodernità e in una dimensione di compiuta globalità?
La domanda è retorica, e la risposta politica è a scelta: tutti oppure nessuno. Arrivati “da nessuna parte”, fingere che sia stato un desiderio di tutti è la scelta consolatoria dei fessi che fanno governance. Dire che non è stato l’obiettivo di nessuno è però un’altra bugia, sia pure detta a fin di bene. La domanda di riserva è piuttosto il “come siamo”, e si può affrontare passando dalla politica delle cose alla cultura delle persone.
Quali sono i nostri valori e norme e atteggiamenti e comportamenti nel mondo e momento presente? Quanto sono – e dunque come siamo – “mutati”? è questo il tema di una “mutazione antropologica” che di solito si aggiunge come “riserva” retorica, all’urgenza e alla prepotenza delle questioni “più grandi di noi”. Citato in appendice alla triade socio-politica-economica – e adesso anche alla macrodimensione ecologica – l’aggettivo “antropologico” servirebbe a concludere un percorso di analisi ma lo si usa solo per chiudere un discorso. è diventato il complemento obbligatorio di ogni commento che voglia andare “fuor di misura”, una volta esauriti i dati quantitativi e i fatti oggettivi. Con “antropologico” in effetti si intende qualcosa di intimo e universale, un sinonimo scientifico dell’Umano, che spesso serve a evocare una profondità che non va mai dimenticata, anche se poi resta inesplorata.
E però “antropologico” non è solo l’aggettivo che va in profondità ma anche il sostantivo della corrente e quotidiana mentalità: non si spende tutto nell’indagare l’inconscio del sociale ma si perde anche nell’osservazione dell’ordinaria socialità. Quel vestito in apparenza leggero e trascurabile, effimero come le mode che lo disegnano, e che però “fa il monaco”, ovvero ci assegna la parte e ci detta le battute della partecipazione privata alla pubblica opinione. Un vestito per lo più fatto di stereotipi e pregiudizi: parole magari di nessun conto, ma che poi – come insegnava Gandhi – diventano pensieri e azioni e abitudini e destino… e cioè ci prendono la vita.
Come siamo?
Non so come dirlo e non sono sicuro che vada pensato, ma conviene osservare in superficie la superficialità della cultura di massa e perfino forzare una sua distanza con la società, al fine di sospendersi da quel criterio o quell’abitudine che vede la società come causa e la cultura come effetto. Conviene cioè scommettere sulla parziale ma sempre più prepotente autonomia dei cambiamenti della mentalità, dei flussi dell’opinione, delle crisi dei valori e dei liberi arbitri dei comportamenti… Infine fra società e cultura non si sa più chi viene prima, ma forse l’uovo del simbolico e del culturale ha preso il sopravvento sulla gallina socio-economica-politica. Fino a ieri pareva ovvio che dalle condizioni materiali di vita e quindi dalla struttura della società dipendessero le forme di adeguamento e le scuole di addestramento culturale: una precedenza della società non temporale ma sostanziale, come basata su un rapporto di potere e confermata dalla logica del sapere. Da un po’ di tempo, però, i livelli “sovrastrutturali” o i capitoli culturali più specifici ed aerei sono andati in emersione e in espansione, guadagnando un diritto di precedenza sia nelle analisi sociali che nelle esperienze individuali.
Ma da quando? Appunto dal tempo di quella già descritta “trasformazione”, che in antropologia e sociologia si ricapitola come “società dei consumi e cultura dei mass media”. Da allora c’è una risposta al come siamo, una sorta di cognome sociale generale che è “consumatore”: più esteso di attore sociale e più generico di utente è il “come siamo” di tutti, anche di quelli che non lo sanno o non lo vogliono. E però, lo siamo ancora come allora? Oppure – tenendo conto dell’epoca passata oltre il ponte della storia e finita nello stagno del tempo presente e del mondo globale – quella definizione e liberazione è appena un “come eravamo”?
