Nelle polemiche che hanno accompagnato questi mesi di quarantena si è fatto strada un dubbio, una denuncia, un’ipotesi provocatoria e allarmante: possibile che le misure «emergenziali», che hanno drasticamente trasformato la vita collettiva, non siano che il preludio a un nuovo genere di totalitarismo, radicato nella dimensione «biopolitica»? Liquidare la domanda come una forma di ottuso complottismo (come in parte è stato fatto) non aiuta a chiarire le cose, visto che la denuncia poggia su due innegabili evidenze.
È un fatto, in primo luogo, che in questi mesi la vita sociale sia stata integralmente regolamentata, in ogni suo dettaglio, da una miriade di norme e proibizioni varate in nome della «salute pubblica», il che richiama inevitabilmente alla memoria i momenti più bui del Terrore e dell’eugenetica totalitaria. Ed è certo, in secondo luogo, che il «distanziamento sociale» ha sostituito il rapporto tra i corpi con forme di interazione a distanza, governate da un apparato tecnico autorizzato a scandagliare ogni risvolto della nostra vita privata. Eppure, per altri aspetti, la denuncia stride in modo vistoso con la realtà dei fatti, tanto da lasciare fredda l’opinione pubblica più ragionevole e fare breccia, invece, tra i candidati meno idonei alla difesa delle libertà civili: le destre radicali e i «sovranisti» più accaniti.
Potere sulla vita
In effetti, tutto quello che sappiamo su questi mesi di emergenza suggerisce l’idea che il potere «sovrano» non abbia affatto incoraggiato il lockdown ma abbia, al contrario, fatto l’impossibile per evitarlo, minimizzarlo o posporlo: a Wuhan come ad Alzano e Nembro, a Londra come in Brasile. Non solo per l’ovvia esigenza di salvaguardare la produttività e i profitti, ma anche per un motivo inerente alla natura stessa del potere. Sovranità vuol dire infatti essenzialmente potere sulla vita: diritto di decidere quali vite vadano protette e quali, invece, siano sacrificabili o, più genericamente, «dispensabili».
Nel caso presente, le misure sanitarie hanno obiettivamente messo in forse una tale autorità, ispirandosi (almeno a parole) al principio che tutte le vite hanno diritto alla stessa protezione. Non è un caso perciò che le mobilitazioni innescate dalla pandemia si siano intrecciate a quelle contro la violenza di genere (Non una di meno) e di razza (Black Lives Matter). Né che, sul fronte opposto, sovranisti e suprematisti abbraccino con tanta convinzione l’idea che la pandemia sia un’invenzione dei «poteri dominanti» e sfilino, armi alla mano, in difesa della «libertà» e del «popolo sovrano».
C’è un ulteriore aspetto inedito, in un tale confronto, che merita attenzione. Le vite «dispensabili» sono quelle invisibili, finché restano tali. Il video sull’omicidio di George Floyd, come gli smart phone branditi dagli attivisti in tutte le manifestazioni, rendono chiaro che la prima posta in gioco nello scontro è la visibilità, capace di rendere esemplari eventi che, in passato, restavano nell’ombra. Ora, se la presa sulla visibilità sfugge di mano alle autorità costituite, è anche merito delle tecnologie digitali. Col risultato che l’attivismo civile può ritrovarsi in un’imbarazzante prossimità con tecnologie della sorveglianza che, su altri fronti, minacciano di invadere la sfera privata (come è avvenuto, almeno in parte, col me-too).
Eppure c’è del vero nell’idea che un legame profondo unisca la crisi attuale a quella che, un secolo fa, segnò il tracollo della società liberale ottocentesca.
Anche se, presi alla lettera, i riferimenti al totalitarismo sono in realtà fuorvianti. Autori come Karl Polanyi e Hannah Arendt hanno mostrato in modo più che convincente come i regimi totalitari, nella loro forma storica effettiva, siano stati essenzialmente un episodio, per quanto tragico, in un processo di sgretolamento istituzionale ancora in corso, di cui stentiamo a decifrare la chiave. Di questa grande trasformazione» è stata parte integrante, fin da principio, la parcellizzazione della sovranità, il tramonto progressivo di quel «monopolio della decisione» che i regimi totalitari intendevano invece preservare, a carissimo prezzo e con scarso successo. Niente, al momento, fa pensare a un’inversione di tendenza, il che rende decisamente improbabile una loro riproduzione puntuale e autorizza a catalogarli tra i «fenomeni morbosi» germinati in quello che Gramsci chiamava l’interregno, in cui «il vecchio muore e il nuovo non può nascere».
