sabato 22 settembre 2018

LA PATRIA L'IDENTITA' E LA SINISTRA. A. VISALLI, Tomaso Montanari, “L’identità inventata degli italiani”, SINISTRAINRETE, 19 settembre 2018

Tomaso Montanari ha scritto e pubblicato sul Fatto Quotidiano un lungo e denso articolo che attacca con grande vigore e notevole tensione morale la temuta involuzione identitaria che la destra italiana starebbe suscitando e sfruttando a fini di raggiungere il potere e conservarlo. Il suo punto è fondato, sono anche io convinto che sia in corso un cinico utilizzo, a fini di distrazione dai più pressanti problemi economici, di una problematica molto sentita da parte dell’elettorato della Lega, ma, come si vede dai risultati, anche da parte maggioritaria della popolazione italiana.


Credo, più precisamente, che la Lega stia facendo un gioco molto pericoloso in qualche modo strettamente connesso con le dinamiche politiche interne. Il 4 marzo il paese, come scrivevo in “Fase politica, Aquarius e diversioni” si è spaccato infatti su una linea che attraversa le sue borghesie, portandosi a traino i ceti popolari, e, insieme, che la attraversa geograficamente. In estrema sintesi si è manifestata la defezione della borghesia nazionale rispetto la borghesia coinvolta con il modello economico mercantilista, e rivolto alla competizione per acquisire quote di mercato estero, che è contemporaneamente sotto attacco da parte del vecchio acquirente di ultima istanza americano. Si è formata una maggioranza politica conforme alla maggioranza sociale che ha clamorosamente sconfitto la vecchia coalizione da anni al potere, elitaria quanto a rappresentanza sociale, cosmopolita quanto a cultura e esteroflessa politicamente ed economicamente (con la sua cultura del “vincolo esterno”).
Del resto, la parte della ‘strana’ coalizione che sviluppa questa retorica ha come constituency, detto in modo sintetico quanto brutale, il mondo delle Piccole e Medie Imprese impegnate soprattutto nel mercato interno e poco interconnesse sui mercati globali, i professionisti che con tale mondo e con quello delle famiglie borghesi intermedie sono legati, operai ed impiegati di questi settori.
Queste forze si manifestano con un gradiente che si riduce man mano si scende verso il sofferente sud, dove si radica invece la constituency del M5S (che comunque ha una rappresentanza politica geograficamente più omogenea) e dove hanno più peso i precari, i giovani ed i disoccupati.
Ciò che, però, unisce le due parti della coalizione, e questo Montanari non sembra ben valutarlo, è il bisogno acuto e pressante di protezione, di due generi di protezione diversi: di protezione sociale, nel sud governato dal M5S, e di protezione individualista, nel nord della Lega. Le bandiere di cui si discute in questi giorni, rispettivamente pensioni al minimo e reddito di inclusione, da una parte, e flat tax per le partite Iva, dall’altra, ne sono esemplare rappresentazione. C'è molto altro nelle forze che si sono coalizzate per prendere il governo del paese, c'è la base di una reazione della società alla forza dissolvente del capitalismo (non solo della globalizzazione) che si cerca di catturare nominandolo a volte come 'momento Polanyi', nel tentativo di metterci un'etichetta, e che dovremo cercare di imparare a capire. Avevo provato in precedenza a dire che vi si intravede il nucleo confuso di un discorso pubblico ruotante intorno alle parola d'ordine "onestà", "integrità", "sicurezza", ma si tratta di bozze di tentativi ancora senza le parole giuste.
Si tratta, comunque, di una coalizione profondamente fratturata a partire dalle diverse domande di protezione alle quali rispondono.
In questo quadro ciò che rende comprensibile la reiterata azione di provocazione del Vicepresidente Salvini su questi temi è che è difficile, e ci vuole tempo, rispondere a questa domanda di protezione in modo che se ne sentano gli effetti; allora sono necessarie diversioni. Per rispondere a questa esigenza politica, indispensabile per la tenuta del consenso, ognuno sceglie il proprio terreno, e la Lega ne ha uno ottimo, fotogenico e altamente visibile: l’immigrazione.
Questo è quanto concordo con Montanari.
Divergo su alcune sue valutazioni chiave: io non credo che l’immigrazione non sia un problemanon credo sia senza effetti sul mondo del lavoro (anche se non è l’unico e neppure il principale fattore), non credo che il destino dell’occidente sia multiculturale. Come vedremo alla fine, e nei propri termini del testo più denso e complesso citato da Montanari, quello di Habermas, io credo ci siano i termini, sia pratico-pragmatici, sia etici per difendere il buon diritto di regolare la propria vita e salvaguardare le proprie istituzioni e ‘l’integrità delle proprie forme di vita’ (Walzer), lasciando cadere la filosofia della storia cosmopolitica, proiezione di potenza dell’occidente anglosassone, che supporta sia Habermas sia Montanari.
Ma andiamo con ordine, Montanari sviluppa un ragionamento che parte da una citazione colta di due autori, cui attribuisce il sostegno delle sue tesi: Amartya Sen e Tony Judt, un liberale ed un socialista moderato.
A Judt (“Guasto è il mondo”, 2010) attribuisce la frase: “Identità è una parola pericolosa: non ha alcun uso contemporaneo che sia rispettabile”, senza chiarire il contesto in cui è scritta.
A Sen (“Identità e Violenza”, 2007) attribuisce in modo diagonale (citando solo la prefazione) la disumanità che deriverebbe dalla ricerca della identità nazionale e religiosa.
Più precisamente riprende il testo di Sen citando solo la lettura che ne fa, nella prefazione Mario Vargas Llosa, uno scrittore peruviano neoliberale candidato alla presidenza con il centro destra nel suo paese. Ma Amartya Sen (a sua volta un liberale, ma più moderato), non scrive esattamente questo.
