Viviamo tempi davvero confusi. Potrei caratterizzarli come il tempo della estenuazione di una estenuazione. Il senso della critica ha perso da lunghi decenni il solido ancoraggio nelle dure condizioni materiali che il socialismo aveva inteso dargli, per tradursi in una postura che cresce nel vuoto di progetto. Questo slittamento non era avvenuto tanto per effetto di un superamento effettivo, totale, della durezza del vivere, quanto per un estenuarsi della fiducia sotto i colpi delle sconfitte.
Sconfitte, non fallimenti.
La durezza del vivere è sempre rimasta con noi. Ma è stata nascosta sotto il velo della nebbiolina sottile che la cultura cosiddetta “postmoderna” ha lentamente alzato da terra. La perdita di riferimento ha spostato tutta l’attenzione sul medium e del significato sul significante.
Da qualche anno, però, anche questa estenuazione sta giungendo al suo, proprio, esaurirsi. Questa singolare condizione nasce dal tornare in primo piano della durezza in forme non aggirabili. Un urlo che, alla fine, finisce per essere più forte delle nebbie.
Diego Melegari e Fabrizio Capoccetti (da qui a volte M&C) hanno fatto l’importante sforzo di rispondere con un densissimo e a tratti molto chiaro testo[i] al dibattito che era scaturito dal loro primo articolo[ii]. Per la verità la replica è molto più larga, e si riferisce contemporaneamente alle obiezioni di Fabrizio Marchi[iii], su L’interferenza, e di Alessandro Visalli (ovvero di chi scrive)[iv], e quelle di Moreno Pasquinelli[v], su Sollevazione. Seguiranno sia la seconda parte del pezzo di Pasquinelli[vi] e la replica di Alessandro Visalli[vii].
I nostri riassumono questo quadro in una posizione “A” e “B”. La prima vorrebbe censurare la sottovalutazione dei rischi insiti nell’alleanza con quei ceti sociali intermedi (tradizionalmente nominati come piccola e media borghesia) che sarebbero attratti dal proprio desiderio individuale di distinzione che li porta inesorabilmente a saldarsi con i ceti superiori e trovare comune interesse nello schiacciare i ceti lavoratori. La seconda condivide la designazione dei “bottegai” come “ultimo argine”, e quindi la prospettiva della costruzione di un “blocco storico nazional-popolare”[viii], ma lamenta che sia istituita nel testo di M&C una gerarchia tra la conquista socialista dello Stato e la rivendicazione della sovranità nazionale contro la Ue.
Con riferimento al primo fronte (le obiezioni di Marchi e Visalli) viene rivendicata una maggiore articolazione di discorso per cui, ad esempio, tra piccola borghesia e lavoratori dipendenti non ci sarebbe tanto un’identità, come a loro dire sostenuto nella critica, quanto propriamente un reciproco “scompaginamento”. Un “mescolamento”, tanto sul piano materiale quanto su quello “antropologico-simbolico”. Dunque, ci sarebbe da tracciare al più una “mappa”, uno “spettro di figure”[ix] per il quale si ricorre ad una classificazione tra lavoratore, risparmiatore e consumatore. Tutti variamente “traumatizzati”. Nella descrizione compare immediatamente l’elemento progettuale, nel momento in cui al lavoro di “individuare differenze” si associa quello di “disarticolarne la configurazione attuale”, ovvero, specificamente, di “spezzare le alleanze con i gruppi effettivamente dominanti”. Ma per farlo bisogna per M&C “rapportarsi a questa galassia composita, sapendo di dover fare i conti anche con codici culturali – ad esempio la diffidenza per il pubblico – in parte trasversali a gruppi fortemente differenziati per il solo interesse materiale”.
Inoltre, viene contrastata la critica, sollevata nell’articolo di Visalli il quale censurava nel pezzo di M&C la tesi che vorrebbe la soggettivazione imprenditoriale (con conseguente individualismo) in particolare concentrata nella classe lavoratrice e in misura minore in quella della piccola e media borghesia. Il punto di contrasto è in sostanza ribaltato. A parere dei nostri la qualificazione del lavoro dipendente come “buono e continuo, se pur povero” manifesterebbe un pregiudizio favorevole. Per sostenere il punto (ovvero che sia in campo una sorta di marxismo ingenuo) viene evocato un sociologo eretico come Bourdieu.