Certo è che, da allora, l’orizzontalità del Mercato si è sovrapposta alla verticalità della Produzione, il Consumo ha preso il sopravvento sul Lavoro, la Comunicazione ha occupato lo spazio della Relazione, eccetera eccetera. Certo è che, da allora, l’identità personale si forma o si traveste culturalmente, anche in disobbedienza o in ignoranza dei ruoli sociali, degli stessi redditi economici, e perfino delle condizioni materiali di vita: la rivoluzione dei consumi e della comunicazione ha liberalizzato e individualizzato ogni opinione e ogni comportamento, se non nei fatti almeno nei diritti di tutti e nei desideri di ciascuno. E si sono accumulate – nel corso degli anni e dei libri – fin troppe analisi rigorose e interpretazioni critiche sulla “nostra” società della comunicazione e cultura del consumismo, per non dare per scontata per tutti una sedimentata e poi archiviata competenza. Forse allora non serve nemmeno l’aggiornamento ma vale l’atteggiamento contrario: quello di risalire allo stato nascente del consumatore, come da ultimo ha fatto Zigmunt Bauman tornando al battesimo dell’homo consumens5.
“La vita del consumatore”, ci ricorda, “non si riduce all’acquisto e al possesso di qualche cosa. Non si riduce nemmeno al fatto che ci liberiamo di ciò che abbiamo acquistato due giorni fa, e che ancora ieri esibivamo con orgoglio. Ciò che la contraddistingue più di ogni altra cosa semmai, è l’essere in continuo movimento.” Un movimento che ha valore in sé e non tollera esitazioni e interruzioni, tanto da sostituire il principio etico della produzione, basato sulla soddisfatta realizzazione di un prodotto, con il comandamento morale del consumo: “è illegittimo sentirsi soddisfatti”, poiché “per una cultura consumista, quelli che si accontentano di ciò di cui credono di aver bisogno sono dei consumatori avariati, quasi dei reietti sociali rispetto alla società dei consumi”. I consumatori “buoni” cioè funzionanti e funzionali sono invece quelli che esercitano e/o interiorizzano gli atti e gli attimi del consumo come una sequela di nuovi inizi, di insoddisfatte ma pur sempre promettenti rinascite6.
Bisogna “muoversi” allora, ma se ieri la dinamica dei consumi si viveva in modo salutare e serviva ad accompagnare la festa della “trasformazione” della società, oggi inseguire le variazioni delle mode e le accelerazioni del mercato serve alla “mutazione” della cultura, passata, secondo Bauman, dal memento mori al carpe diem, con le conseguenze che questo capovolgimento comporta sul piano dei comportamenti, degli atteggiamenti, delle idee – sia quelle in grande legate alla domanda di senso, sia quelle spicciole relative alla ricerca di una funzionalità immediata.
Forse non bisogna esagerare: siamo in un nuovo contesto e non in un irreversibile destino e tutto si può ridurre a una semplice battuta, e però intanto è una battuta d’arresto che – detta così – francamente spaventa. Detta così, sembra quasi che ieri ci fosse un’etica e oggi non più, ma forse, senza voler stemperare il dramma, si tratta di eterne oscillazioni dell’ethos, ovvero della superficialità ma anche della gravità del cambiamento dei costumi. Infine, entrambe le formule del memento mori e carpe diem possono essere illusorie o sbagliate: attendere l’altro mondo e proiettarsi verso un’altra vita o terra promessa, ma anche dall’altra cercare di cogliere l’attimo fuggente e restare con in mano un pugno di mosche, sono scommesse o aspettative già sperimentate e spesso falsamente contraddittorie. Al solito, non si stava meglio quando si stava peggio, ma non è nemmeno vero che ogni tempo presente corrisponde al migliore dei mondi; a ricordare bene, la verticalità gerarchica della cultura della produzione era opprimente, così come l’orizzontalità onnivora della società del mercato è invadente. Non si tratta di giudicare l’una migliore dell’altra, ma di valutare quale delle due è in questo momento e mondo quella egemone ovvero quella che rischia di imporre la sua dittatura. Il problema poi diventa quello non di aderire a un Verbo, ma semmai di difendere e rivalutare il Soggetto. Sapere dove siamo e come siamo – qui e adesso – serve a capire meglio ildove andare e come diventare, se ancora si potesse scegliere. Se ieri pareva necessario liberarsi dal peso del cielo e toccare la terra dell’uguaglianza a costo di appiattimenti e dilatazioni, oggi può essere interessante e utile ricercare altezze e spessori perfino arcaici, per riguadagnare spazi di respirazione e modi di aspirazione che cominciano a mancare nell’attuale vita sociale e quotidiana.