Detto in modo molto sintetico la tesi di Sen è più che per gli uomini contemporanei nessuna tra le molte identità parziali disponibili (l'elenco nel libro, non a caso, è “americano, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristana, progressista, donna, vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti dei gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante ambientalista, appassionata di tennis, musicista jazz …”) è da considerarsi l’unica identità o categoria di appartenenza. Dunque l’inaggirabile (nelle condizioni contemporanee) natura plurale delle nostre identità ci costringe, di volta in volta, a prendere delle decisioni sulla loro importanza relativa, nelle circostanze concrete in cui diventano rilevanti. Naturalmente Sen riconosce che il senso di identità “può dare un’importante contributo alla forza ed intensità delle nostre relazioni con il prossimo, che può essere rappresentato dai vicini, o dai membri della stessa comunità, o dai concittadini, o dai seguaci della stessa religione” (S.p 4), tuttavia, c’è un rovescio della medaglia, se un senso di identità può accogliere ed unire alcune persone allo stesso tempo può “escluderne altre senza appello”. Ovviamente ciò non significa che per Sen l’identità sia una fonte di male “a tutti gli effetti”. Quando ci si trova di fronte ad essa, bisogna fare altro; occorre coltivare l’idea che “la forza di un’identità bellicosa può essere contrastata dal potere delle identità concorrenti”, ad esempio quella legata alla comune appartenenza alla razza umana. Affidarsi, cioè, al processo dialogico di scoperta reciproca e di apertura alla comune esperienza umana. L’argomentazione di Sen si rivolge quindi contemporaneamente contro due forme di riduzionismo simmetriche: quella della teoria economica contemporanea che procede come se, nello scegliere i propri scopi non fossero implicate identità, come se ognuno, cioè, fosse un’isola “completo in sé”. Simmetricamente si rivolge contro il riduzionismo ‘dell’affiliazione unica’, che parte dal presupposto che, a tutti i fini pratici, ognuno appartenga ad una sola collettività. Cerca di tenere la linea tra lo Scilla dell’individualismo neoliberale ed il Cariddi del comunitarismo.
Si tratta, cioè, di un libro complesso, che prende una posizione liberale temperata ed attacca tutte quelle applicazioni identitarie che tendono a creare delle separazioni ‘principali’. Il suo migliore esempio di separazione principale da non promuovere è la “lotta di classe” come “affiliazione unica”. Mentre non oppone obiezioni allo scegliere, tra le diverse identità plurali che ci attraversano (alcune delle quali abbiamo scelto ed altre no), quella che di volta in volta è più pertinente alla situazione.
In questa accezione, ad esempio, scegliere che in questa situazione (in cui è in corso uno scontro che ha tra le sue polarità il progetto neoliberale europeo e la sua tendenza a dissolvere e/o incapsulare e neutralizzare la sovranità democratica e costituzionale instituita da norme e prassi nella forma dello Stato nazione e nella solidarietà che in esso può essere rintracciata, al suo meglio) sia l'identità nazionale ad essere quella più specifica e pertinente, mentre le altre retrocedono sullo sfondo, è esattamente coerente e compatibile con il punto filosofico di Sen.
Il secondo libro, Judt 2010, è “Guasto è il mondo”, il suo libro finale. Nel quale il grande storico attacca il “mondo freddo e spietato della razionalità economica illuminista” (p.22) e rimpiange il mondo regolato keynesiano, si spende in un rischioso ragionamento sulla omogeneità (p. 52-3), connettendolo con il welfare state socialdemocratico e le “virtù costose” della solidità e resistenza. Riporto un brano che forse Montanari non ha letto bene: “infine tutto spinge a ritenere che, se l'omogeneità e le dimensioni sono state importanti per generare fiducia e cooperazione, l'eterogeneità culturale o economica può produrre l'effetto opposto. Il costante incremento del numero di immigrati (specialmente se provenienti dal ‘terzo mondo’) nei Paesi Bassi e in Danimarca, per non parlare del Regno Unito è strettamente correlato a un declino significativo della coesione sociale”. (p.53). Ed anche (era distratto), nelle conclusioni, dopo un vigoroso attacco alla globalizzazione: “dopo decenni di relativo oscuramento, gli Stati-nazione sono destinati a riaffermare il loro ruolo predominante negli affari internazionali. Le popolazioni che sperimentano una maggiore insicurezza, fisica e economica, ripiegheranno sui simboli politici, le risorse legale e le barriere fisiche che solo uno Stato territoriale può garantire. [...] Lo Stato territoriale, unica istituzione che si frapponga fra gli individui e le entità non statali come le banche e le multinazionali, unica unità normativa che occupi lo spazio tra gli organismi transnazionali e gli interessi locali, probabilmente vedrà crescere la sua importanza politica” (p.140).
Insomma, con la prima citazione Tomaso Montanari si schiera nel campo liberale e pro-globalizzazione, ma senza avvedersene intacca la sua tesi, in quanto Sen ammette la liceità di far valere un elemento della propria multiforme identità sugli altri quando la scelta si imponga; con la seconda torna nel campo socialista (sia pure molto moderato), ma fornisce anche la ragione per sceglierlo: battere la globalizzazione liberale tornando allo Stato-nazione. Con la seconda depotenzia la posizione, di quasi venti anni precedente, di Habermas con la quale terminerà.