Come seconda questione viene lamentato che non si sia mai trattato, nel loro contributo, di far semplicemente coincidere potere e Stato. O, in altre parole, di fare della presa del potere dello Stato l’intero campo di azione della politica tramite la partecipazione, quale che sia il prezzo, al gioco elettorale. La questione è piuttosto di calcare il terreno dello Stato (“anche senza conquistarlo del tutto”), ovvero farsi eleggere, per cercare di ridefinirne ed orientarne il capitale ‘simbolico’ e per questa via al termine conquistare potere. Di qui l’importanza strategica della questione della nazione. Con le parole di M&C: “il riferimento alla nazione è, tra le altre cose, questione fondamentale – declinabile secondo diversi orientamenti – sulla quale fare leva per disporre del potere simbolico dello Stato”[x]. Viene citato in questo contesto un contributo di La Grassa[xi] che radicalmente sostituisce alla lotta tra ceti dominanti e dominati, intorno alla centralità del modo di produzione capitalista, quella tra le diverse frazioni dei ceti dominanti come intreccio di aspetti e cause economiche e geo-politiche. Queste sarebbero, nella prospettiva dell’autore, le cause delle crisi e dei rivolgimenti contemporanei. Ne deriva per i nostri la necessità di “interrogarsi senza moralismi sulla stabilità e trasformabilità di quelle alleanze”.
Da questo spostamento, piuttosto radicale, di prospettiva ne deriva l’accusa di fondo che M&C rivolgono alla prima batteria di critici (quella “A”): “tanto l’attendismo quanto il purismo economicista contribuiscono, invece, non poco a dare ossigeno, tempo e danaro a quei gruppi, che hanno così vita facile a ricollocarsi in modo da giocare una ‘lotta di classe’ dall’alto, che si continua a perdere, da un lato perché ci è stato tolto il terreno da gioco sotto i piedi, dall’altro perché non si è disposti a giocare nel terreno rimasto”.
Al terzo livello i nostri vengono a rispondere alle obiezioni sollevate all’approccio di Laclau, sia da “A” come da “B”, finendo tuttavia per confermarne il tenore. Infatti, per essi il filosofo argentino ha inteso centrare l’attenzione sul “discorso”, in quanto modo di “concettualizzare il rapporto attraverso il quale si danno elemento e relazioni come coappartenenti ad una totalità mai saturata, intimamente scissa, continuamente soggetta a ridefinizione identitaria per via di un’inestinguibile opacità dovuta al conflitto”. Non è molto chiaro cosa sarebbe una “totalità saturata”, né come cade strategicamente il termine “identitaria”, in questa frase. Ma continua: “il sociale è sempre tutto da fare e riconfigurare (politicamente), e assumerà determinate sembianze piuttosto che altre, a seconda di quali ‘significanti vuoti’ saranno in grado di costruire ed esprimere simbolicamente le catene equivalenziali più forti”.
In effetti per i nostri ciò non significa “comunicazionismo”, ma ne è, invece, un’ottima descrizione. La centralità della narrazione, in assenza di riferimento, o nella possibilità di considerare contendibile ogni riferimento, deriva profondamente e logicamente dalla comprensione del sociale come interamente soggetto (“tutto”) a costruzione e riconfigurazione da parte del linguaggio. O, con il gergo prescelto, di formule “vuote” e colonizzabili dalle soggettività date. Un termine come “onesto”, che può, in base alle esperienze di vita, interessi e sottofondi culturali di ognuno assumere diverso significato senza essere per questo tematizzato. I significati, proprio per il loro essere “vuoti”, in altre parole, si rendono disponibili a catturare il consenso e creare apparenti equivalenze tra soggettività diverse, e relative lotte ed ‘agende’, attraverso l’opportuna esibizione da parte di un leader credibile. La cosa poi regge, e ciò si è visto, fino a che questo leader e la sua stretta cerchia non vengono piegati dalla forza delle cose. Allora l’assenza di tematizzazioni emerge con tutta la sua devastante potenza, ovvero con il retro della potenza che ha espresso nella fase ascendente. Un’altra retorica, altri significanti vuoti vengono avanzati, o quelli vengono reinterpretati, e la politica muta di direzione.
Tutto resta eguale[xii].
La cosa abbastanza sorprendente, anche nello stesso Laclau, è che questa operazione di costruzione di superficiale consenso (come si è visto proprio in Italia e proprio nel miglior caso di successo) del tutto inutilizzabile per cambiare realmente le cose una volta che si giunga a contatto con la durezza materiale del mondo (che non è fatto solo di parole), viene etichettata come “costruzione di egemonia”. L’egemonia è ridotta, insomma, a “operazione di riarticolazione interna ad una formazione sociale e discorsiva” e quindi “costitutiva anche delle classi sociali in quanto soggetti politici” (corsivo nel testo).
Sulla base di queste premesse, mutuate da La Grassa e Laclau, i rapporti di produzione non determinano più il perimetro e la stessa mobilità del campo politico. Il quale non è solo rappresentazione di interessi.