Tanto più se contiamo gli anni e scontiamo la durata della cultura del consumo. Ma non facciamoci attrarre dalla psicologia e distrarre dal consumo compulsivo e dalla sua nevrosi: la mutazione è antropologica quando e perché il movimento-mutamento di cui parla Bauman segna il passo, e un inconfessabile senso di morte – o appena di noia – affiora nello stesso istante vitale del consumo. Quando il moto perpetuo di incessanti inizi produce una tossina narcotica e necrotica che fa diventare il consumatore un consumato – in tutti i sensi, da quello della disinvoltura a quello del logoramento. Siamo in effetti al consumo del consumo: l’homo consumens non è l’effetto del mercato ma la causa che lo perpetua, il volano vivente di un consumo che ha dato forma alla sua coscienza sociale e che, in molti casi o in ogni caso, è il primo veicolo della sua conoscenza.
Per esempio, la forma-idea del consumo avvolge e ridefinisce l’idea e la pratica del lavoro: quanti lavori o servizi o impegni flessibili, variabili, intercambiabili si vivono nello stesso modo di un’esperienza di acquisto? Per esempio e per finire, quanto e come si è capovolto il rapporto fra merce e pubblicità? Ed è questa, in effetti e in cultura, la modifica definitiva: quando cioè i consumatori-consumati passano dalla concretezza dell’acquisto all’astrazione della pubblicità che è più duratura e convincente dell’attimo e atto del possesso. La pubblicità – passata da anima del commercio a corpo del consumo – diventa la prima e ultima merce: non la veste ma la trascende, come fa dappertutto e per tutti l’Immagine, della quale come sappiamo e viviamo è arrivato il suo Regno!
Inutile e troppo arduo continuare con gli esempi o con i miracoli che ci hanno condotto al paradiso della virtualità. Meglio insistere con l’osservazione partecipante “di superficie” e limitarsi a scoprire la ruota e l’acqua calda di una pubblicità che è tutta la politica che ci rimane, e che governa il consenso con rilanci iterati di promesse che non devono affatto essere mantenute (pena la soddisfazione dell’elettore-consumatore che diventerebbe “avariato” e non più incantato dal “nuovo che avanza”); meglio guardare anche sbadatamente le persone, per scoprire che, fuor di pubblicità, non c’è più massaia che festeggi la quantità o la varietà del supermercato, così come non c’è più giovane che investe speranza ma al contrario sfoga disperazione nel fatidico attimo da carpire e godere. La chiamano assenza di futuro ma in realtà è assuefazione, stanchezza, sfiducia prodotta dalla coazione a ripetere di un cambiamento-movimento senzadivenire, e quindi anche l’essere non si sente troppo bene… Sull’avere poi, la falce della crisi ha fatto strage, e la superstite e immarcescibile abbondanza che ancora ci circonda e ci assale, non seduce più nessuno dei ricchi e non inganna più nessuno dei poveri. Appare a tutti statica e pesante e immutata, e questa è la sua mutazione.
Quo vado?
Per restare in un’antropologia di superficie, meglio usare il titolo di un film di largo consumo che abusare della domanda solenne del rivoluzionario “che fare?”, con la quale, come con i santi, non è più lecito scherzare. Eppure la questione che in chiusura di discorso va posta – quella del “dove andare” o “come diventare” – resta seria e, anche perché orfana di praticabili risposte, non c’è proprio niente da ridere (forse proprio come nel film, che non ho visto e non mi piace). Il fatto è che da una mutazione non si torna indietro, mentre la sua staticità da sedimento (nonché la sacralità del monumento alla memoria del primo consumismo) impedisce la fuga in avanti; e per di più la sua e nostra “consumazione” non si riesce più a misurarla come vecchiaia o auspicarla come decadenza. Il tempo di una volta era galantuomo, ma quello degli infiniti attimi di eterno presente non aiuta le profezie e, anche ai pensatori migliori, sembra non restino che scaramanzie…
Ancora Castoriadis ce ne offre testimonianza: in un’intervista del ’97, alla domanda di dove o come sfuggire al peso della mutazione antropologica che ci ha reso attori impotenti e spettatori disattenti , dichiara: “sì, io posso immaginare un tipo antropologico ideale capace di agire nel mondo, ma a che servirebbe immaginarlo? Un individuo responsabile e lucido, che si sente responsabile di quello che dice e di quello che fa… Un tale tipo antropologico potrebbe anche – se esistesse – condurre una trasformazione della società verso una ‘società autonoma’… La questione è di sapere se l’umanità contemporanea può ancora produrre questo tipo antropologico”7.