Ma nel seguito delimita lo spazio della sua critica ad alcuni toni di intonazione xenofoba verso i quali avanza una obiezione sintetica di sapore universalista ed umanista: l’uomo dov’è? Spendendo in questa sintetica obiezione uno dei poeti da me più amati (un verso del ‘Canto Generale’ fa da nome al blog) ed uno dei più identitari e connessi sentimentalmente alla propria patria: Pablo Neruda. Torcendo gravemente il riferimento (non sono in grado, per mancanza di riferimento, di rintracciarlo, ma probabilmente si tratta di una poesia contro il fascismo di Franco o un verso del Canto Generale contro i conquistadores, ovvero contro le tante violenze che a sua terra, il Cile, ha subito nei secoli, ma ricordo solo che Neruda era comunista) Montanari interpreta questo verso in senso dell’universalismo liberale: “che ne è della comune identità umana, unica fonte dei diritti fondamentali dell’individuo?
Sarebbe questa la “domanda cruciale, in questa orrenda stagione del discorso pubblico sfigurato dal veleno della retorica identitaria”.
Spiace questo uso del tutto retorico e svuotato di senso dei riferimenti, presi come collezione di gadget sullo scaffale ‘dell’uomo colto’ e quindi ritorti contro gli autori. Ma davvero Neruda non può essere usato per promuovere una visione tutta presa dentro l’individualismo borghese e liberale, una visione che fa dei diritti individuali, eguali per tutti sulla base di un’ipotesi metafisica di eguaglianza naturale, la ‘domanda cruciale’. Per Neruda, ma anche per Judt (e in misura minore persino per Sen) la ‘domanda cruciale’ non sarebbe l’astratta eguaglianza naturale, distillata in diritti naturali e fondamentali, ma l’effettiva capacitazione delle concrete persone attraverso politiche collettive e/o le lotte. Casomai la domanda cruciale è il superamento dello stato delle cose presenti attraverso la lotta e mobilitazione concreta delle soggettività individuali e collettive.
So bene che Montanari è persona sensibile a questi temi, ma dovrebbe sorvegliare meglio i rigurgiti della cultura di base neoliberale (o almeno liberale-radicale) che ri-emerge nelle pieghe poco sorvegliate del suo discorso. Inoltre forse una minore collezione di gadget aiuterebbe.
Certo, lui ha ragione, quando stigmatizza affermazioni, attribuite al Corriere della Sera circa una valutazione errata sull’incidenza dell’immigrazione (una tipica generalizzazione basata su esperienze parziali, se pur reali) da parte di una consistente parte degli italiani, e ancora più quando si parla dei consistenti flussi di immigrati clandestini (in parte aventi diritto di asilo) come qualcosa che “ci sta seppellendo”. Questo linguaggio è inaccettabile.
Ma da questo linguaggio (e dall’ovvia costruzione pronomiale “noi/loro”, che è costantemente all’opera nel nostro linguaggio, ogni qual volta si voglia far riferimento ad una differenza) è occasione in Montanari per una potente generalizzazione, per la quale ogni distinzione è fonte di una “dottrina del respingimento”. Una “dottrina” (come abbiamo visto fatta propria da Jundt) sarebbe semplicemente alla radice di un “terrore”. Sulla base di questo uso letterario e retorico delle parole, Montanari sembra sostenere, insomma, che nessuna differenza ha diritto di esistere, sotto l’unità universale e naturale della ‘comune umanità’.
Provare a scegliere, sulla base di priorità, una identità come localmente più rilevante di altre, come ammette Sen, diventa direttamente cedere al “terrore identitario”.
Certo, Montanari ha ragione a stigmatizzare le provocazioni di Salvini, che intenzionalmente trae in trappola la sinistra radicale, sollecitando le sue risposte istintive e spingendola a metterle sul piano moralistico, frasi come “l’immigrazione è invasione, è pulizia etnica al contrario”, sono sciocche e sconsiderate. Sono piena espressione della volontà di distrarre.
Ma esprime, al contempo, la propria cattura in questa manovra del furbo leader politico la ricorrente tentazione di rispondere sul piano solo morale, di cedere alla “appellite” (si veda, ad esempio questo articolo). A me pare che in questo modo una buona parte della sinistra stia ripetendo, amplificato, l'effetto ‘falena con la luce’ che l'ha neutralizzata a lungo ai tempi di Berlusconi. Con l'aggravante che la ristrutturazione profonda avviata dal 2008 ha letteralmente falcidiato una parte rilevante della sua base sociale di riferimento, rendendola tanto più debole ed esponendola all’irrilevanza. Sotto questo profilo il discorso di Salvini appare sempre più una vera e propria trappola, appositamente costruita per la sinistra. Il suo scopo è, in altre parole, di spingere la sinistra a rifugiarsi entro le proprie cittadelle discorsive, di inibire qualsiasi possibile tentativo di riconfigurare il discorso e rendere il “politicamente corretto” unica strategia individuale possibile di sopravvivenza. Toccando delle corde identitarie potenti, attraverso provocazioni intenzionali quanto brutali, il discorso pubblico di Salvini costringe chi lo prende in parola a restare nel suo ordine e, attratto da una luce irresistibile, finire entro la trappola. Chi volesse sottrarsi resterebbe immediatamente isolato ed espulso dal novero della comunità che si è intanto ridefinita come i ‘sensibili alla luce’. La sinistra finisce in questo modo però a restare dentro delle riserve sempre più strette e insieme di alzare muri al loro confine. Lo spazio tra la sinistra nel suo insediamento sociale ormai ristretto ai ceti medi riflessivi, quando va bene, e il resto del mondo diventa così sempre maggiore. Insomma, Salvini prepara un dominio di lunga durata, lui pescherà nell'80% della stratificazione sociale, la sinistra in qualcosa meno del 20.
Se sarà così la partita è chiusa.