Rispondendo a “B”, invece, che accusa la prospettiva di Laclau di abbandonare il terreno della concezione materialista della storia, i nostri affermano in modo del tutto franco che per il filosofo argentino la politica è “ontologia del sociale”. Ovvero essa è una costruzione egemonica che crea alleanze sociali e continuamente le risignifica. Questo, “il politico”, è, con altri termini, “l’essere stesso dei rapporti sociali colti sotto l’angolo prospettico della congiuntura” e ciò consentirebbe di immaginare nuove vie per ripoliticizzare l’esistente, dopo decenni di trasformazione neoliberiste.
In sostanza, come accade spesso nella replica di M&C, ci troviamo davanti alla conferma espressa di essere su una posizione che abbandona, ed interamente, il terreno della concezione materialista della storia. E lo fa per una acuta sensazione di sconfitta storica che, se può essere comprensibile in un anziano teorico come La Grassa (e nello stesso Laclau), appare particolarmente deludente nei “giovani” autori. La linea di frattura diventa antagonista solo in funzione di una volontà di egemonia, ovvero da una costruzione discorsiva fondata su “significanti vuoti” ben scelti e capaci di fratturare lo spazio rappresentativo e sociale, creando, o ri-attivando “momenti populisti”. Un pensiero che anche i nostri ammettono essere “debolista” e “postmoderno”, al contempo negando, con curioso argomento, di essere tacciabile di “indeterminismo”. Manca una determinazione fissa del sociale (ovvero un ancoraggio a qualche materialità) ma ciò non sarebbe indeterminismo proprio perché la sua assenza obbligherebbe “a determinarsi per esistere politicamente”. Precisamente affermando con ciò quel che si intende normalmente per “indeterminismo”, ovvero l’assenza di riferimento che sia esterno alla volontà del singolo soggetto agente[xiii].
Non aiutano frasi, o giochi di parole, come “la congiuntura non è tanto qualcosa di effimero, quanto piuttosto la cifra politica della determinazione”.
Da ultimo, scendendo dal livello elevato di astrazione al quale si è svolto il testo, Melegari e Capoccetti negano di escludere che si possano ricompattare classi dominanti e ceti medi intorno alla nuova fase aperta dalla crisi europea, in particolare a seguito della spinta triplice della crisi economica, dell’erogazione compensativa attesa e dell’austerità rilanciata (con i tempi e i diversi bersagli di queste tre ‘gambe’[xiv]), ma ritengono che non sia ancora un dato. Non ne derivano, in altre parole, sufficiente evidenza per riconfermare una visione “dicotomica” della società che “ha mostrato tutta la sua problematicità”. E confermano l’opinione che “allo stato attuale una forza socialista di qualche portata potrebbe, forse, assumere consistenza sedimentando relazioni, polarizzando e orientando forze all’interno di un campo in sé non socialista”.
Da ultimo si trova l’ultima formula: “la nostra ambizione, insomma, non è quella di sottrarsi alla diagnosi delle contraddizioni in seno al popolo, e soprattutto al compito di risolverle in modo non antagonistico, ma di costruire un popolo in seno alle contraddizioni del presente, poiché al di fuori di esse non si tratterà di un popolo”.
Una formula altamente ambigua, “costruire un popolo in seno alle contraddizioni del presente”, ovvero senza risolverle, restando nel loro “seno”. E ciò per un motivo, essenzialmente, che “al di fuori di esse non si tratterà di un popolo”. Un motivo oscuro. Al di fuori delle contraddizioni del presente, fuori del loro seno, non si tratterebbe di avere un popolo. Verrebbe da chiedere agli autori: “Che cosa è un popolo?”.
Ma torniamo al testo, dopo averne brevemente fatto la sintesi.
Tra chi scrive e M&C ci sono numerosi elementi di concordanza, ma anche di differenza. In estrema sintesi la differenza deriva dall’adesione o meno ad un’impostazione connessa con la letteratura e la postura teorica postmoderna. In numerosi punti, sia negli interventi originari, sia nelle repliche, dai nostri viene uno schema tradizionalmente replicato nella letteratura in oggetto, nata per differenza e polemica con la versione strutturalista del marxismo: secondo questa critica chi fa riferimento a contraddizioni fondate o ancorate a questioni materiali è infarcito di determinismo metafisico. In risposta vengono sollevate formulazioni vaghe, il cui scopo è far intendere che nulla può essere detto di sostanziale e che, quindi, tutto può essere fatto ed ottenuto. Tutto a condizione di creare la giusta rappresentazione. Ovvero a condizione di attivare la “politica”.