Di fronte a un esperimento sociale di portata planetaria come l’emergenza sanitaria in corso, più che lasciarci irretire dai ricorsi storici, la domanda che dovremmo porci è: possiamo trarne qualche lume sulle tendenze di fondo, sui tratti strutturali dell’interregno, attivi oggi non meno di cento anni fa, benché sotto altre vesti?
Totalitarismo
Per cercare una risposta, uno spunto prezioso è l’idea di Hannah Arendt che il totalitarismo poggi su un’esperienza umana basilare, già nota a tutte le culture del passato, che per qualche ragione era sempre rimasta ai margini della vita politica, finché le condizioni della tarda modernità non l’hanno proiettata al centro della sfera pubblica. Nel testo inglese, l’esperienza in questione è designata col termine loneliness, la cui traduzione è meno ovvia di quanto appaia a prima vista. La loneliness infatti, secondo Arendt, va distinta tanto dalla isolation quanto dalla solitude. È insomma un genere di solitudine radicale che prende forma quando si è letteralmente ingabbiati in una specie di bolla, nella quale le azioni non possono avere alcun senso e le opinioni alcun peso. L’esempio classico, allora come adesso, è la condizione di sradicamento e di impotenza dei rifugiati o dei deportati in un lager. Ma c’è un esempio anche più familiare e più antico: quello dei vecchi infermi, inchiodati al proprio «necessario metabolismo con la natura che non interessa a nessuno» e privati della «capacità di aggiungere qualcosa di proprio al mondo comune».
Il punto cruciale, ora, è che «da esperienza limite, usualmente subita in certe condizioni sociali marginali come la vecchiaia, la solitudine radicale è diventata un’esperienza quotidiana delle masse crescenti del nostro secolo».
Se sfogliamo, ora, il diario della pandemia alla luce di queste intuizioni, molti aspetti in apparenza eterogenei mostrano un denominatore comune. Pensiamo, in primo luogo, alla solitudine radicale dei ricoverati, spesso anziani e del tutto inermi di fronte a un sistema di protocolli medici impenetrabile e aleatorio quanto il castello di Kafka. Alla solitudine delle loro famiglie, spesso prive fino all’ultimo di qualunque notizia attendibile, ma anche a quella dei malati puramente ipotetici o virtuali, chiusi in casa in attesa di un tampone o di un controllo medico rinviato all’infinito. A questo primo quadro affianchiamo il disorientamento dell’intera popolazione, sospesa in un limbo di inattività forzata, sancita da una miriade di norme vaghe e contraddittorie, affidate di fatto all’arbitrio del poliziotto di turno. E aggiungiamo i milioni di nuovi disoccupati e di piccole aziende sommerse dai debiti, la cui sopravvivenza è demandata a un’onda di liquidità monetaria creata ex nihilo, pattuita a porte chiuse tra ministri e banchieri e priva di qualunque nesso con l’effettiva produzione di ricchezza. Scenari del tutto diversi tra loro, nei quali si affaccia però la stessa miscela di spaesamento e dipendenza, la stessa percezione di essere irretiti in una bolla di insensatezza che ci rende impotenti, superflui e sacrificabili.
Eppure, nessuno dei quadri citati è riconducibile a una qualche autorità sovrana. Al contrario, a sigillare la bolla, di volta in volta, è proprio il suo carattere radicalmente convenzionale, nei due diversi sensi della parola. «Convenzione» vuol dire infatti, in primo luogo, convergenza di opinioni e di punti di vista indipendenti, risultato in qualche misura impersonale di patti e negoziati in cui nessuno, per definizione, dispone di un’autorità suprema. Persino i protocolli medici sono emersi dalla continua trattativa fra virologi e tecnici, epidemiologi e statistici, amministratori e giuristi, al punto che la «competenza tecnica» ha finito col risolversi nel padroneggiamento delle procedure più che in una effettiva conoscenza della patologia in tutti i suoi aspetti. E si è trattato, in secondo luogo, di una “convenzionalità” decisa a tavolino, generata artificialmente e in sostanziale autonomia rispetto alla realtà materiale, come nel caso del fiat money da cui dipende ormai per intero la riproduzione del ciclo economico. Una simile convenzionalità radicale non può che esasperare la distanza tra gli insider e gli outsider, tra la ristretta cerchia di chi prende parte alla negoziazione e all’artificio e la massa innumerevole di chi ne è escluso ed è perciò consegnato alla solitudine impotente. Col risultato di un duplice accecamento: mentre gli outsider restano all’oscuro delle dinamiche convenzionali, gli insider hanno sempre meno accesso all’esperienza effettiva (si pensi al caso di Boris Johnson, che ha dovuto ammalarsi per acquisire una qualche conoscenza del sistema sanitario che il suo partito sta smantellando da decenni). A fare da spartiacque fra i due poli sono tre fattori sempre più connessi l’uno all’altro: la competenza tecnica, il valore economico e il potere politico, di cui un ceto dirigente privo di autorità continua a detenere il monopolio.