Montanari, armato dei suoi buoni sentimenti, sposta abilmente il discorso simmetricamente a Salvini sulla hitlerizzazione dell’avversario, chiamandolo fuori dell’umano. A fronte di una separazione posta all’avvio del suo discorso tra “umano e non”, richiama infatti l’alta lezione di Primo Levi davanti all’orrore nazista e lo slitta nei centri di detenzione libici (un paese privo di forma statuale solida, l’esatto opposto del nazismo) riclassificandoli come ‘lager’ e attribuendone la responsabilità morale ed operativa al governo italiano.
Cito:
Ha scritto Primo Levi: “A molti, individui o popoli, può accadere di ritenere, più o meno inconsapevolmente, che ‘ogni straniero è nemico’. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente; si manifesta solo in atti saltuari e incoordinati, e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al temine della catena, sta il Lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo”. Ora, dovrebbe apparire con drammatica chiarezza che i campi di concentramento in Libia sono conseguenza diretta del fatto che il dogma dello straniero come nemico è tornato ad essere, in Europa, la premessa del sillogismo su cui poggia il consenso dei partiti ‘sovranisti’. E se il leader xenofobo e razzista di uno di questi partiti e il primo giornale italiano si trovano a usare lo stesso vocabolario, abbiamo un serio problema culturale.
Quindi riporta tutta la problematica (che ha rilevanti lati pratico-funzionali) a “problema culturale”.
Rimesso su questo piano, in una opposizione binaria umano/inumano non c’è più scelta, gli “intellettuali italiani” (con ciò chiarendo in modo inequivoco, a chi non lo avesse già compreso, quale è l’interlocutore designato) dovrebbero concentrarsi sul “conflitto tra identità nazionali e diritti umani”. Ovvero, in termini più chiari, tra liberalismo e non.
Soccorre il dire di Donatella Di Cesare, additata come eroina, che, restando dentro il frame, sostiene che l’Europa, “patria dei diritti umani” (ovvero terra liberale), “ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre, persecuzioni, soprusi, desolazione, fame”, e lo ha fatto al “riparo delle frontiere statali”. Un minestrone di categorie che nulla fa più capire, o meglio, che intenzionalmente elimina tutte le differenze per polarizzare tra un dentro (egoista perché ricco) / ed un fuori (puro, perché debole e reietto). Un modo di rafforzare il discorso distraente, restando dentro il suo incantesimo.
Uno dei numi tutelari citati all’avvio, Pablo Neruda, forse avrebbe detto che la questione è un’altra: che dentro e fuori ci sono altre partizioni rilevanti, quella tra sfruttati e sfruttatori, dei conflitti senza sbocco che nascono dalla competizione selvaggia dei lavoratori tra di loro (italiani e non) e delle frazioni del capitale.
Restando invece dentro il quadro scelto dall’avversario Montanari, finisce sia per evocare imprudentemente il “nazionalismo nazifascista” (davanti all’evocazione del quale nessuna distinzione può più essere compiuta), sia ad allinearsi necessariamente con la difesa del libero mercato (libero dalla regolazione dello Stato e dalla forza organizzata dei lavoratori) e della mondializzazione che ne deriva necessariamente (a partire dalla mobilità dei capitali, pietra angolare) negando qualsiasi spazio di realtà ad affermazioni generiche come “i migranti sono un costo”, “portano via il lavoro agli italiani”, “delinquono più degli italiani”, “aiutarli impedisce di aiutare gli italiani poveri”. Non è che siano affermazioni vere, ma neppure false. Sono affermazioni sulle quali bisognerebbe intendersi, e non sono necessariamente parte della “retorica dell’invasione”, possono essere impiegate per ricostruire una prospettiva di classe se si situano e soprattutto se ci si chiede, “perché”?
Il problema, con le “vaste bibliografie scientifiche e divulgative” è che bisogna sempre fare mente ai presupposti impliciti, in particolare bisogna farlo con la letteratura economica che finge costantemente di essere terza, empirica e ‘scientifica’, mentre è intrisa di valutazioni ex ante e di ipotesi irrealistiche (come l'equilibrio generale e l'assenza nei modelli della finanza e del sottoimpiego dei fattori). Il punto è che partendo da presupposti neoclassici e rifiutando in radice la stessa nozione di ‘sfruttamento’, poi si arriva alle conclusioni sulla base di una serie ben nascosta di ipotesi ad hoc.
Aprire alle “quattro libertà” (capitali, merci, servizi, persone) l’intero mondo non è socialista, non è progressista, ma è l’essenza del mondo iperfinanziarizzato, altamente ineguale, violento e prevaricatore, altamente precarizzante, che abbiamo costruito dagli anni ottanta ad oggi. Probabilmente l’unico mondo che Tomaso Montanari conosce (essendo nato quando il precedente tramontava ed essendo entrato nell’età della ragione alla metà degli anni ottanta, quando la retorica liberista era dominante). Se si vuole uno Stato sociale, che offra protezione, è necessario tenere in piedi un impegnativo patto di solidarietà tra i cittadini (sincronico e diacronico) che preveda doveri e privilegi. Come scrive Andrea Zhok, “in uno Stato di welfare i servizi vengono pagati elevando tasse più alte che negli Stati liberisti. Tali tasse servono a fornire quei servizi che eccedono la semplice ‘tutela dei confini e dei contratti’ (Stato minimo: esercito, polizia, giudici). Tuttavia in uno stato sociale è necessario che vi sia elevato controllo sul rapporto tra quanto investito sul territorio in servizi e quanto generato dal territorio in termini di cespiti fiscali. L’idea è che io pago ora, ad esempio, per la formazione e le cure mediche della nuova generazione in crescita, e anche, in parte, per la cura della generazione anziana che non produce più reddito, e così per ogni generazione in età produttiva rispetto ai gruppi non produttivi. Questo patto sociale non vincola persone, magari stimabilissime, in altri paesi. I nostri bambini, o anziani, o disoccupati, non possono attingere ai conti correnti dei benestanti di altri paesi, così come i bambini, o anziani o disoccupati altrui non possono attingere alle nostre risorse”.