Si arriva al punto di non temere di fare affermazioni di esistenza “forti”, purché abbiano esiti “deboli”. È il caso della affermazione chiave di M&C: la politica è “ontologia del sociale”. Bisogna fare attenzione. Un’affermazione metafisica, per la quale i rapporti sociali sono “il politico” (o “il politico è l’essere dei rapporti sociali”), porta ad attribuire alla creazione di una frontiera antagonista attraverso la scelta arbitraria (dal menù disparato della contingenza) di “significati vuoti” e quindi di “catene equivalenziali” la funzione centrale ed ineludibile niente di meno che di creazione del sociale.
Pur senza direttamente contrastare gli argomenti fattuali avanzati nell’articolo di replica di Visalli, essi vengono incorniciati in un contesto del tutto opposto. Non è decisivo il fatto che i ceti lavoratori (solo in parte ascrivibili alla classe operaia, peraltro da considerare in modo molto esteso come risulta da una nota in “Avanzate e ritirate”[xv]) abbiano interessi strutturalmente opposti a parte dei ceti medi, come risulta quotidianamente dalla polemica pubblica. Ma è da valorizzare la circostanza che sia in campo anche un conflitto tra ceti dominanti principali e secondari (la famosa questione della borghesia dedita al mercato interno, probabilmente) e che la lotta sia da spendere soprattutto sul piano simbolico.
Qui l’utilizzo di una terna di autori certo non estranei al marxismo come La Grassa, Bordieu e Laclau, ma da esso molto lontani con il tempo. Autori per intero compresi nello spirito della sconfitta (e non già del fallimento[xvi]) e quindi della ritirata[xvii].
Non si tratta affatto di non essere “disposti a giocare nel terreno rimasto”, quanto di non giocare con armi che hanno dimostrato negli anni la propria assoluta inutilità. Anzi, il loro essere state forgiate dal nemico per essere inutili. Una cosa, e condivisibile, è non avere una rappresentazione rozza e schematica di “struttura” e “sovrastruttura”, cadendo nelle forme più metafisiche di economicismo e di determinismo storicista[xviii], un’altra, del tutto diversa, dissolvere ogni rilevanza alla materialità dell’esistenza e dei rapporti sociali che istituisce. Ancora, una cosa è ricondurre tutto alle forze produttive ed ai rapporti di produzione, disconoscendo l’importanza della decisione, della politica come apertura al possibile[xix], altro far della decisione politica l’ontologia del sociale.
Anche per effetto della letteratura per lo più citata il campo dei nostri scivola su quel tono così comune negli anni ottanta e novanta, nella sinistra radicale, del rifiuto del lavoro[xx], come razionalizzazione di due fenomeni concomitanti, l’espulsione dei lavoratori dalle fabbriche e la disgregazione di queste (uscita dal fordismo) e l’esaltazione del lavoro autonomo ai diversi livelli. Questa mitologia del lavoro autonomo (che mi ha biograficamente coinvolto, in quanto diplomato nel 1980) è in effetti una potentissima arma ideologica nelle mani del liberismo, dissolvendo il sociale e aprendo alle società variamente etichettate come “liquide” o “del rischio”[xxi]. Si è trattato di una potentissima “controepica” che si è opposta direttamente all’epica del “movimento operaio” portata avanti dal marxismo novecentesco. Questa “contro epica” è del tutto evidente, e quasi rivendicata all’avvio dell’intervento dei nostri (che, non a caso, prendono il “buon” lavoro enunciato per attaccare l’epica del lavoro operaio[xxii]).
Come dice Formenti, in altre parole, “alla base c’è la convinzione che il mondo della necessità, il mondo del bisogno, sia un residuo medioevale perché lo sviluppo delle forze produttive, la conoscenza tecnologica e scientifica incorporata nel sistema delle macchine (il general intellect) hanno di fatto già risolto il problema”[xxiii].
Attraverso questa discussione, insomma, e attraverso la scelta che sottende, passa la frontiera tra la prosecuzione della mascherata postmoderna, immagine propria della sconfitta del socialismo riletta come fallimento, e delle sue infinite versioni di pensiero adattivo, e l’assunzione della possibilità di una ripresa della lotta. Ripresa determinata dal mutamento delle condizioni materiali e dal rovesciamento e fallimento della non società liberale. La riaffermazione della possibilità di ritrovare l’ancoraggio solido nelle dure condizioni materiali, le uniche che possono dare piede al salto necessario.
La nebbiolina si sta alzando.
Dovremmo lasciare le vecchie parole e ritrovare le nostre.
Nessun commento:
Posta un commento