Non si è forse riflettuto abbastanza, in questi mesi, sulle radici profonde di una simile spaccatura, che risalgono indietro nel tempo ben al di là dell’emergenza recente.
Mercato capitalistico
Valore, potere e competenza sono infatti i parametri di misura su cui poggiano i principali meccanismi istituzionali della modernità: il mercato capitalistico, la sovranità legittima e la tecnoscienza. Istituzioni eterogenee, nate e cresciute in modo indipendente, che nella prima metà dell’Ottocento si sono assemblate in un congegno sociale unitario sulla base di una promessa che le accomunava: quella di mettere fine all’isolamento e all’insicurezza che si supponeva dominassero lo «stato di natura», per dare vita a una società civile.
Per quasi un secolo, pur tra mille contraddizioni, è sembrato che la promessa fosse effettivamente mantenuta, almeno in poche grandi nazioni europee. Clan, tribù e moltitudini si trasformavano in popoli civili, capaci di agire «di concerto» perché legati in una trama di interessi, opinioni e affetti condivisi. Fino al trauma collettivo della prima guerra mondiale. Al risveglio da quell’incubo, peraltro aggravato dai milioni di morti della epidemia «spagnola», si scoprì che l’intera società stava marciando in direzione opposta e che le stesse istituzioni che, fino a quel momento, avevano promesso socialità e sicurezza si stavano trasformando, nel frattempo, in gigantesche fabbriche di atomizzazione sociale, insicurezza e solitudine.
La metamorfosi istituzionale, da allora in poi, non si è mai interrotta e ha assunto anzi, via via, forme sempre più inquietanti.
I regimi totalitari del Novecento, che avevano sedotto le masse proprio con la promessa di ripristinare sicurezza e omogeneità sociale, hanno poi fatto del terrore e dell’isolamento i principali collanti del sistema. E il neoliberalismo, che ha permesso alle democrazie liberali di uscire vittoriose dalla Guerra Fredda, ha imposto su tutta la terra un livello di atomizzazione sociale senza precedenti, al punto da rigenerare, nel cuore della civiltà, qualcosa di paragonabile a uno stato di natura artificiale, in cui è la macchina istituzionale, e non la «natura», a rendere la vita di milioni di persone «solitaria, misera, sgradevole, brutale e breve», proprio come nella lapidaria descrizione di Hobbes.
Se le misure emergenziali della pandemia hanno fatto scattare qualche campanello d’allarme non è tanto per intransigenza morale o mancanza di realismo politico. Il punto cruciale è che nulla ci garantisce che non stia prendendo forma l’ennesima trasformazione di Jeckyll in Hyde, al cui termine gli stessi automatismi istituzionali che oggi promettono di proteggerci dal pericolo e dall’abbandono potrebbero, domani, generare una polverizzazione ancora più profonda dei legami sociali. E una garanzia del genere è impossibile per la semplice ragione che nessuno, al momento, è veramente in grado di padroneggiare le dinamiche profonde di una tale metamorfosi istituzionale e di mettere a punto il «vaccino» di cui avremmo bisogno.
L’interregno non è ancora concluso e, nel frattempo, il meglio che si possa fare è riconoscere apertamente la nostra parziale ignoranza e far cadere, per quanto possibile, la barriera convenzionale che divide i presunti depositari di un sapere senza più contenuto dalla moltitudine di chi invece è consegnato a un’esperienza tanto effettiva quanto invisibile e muta. Un compito preliminare cui può offrire un contributo persino un dibattito estivo, fosse anche confuso e polemico, purché attento a mantenere la presa sulla realtà dei fatti.
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