E’ chiaro che l’immigrazione, se non regolata, altera questi equilibri, poi l’effetto ottenuto dipende dalla qualità delle persone immigrate (se è alta impoverisce lo Stato di partenza ed arricchisce quello di arrivo, come fa la nostra emigrazione verso la Germania, se è bassa il contrario ed inoltre favorisce la crescita del paese di arrivo di cattiva occupazione, conflitto tra poveri, incremento della disoccupazione, sacche di economia illegale o criminale) e, notevolmente, dal contesto nel quale avviene la scena, se in contesto di crescita o di decrescita, se politiche di welfare, istruzione, sanità e offerta di infrastrutture ed alloggi non operano in regime di severa scarsità. Con ciò non dico che sia il principale fattore di questi fenomeni (dirlo significherebbe essere catturati dal frame retorico dell’avversario), ma neppure che non ci sono. Dire che non questi effetti esistono lavora da una parte, dato che molta parte della popolazione italiana ha evidenza prossemica di una incidenza, per rafforzare il discorso della Lega nei confronti di questi, dall’altra si mette nell’alveo del discorso classico delle élite neoliberali sconfitte a marzo.
E c’è una buona ragione (la ricorda Judt) perché perdere una accettabile, ed accettata, omogenità può essere un fattore di aggravamento della difficoltà a sostenere uno stato provvidenziale: che alla percezione di un indebolimento delle prestazioni, per eccesso di uso, segue la riduzione della disponibilità a pagare per esse con le proprie tasse. In assenza di una tassazione mondiale universale questo è un problema. La soluzione madre sarebbe non far indebolire le prestazioni, aumentare le risorse ad esse dedicate e assicurare parità di trattamento, in particolare sul lavoro, a tutti.
Un problema che, naturalmente, non è tale per un liberista, che vuole esattamente una società multiculturale, fortemente individualista, dove ognuno pensa a sé e quindi la tassazione è molto bassa e lo Stato non si impiccia con le redistribuzioni. Ovvero vuole uno stato dove il welfare e le altre protezioni siano le più basse possibile e la competizione la più alta possibile. Un simile stato è prigioniero del conflitto tra lavoratori ed a vantaggio del capitale.
La soluzione di Montanari, come spesso capita alle posizioni moraliste in debito di un’analisi dei rapporti di forza e delle condizioni sul campo, mette, come si dice “il carro davanti ai buoi”. Funzionerebbe solo se ci fosse il socialismo, ed anche in quel caso nei limiti delle risorse.
Naturalmente anche se ci fosse il regno dei cieli.
È chiaro che tutto va visto sempre dinamicamente e nella relazione tra crescita della domanda ed offerta dei diversi fattori nel ciclo produttivo (merci, investimenti, forza lavoro). Ad esempio, in assenza di importazione di forza lavoro, nelle condizioni di una forte crescita della domanda e occupazione autoctona tutta impiegata ci sarebbero solo due alternative: aumentare gli investimenti (ricreando quello che Marx chiamava “l'esercito di riserva” per la via classica, ovvero investendo in macchine e altre forme di capitale labor-saving) o aumentare la forza lavoro (ricreando l'esercito di riserva per la via della sua importazione). Altrimenti c'è solo l’alternativa quella che il capitale cerca sempre di evitare: aumentare i salari a causa della competizione tra i diversi impieghi. Come scrive Engels, insomma, se c'è l'esercito di riserva la competizione è tra lavoratori (occupati e disoccupati), se non c'è è tra capitalisti (per attrarre gli occupati e rubarseli l'un verso l'altro). Chiaramente la seconda ostacola la redditività del capitale investito. In altre parole, se non ci fosse immigrazione ci sarebbe meno disoccupazione e anche un lieve innalzamento dei salari con effetti a onda. Ma chiaramente nelle condizioni della finanziarizzazione e mobilità di capitali questo comporterebbe effetti su tutto il sistema con possibili ridislocazioni in altri settori e/o paesi. Si tratta di un problema sistemico difficile da sezionare.
È chiaro che se, per ipotesi, un insieme di politiche coordinate di sostegno della forza contrattuale dei lavoratori, più opportune politiche di repressione del dumping salariale da chiunque praticato, nella direzione del “Decreto dignità” (ma enormemente rafforzate) comportassero un aumento dei salari medi, ciò avrebbe ripercussioni e conseguenze complesse: i salari, crescendo, modificherebbero il mix produttivo perché modificherebbero la dinamica dei fattori produttivi, come effetto tenderebbero a ridislocare qualche segmento produttivo (in funzione della mobilità di capitale e merci e delle relative infrastrutture fisiche, normative e culturali), alterando la dinamica degli investimenti e modificando la domanda aggregata interna. Tutto ciò retroagirebbe sulla domanda di forza lavoro (in quantità e qualità), tendendo ad un diverso equilibrio. Se migliore o peggiore dipende dagli obiettivi che ci si dà ed in parte è anche una questione empirica, anche perché non avviene nel vuoto ma nel quadro di competitori esterni che reagirebbero.
Chi ha presente la logica di sistema contemporanea si rende conto, insomma, che questo mette in questione l’apertura non solo nei confronti dei lavoratori, ma soprattutto di merci, servizi e capitali. Mette in questione la mondializzazione.
Se Montanari avesse letto davvero il libro di Toni Judt, che di queste cose parla a lungo, sarebbe più attento a distinguere.