Roba da “romanzieri”, aggiunge Castoriadis in calce, e forse è vero che solo la libertà di inventare e la disciplina del creare possono dare contributi non del tutto allineati negli scaffali del mercato e non completamente biodegradabili nel mare del consumo-consumato. Allora, come fanno o facciamo in molti, rivolgersi all’arte non sarà la soluzione ma genera almeno una sospensione che può farci mettere il naso fuori dalla cultura di massa che ci nutre (altro che ci opprime!). Non si tratta di diventare élite in senso sociale, ma di autoselezionarsi tirandosi su da soli per i capelli – proprio come nel romanzo – per ritrovare il limite e la fatica di una individualità e di una riflessività gratificante.
Ma poi? Ma durante? Ma oltre?
La consolazione della verticalità dell’arte è – nel migliore dei casi – letteralmente una “finta”, e la sua stagnazione è già una “moda”, e la sua commercializzazione è una “politica” nuova che ahimè avanza… E infine la parte dell’arte è piccola e non copre nemmeno tutto l’immenso tempo libero e non sfiora più da tempo l’argomento e il momento del tempo “impegnato”.
Il Quo vado, mi dice chi l’ha visto, ha a che vedere invece con un posto fisso, ed è di questo che si ha più bisogno che diritto anche “in cultura”: un posto o una postura che, sulla distesa stagnante della mutazione, ci dia l’illusione di poter fare qualche primo passo nella corretta e dunque verticale direzione…
Per insistere con i titoli dei film, conviene “ricominciare da due”: il soggetto sarà pur sempre assoggettato ma – ieri come oggi – non deve disarmare il suo senso etico e la sua capacità critica. La sua coscienza e la sua conoscenza, come dice il famoso verso di Dante scelto come emblema della società e cultura occidentale. Niente di eroico o di ambizioso, ma solo i primi esercizi di critica e le prime basi dell’etica, che sono più che sufficienti a fare corpo o anticorpo alla mutazione, pur restandoci dentro.
Infine la Critica non è che un’ininterrotta teoria di domande che si inseguono e perfino si perseguitano, dando più valore alla loro ascesa che alla risposta che le ferma, che darebbe soddisfazione a un “consumo critico” che ha davvero bisogno di restare sempre insoddisfatto. Più difficile è rivalutare l’Etica ovvero ascoltare la coscienza, quando questa è manipolata, maleducata o addirittura ammutolita. Da dove ripartire se la mutazione culturale traduce – come diceva Enzensberger – l’industria culturale in industria della coscienza?
Forse non conviene porsi il problema della scelta assoluta fra il Bene e il Male, ma è sufficiente partire dalla differenza fra moralità e immoralità. Anzi appena e in negativo scoprire in che consiste l’immoralità, come suggerisce Emmanuel Levinas che, citando la Bibbia, ricorda la frase di Caino in risposta alla domanda di Dio che gli chiede dove sia suo fratello: “Sono forse io il custode di mio fratello?”
Da lì comincia l’immoralità – insegna Levinas – cioè da quando l’individuo si rende colpevole di questa presa di distanza dall’Altro, di cui siamo fratelli e di cui siamo fatti. Dovremmo dunque riscoprire di essere ciascuno custode del prossimo? Magari, però a patto di non esaltarlo come Amore, di non pubblicizzarlo come Solidarietà.
Si chiama appena “responsabilità” ed è da lì che ricomincia il senso etico.
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