el 1992 il primo messaggio mafioso: il furto nel negozio. Dopo sei anni, un altro furto e un primo attentato. Nei sette anni successivi un secondo attentato e un incendio. Nel 2008 il capannone viene dato alle fiamme. A febbraio 2011 gli sparano mentre sta andando in campagna, alle sei di mattina. L'altra notte l'ultimo avvertimento: il deposito distrutto dalle fiamme.
La vita di Tiberio Bentivoglio, imprenditore e testimone di giustizia, è a rischio. Protetto per questo dalla polizia in una città, Reggio Calabria, in cui il clima si sta surriscaldando. Gli equilibri, dicono gli investigatori, non sono più quelli di qualche anno fa.Bentivoglio è nel mirino per aver denunciato pressioni e minacce, per non essersi piegato ai clan di Reggio. Con le sue denunce ha fatto scattare indagini e arresti. Ma come spesso accade in questo Paese, chi denuncia è costretto poi a chiudere bottega.
Ma Tiberio resiste. Non vuole fallire. Resiste all'arroganza delle 'ndrine, alle richieste della banche, a quelle di Equitalia, a quelle dei creditori insensibili al sacrificio di chi sceglie l'opposizione dura alle cosche. Ci prova in tutti i modi, e in tutti i modi prima la 'ndrangheta e poi lo Stato tentano di affossare la sua attività. «La mattina dopo l'incendio è venuto l'ufficiale giudiziario a mettere i sigilli al negozio, mi stanno sfrattando perché non riesco a pagare», racconta Bentivoglio a “l'Espresso”.
Perseguitato dai boss e dalla burocrazia, che non guarda in faccia nessuno, neppure in un giorno così drammatico per la famiglia dell'imprenditore. Così la sua Sanitaria Sant'Elia rischia di chiudere per sempre. Ma c'è ancora l'ultima speranza. Gli è stato concesso un bene confiscato dove trasferire l'attività. Purtroppo però i lavori procedono a rilento, sempre per questione di soldi, troppo pochi per procedere spediti. Forse però l'ultimo incendio ha dato una scossa al sistema di solidarietà. Entro il 15 marzo Bentivoglio potrebbe trasferirsi nel nuovo locale che un tempo era dei padrini dello Stretto.
Nulla di certo ancora, per il momento solo una speranza a cui aggrapparsi. L'imprenditore reggino vive sotto scorta da molto tempo. Non nasconde la rabbia per gli attentati e per l'indifferenza, di molti suoi concittadini e delle istituzioni, che lo isola ancora di più. Certo, c'è l'associazione Libera al suo fianco, e pochi altri. Ma non tutti i reggini stanno dalla sua parte: basti pensare che da quando ha denunciato gli estorsori la clientela si è ridotta sempre di più.
«La giustizia è lenta» sostiene Tiberio, che porta esempi concreti su cui la politica dovrebbe ragionare seriamente: «Nel 2009 ho presentato una denuncia per favoreggiamento con nomi e cognomi. Solo in questi giorni è arrivata la notifica della fissazione della prima udienza. Sono passati sette anni. Un'enormità che, come in questo caso, portò alla prescrizione del reato». Lui denuncia, si espone, rischia la pelle. Poi ci pensa la prescrizione a cancellare tutto. Quello che non viene cancellato però è la sua esposizione, perché era e resta un obiettivo da eliminare.
La prescrizione, per esempio, ha salvato il prete, cerimoniere dell'ex vescovo di Reggio Calabria, don Nuccio Cannizzaro, imputato poi assolto in un processo di 'ndrangheta naufragato con diverse assoluzioni. Tra queste, appunto, quella di Cannizzaro: prescritto il reato di falsa testimonianza per aver favorito il boss della 'ndrangheta Santo Crucitti, ras del quartiere di Condera.
Bentivoglio era testimone in quel processo, e a “l'Espresso” racconta: «Sono passati tre anni da quella sentenza e il giudice non ha ancora depositato le motivazioni, per questo né io né la procura abbiamo potuto presentare appello». Qualcuno avrà pagato per questa negligenza? «No, perché la procura generale sostiene che deve essere il Csm a intervenire, il Csm rimbalza la responsabilità su altri. Intanto, però, le motivazioni non sono state ancora depositate e un mio diritto viene calpestato».
«Dalle istituzioni solo promesse, per ora rimaste tali», conclude Bentivoglio. Come dargli torto. Dopo oltre dieci anni di denunce gli è rimasto ben poco, se non la dignità che gli permette di camminare per la vie di Reggio a testa alta. È questo il prezzo da pagare per aver denunciato la mafia calabrese?
Nessun commento:
Posta un commento