Dato che non lo fa, sposta il focus del discorso, in linea con il richiamo agli “intellettuali”, sul discorso identitario sul piano culturale. E per colpire meglio si sposta agli estremi, citando una inchiesta di Casa Pound sulla “Italia arcana, alle radici della nostra identità nazionale”.
A questa posizione oppone due argomenti:
  • il primo “etico” (sarebbe a dire morale nella terminologia di Habermas che in seguito citerà), “per quale ragione l’essere italiano – ‘perché qui ti ha partorito una fica’, come canta l’eloquente Caparezza descrivendo una condizione puramente casuale, priva di ogni merito – dovrebbe dare una precedenza nel diritto alla sopravvivenza?”
  • il secondo ontologico (ovvero di esistenza), “Davvero esiste una ‘Italia arcana’ con una identità pura, definita una volta per tutte?”
Con questo modo di argomentare, che estremizza la posizione dell’avversario estraendolo dall’umano e chiamandolo fuori del consesso civile, Montanari definisce “identità” (certo perdendo del tutto il riferimento al più sobrio Amartya Sen) come “uguaglianza assoluta, corrispondenza esatta, perfetta”. Questa definizione del tutto estranea alla tradizione filosofica e politica (cfr Rousseau, Kant, Herder, Hegel, per dire dei principali) è tratta “etimologicamente” dalla matematica, o dalla logica matematica, a tutta evidenza.
Grazie a questa forzatura argomentativa (che Galli della Loggia ha facilità ad attaccare), ed alla rituale citazione del bestseller di Hosbawm “L’invenzione della tradizione”, secondo il nostro “le identità nazionali sono definite a posteriori, spesso inventate di sana pianta”. Peccato che, ancora una volta, lo storico marxista Eric Hosbawm non intendesse nel suo libro del 1983 sostenere una tesi così stravagante, ma solo che alcune ‘tradizioni’ (come il Kilt) sono ricostruite a posteriori, talvolta per gli scopi dell’industria.
Grazie a questo uso così disinvolto dei riferimenti (che non manca di coinvolgere in questa lettura fuori contesto e rapsodica anche il nostro Alessandro Manzoni, riportato a cantore del sangue, e quindi immagino per estensione l’intero risorgimento) può sottolineare che l’Italia è il frutto storico di tante commistioni di sangue e cultura. Un popolo meticcio, “più di ogni altro” (tesi discutibile, che anche la Spagna, la Francia, la Germania hanno i loro flussi storici, ma ricordarlo avrebbe esteso l’argomento oltre i limiti desiderati), seguito da corretti quanto parziali esempi. È coinvolta la lingua, la cucina, le stesse cosiddette “radici cristiane”, per progressivi allargamenti.
Forse accorgendosi di aver esagerato, riporta allora il concetto di ‘identità’ entro più ragionevoli limiti affermando che: “tutto questo serve a dire non che ‘gli italiani non esistono’, ma invece che ‘gli italiani sono multiculturali per storia e cultura’”. Certo sotto questo profilo, guardando da questa altezza ed in relazione alla stratificazione storica (dunque forzando il termine ad un uso non consueto) tutti, nessuno escluso (USA, Cina e Urss inclusi) sono “multiculturali”.
Ne derivano però conseguenze radicali: che “non ha senso opporre ‘noi’ a ‘loro’ perché il ‘noi’ si è formato grazie ad una somma di ‘loro’ accolti e fusi in questa terra”. Una frase la cui logica è sfuggente: se anche il ‘noi’ (di tutti) si fosse formato storicamente nei secoli e millenni, gli altri ‘noi’ che vengono in contatto, egualmente formati, non sarebbero per questo meno differenti. Uno stato di fatto transita nel modo moralistico di ragionare di Montanari in giudizio valutativo, e questo retroagisce in una filosofia della storia che vedrebbe, riscrivendola, la somma di una sequenza di accoglienze di profughi. Subito dopo afferma, infatti, che la mitica fondazione di Roma verrebbe da “la discendenza di Enea, rifugiato, richiedente asilo e migrante troiano”. Dopo i poveri Sen, Judt, Neruda, Hosbawm, Manzoni, anche Virgilio è quindi arruolato.
Peccato che il mito fondativo di Roma, scritto per finalità geopolitiche e propagandistiche ma capolavoro della letteratura mondiale, parli di un esercito, con navi proprie, armamento pesante, organizzazione militare e guerrieri esperti, comandati da un famoso eroe, che arriva sulle coste laziali, negozia inizialmente un insediamento coloniale e poi si scontra in una sanguinosa guerra con le autoctone popolazioni a causa di uno scontro su cultura e risorse.
Il mito di Virgilio, se non evirato, parla molto meglio della realtà della formazione del ‘noi’.
Nel seguito Montanari ha di nuovo ragione, la ‘nazione’ ha a che fare con la conoscenza, la cultura, con il ruolo fondativo della tradizione culturale nel suo nesso sistematico con il territorio, ma il suo argomento è fallace. Nella Costituzione italiana la parola “Nazione” ricorre tre volte, l’art.9 non è l’unico e questa imprecisione non è innocente, l’articolo citato recita:
“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica [33, 34]. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.
Sembra abbastanza evidente che qui, come negli articoli 67 (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”) e 98 (I pubblici impiegati sono al servizio esclusivo della Nazione”) si tratta di una pura denominazione tecnica. Non è chiaro come avrebbe altrimenti potuto chiudere la frase, “tutela il paesaggio e il patrimonio storico… (del mondo? dell’universo? Della Germania?)” ed anche “Ogni membro del parlamento rappresenta… ?” (qui l’alternativa è “i cittadini che lo hanno votato”), o “i pubblici impiegati sono al servizio esclusivo …?” (di chi li assume?).
Del resto la parola “Patria” è citata all’art 52 (“La difesa della Patria è sacro dovere del cittadino”) e 59, quella “Italia”, all’art 1 (“L’Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro”), 11; molto più spesso ricorre “popolo”, art. 1 (quando recita “la sovranità appartiene al popolo”), 71, 101, 102, mentre quello “Stato”, soprattutto nel fondamentale articolo 42.
Riporto il brano:
L’unico dei principi fondamentali della Costituzione che usi la parola ‘nazione’ è l’articolo 9, che mette in strettissima connessione “lo sviluppo della cultura e la ricerca” e la tutela del “paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”: in altri termini, il riconoscimento costituzionale della nazione avviene in relazione alla conoscenza, e non al sangue o alla stirpe, alla fede religiosa o alla lingua. La Repubblica, cioè, prende atto del ruolo fondativo che la tradizione culturale, il suo sistematico nesso col territorio e il suo incessante rinnovamento attraverso la ricerca hanno nella definizione e nel continuo rinnovamento della nazione italiana.
L’interpretazione di Montanari non discende dal testo, forzandolo. In particolare non discende dal testo l’esclusione dal novero del concetto di ‘nazione’ della lingua. E ancora non ne deriva, almeno non da qui, il rapporto che abbiamo con la nazione:
Un rapporto non proprietario: di tutela, e non di consumo insostenibile. Un rapporto in cui tutti siamo provvisori, migranti e stranieri: perché nessuno è padrone assoluto della terra. Chiunque abbia oggi un figlio che frequenti una scuola pubblica (quella scuola che Concetto Marchesi definisce in Costituente il “solo presidio della Nazione”) vede come bambini di ogni provenienza divengano, giorno per giorno, italiani: accettando di prendere parte a un patto, ma anche rinnovandolo con la loro diversità. La nostra è un’identità non solo aperta a tutti coloro che vengono in pace, ma anche aperta ai cambiamenti anche sostanziali che i nuovi italiani porteranno: una nazione per via di cultura è per definizione multiculturale.
Un rapporto con la “nazione” che ci farebbe tutti “stranieri”, sarebbe ben strano. E strano metterlo nelle menti dei costituenti del 1947. La ragione addotta esula dall’ermeneutica del testo, ma si sposta in un vertiginoso non sequitur: “perché nessuno è padrone assoluto della terra”. Vero, infatti nella Costituzione c’è l’art 42. Ma qui il senso sarebbe che nessuno è padrone assoluto del pianeta, ovvero che il pianeta è proprietà comune indivisa dell’insieme indiviso dell’umanità. Una tesi, se fosse questa, di enorme portata e certamente non definita in questi termini nella Costituzione repubblicana.
Né aiutano frasi apodittiche, che passano sopra un complesso e pluridecennale dibattito (cfr, ad esempio “Jurgen Habermas, Charles Taylor, ‘Multiculturalismo’” e “Charles Taylor, ‘La topografia morale del sé’”), come “una nazione per via di cultura è per definizione multiculturale”. A parte che la definizione della Nazione solo per via di cultura l’ha tratta da una ermeneutica del testo altamente arbitraria e mal argomentata, non si comprende perché una cultura debba essere ‘multiculturale’ per definizione.
Nel seguito viene richiamato l’Habermas della seconda parte di “Morale, diritto, politica” (di cui abbiamo letto “Sovranità popolare come procedura”) nel saggio “Cittadinanza politica e identità nazionale”, del 1992.
In questo senso, la storia d’Italia risponde in modo profetico alle aspettative di chi – come per esempio Habermas nel saggio su ‘Cittadinanza politica e identità nazionale’ (1992) – indica la necessità di una democrazia che sappia separare il popolo dall’etnia, suggerendo che il nazionalismo possa essere rimpiazzato da un patriottismo costituzionale ispirato da una costituzione cosmopolitica: come quella che avrebbe potuto darsi l’Unione europea, in una delle grandi occasioni mancate di cui ora paghiamo il conto.
Bisognerà tornarci, perché il punto è delicato, la nozione di “Patriottismo Costituzionale” viene introdotta da Habermas non in questo saggio del 1992, ma sei anni prima nell’ambito di un dibattito con Nolte in un articolo su Die Zeit nello sforzo di conciliare diritto ed identità culturale di un popolo. Una proposta fortemente procedurale che vedeva appunto la procedura democratica (giuridica) come fondamento identitario della nazione. Questa tesi, presente anche in lingua italiana in “La rivoluzione in corso”, 1990, che ripubblica l’intervista con Jean Ferry del 1988 si è scontrata, da una parte con le obiezioni di John Rawls, tese a dimostrare che alcuni diritti non sono a diposizione delle procedure democratiche, e dal lato opposto, di comunitaristi e neoaristotelici.
Il concetto, detto in grande sintesi è che “la sovranità popolare della cittadinanza politica si ritira nelle procedure giuridicamente istituzionalizzate e nei processi informali (dischiusi dal quadro costituzionale) di una più o meno discorsiva formazione dell’opinione e della volontà” (H. 1992, p.123).
Continua Montanari:
In ogni caso, la Costituzione italiana del 1948 ha un’idea di nazione radicalmente diversa da quella, chiusa e guerresca, nutrita dai grandi nazionalismi: tanto che all’articolo 10 progetta un’Italia che accolga “lo straniero al quale sia impedito l’effettivo esercizio dei diritti derivanti da libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”. Per questo ogni dottrina del respingimento è incompatibile, da noi, con un vero patriottismo costituzionale.
Anche Habermas, in effetti, nel testo citato da Montanari discute dell’immigrazione (erano gli anni dell’allargamento ad est dell’Unione Europea) e lascia cadere l’approccio “utilitaristico” secondo il quale “un etnocentrismo strumentalmente fondato sull’aspettativa di vantaggi reciproci, suggerirebbe di concedere agli stranieri il visto d’ingresso, solo quando esista una fondata speranza che essi non sovraccarichino la bilancia corrente delle prestazioni e delle rivendicazioni” (ivi, p.131). Con ciò, già nel 1992, in condizione di espansione e non al termine di dieci anni di stagnazione, Habermas ammette implicitamente ciò che Montanari nega recisamente.
Ma continua, cercando di affrontare la cosa ‘dal punto di vista morale’, ovvero facendo uso di una morale imparziale di tipo kantiano. In questa prospettiva (allargando l’esperimento mentale rawlsiano “su scala planetaria”) sarebbe da riconoscere un diritto di immigrazione universale. Ma, continua, “legittime restrizioni al diritto di immigrazione potrebbero essere giustificate da concorrenti e alternativi punti di vista: per esempio dall’esigenza di evitare conflitti e problemi che, per la loro entità, sarebbero in grado di rappresentare una seria minaccia all’ordine pubblico o alla riproduzione economica della società” (ivi. P.133). Ciò che Habermas, dalla sua costruzione liberale del moral point of view, non ammette sono i “punti di vista relativi a discendenze genetiche, linguaggio ed educazione”.
Questa impostazione, in altre parole, fornisce qualche supporto al punto di Montanari, anche se non supera gli argomenti pragmatici di impatto sopra ricordati.
Ma c’è anche una diversa prospettiva, quella comunitaria, che riconduce a ‘forme di vita’ politiche, ascrittive e non scelte, nelle quali di costituisce l’identità dei cittadini. Charles Taylor è un esempio. Secondo Habermas questa posizione è inadeguata sul piano funzionale (dato il fatto dell’interconnessione e della mondializzazione), ma “ha il pregio di sottolineare una componente etica che non è opportuno lasciare cadere”. Richiama quindi l’opinione di Walzer, secondo il quale, cito, “il diritto all’immigrazione trova il suo limite nel diritto di una collettività politica a tutelare l’integrità della propria forma di vita” (vedi anche Michael Walzer, “Che cosa significa essere americani”).
Nelle conclusioni Habermas, reputando che “è cominciata l’obsolescenza dello ‘stato di natura’ ancora perdurante tra gli Stati che hanno perso la loro sovranità”, giudica la tensione verso la “situazione cosmopolitica” non più chimerica, bensì che “cittadinanza politica e cittadinanza cosmopolitica costituiscono un continuum, che, nonostante tutto, sta già prendendo forma” (ivi. p.137).
Obiettare alle posizioni di Habermas è sempre un compito impegnativo e per certo esula dal presente testo, mi limito a sottolineare le date: 1983-92. Questa prospettiva risente cioè della fase ascendente neoliberale e si consolida nei dibattiti interni alla nazione tedesca (in particolare nel “dibattito degli storici” a fronte della questione del revisionismo) e a ridosso della caduta dell’Urss nella fase di espansione imperiale americana. Ciò che chiama fase cosmopolita è solo una fase di espansione imperiale indiretta e camuffata (leggeremo tra breve il testo più rilevante di quegli anni, Francis Fukuyama “La fine della Storia”, di cui queste atmosfere sono sofisticatissime versioni).
Finisce Montanari:
La spaventosa diseguaglianza, le dimensioni della povertà, il tradimento della sinistra e la rimozione della necessità di un conflitto sociale tra italiani (cioè tra ricchi e poveri) hanno messo in ombra tutto questo, e rendono molti nostri concittadini sensibili alle sirene del neo-nazionalismo di Salvini. Ma è anche vero che la retorica per gli ‘italiani’ appare sempre più strumentale, perché è sempre più chiaro che “c’è differenza tra il senso della propria identità e quello che ne ha il potere che ci domina, il quale … sostituisce la conoscenza effettiva delle differenze, storiche, culturali, ambientali per degenerare in un duplice abuso: quello di concepire la distinzione come barriera da alzare tra un gruppo umano e un altro, e quello di ignorare la dimensione del mutamento, che appartiene alla storia” (Adriano Prosperi, “Identità. L’altra faccia della storia”, Laterza, 2016).
Richiamando e riportandosi all’operazione di distrazione, e solo in questi termini, incontra di nuovo il nostro assenso. Le questioni centrali sono la spaventosa disuguaglianza, strutturalmente incorporata nei modi di funzionamento e produzione della società liberale, le dimensioni della povertà che ne conseguono, dal punto di Salvini la necessità, non volendo affrontare i nodi con la necessaria radicalità di spostare il conflitto dalla classe (che, dispiace, ma non è tra ‘ricchi e poveri’, rileggere Marx sta tornando di moda, se ne gioverebbe) in altre direzioni.
Ma non lo siamo con la conclusione:
In fondo sappiamo tutti benissimo che l’Italia del 2100 sarà multietnica e dunque multiculturale, o non sarà: si tratta di capire che, in realtà, lo è sempre stata. Chi oggi lo nega sta solo cercando di mettere a reddito la paura dello straniero sventolando le false bandiere di una identità inventata: senza passato, e senza futuro.
Forse lui (e l’Habermas del 1992) sanno che l’Italia del 2100 sarà multiculturale, ma io non sono in grado di vedere di qui a ottanta anni e non penso che allo stato attuale del mondo (con un solo dominus e la finanza che abbatte ogni differenza, rendendo tutti soli e deboli al suo cospetto) non ci siano alternative.
Alla fine si arriva sempre al TINA.

Nessun commento:

Posta un commento