Incontro Thomas Piketty nel suo regno: un modesto ufficio al quinto piano della Paris School of Economics, in un quartiere popolare nel sud di Parigi. Chiedo a uno studente di indicarmi il suo ufficio. Lui alza la testa come a intendere: «Vuoi dire la star!». L’economista francese ha raggiunto le vette della notorietà scientifica grazie al libro «Il Capitale nel XXI secolo »: una storia inedita delle disuguaglianze dal XVIII secolo ad oggi realizzata grazie all’analisi di un’immensa quantità di dati da venti Paesi.
Il suo ultimo libro, “Capitale e ideologia”, edito in Italia da La Nave di Teseo, ha prodotto non poco scandalo. In 1200 pagine ripercorre la storia e il futuro dei regimi basati sulla disuguaglianza dal punto di vista economico, sociale, intellettuale e politico, dalle antiche società schiaviste alle moderne società postcoloniali e ipercapitalistiche. Piketty mostra come abbiamo raggiunto gli incontrollati livelli di disuguaglianze di reddito e di concentrazione della ricchezza attuali. La sua proposta per combattere le ingiustizie sociali? Superare il sistema capitalista grazie ad un “socialismo partecipativo”, basato sulla proprietà sociale e temporanea, una tassazione progressiva sul reddito e una democrazia transnazionale.
Analisi e proposte radicali che in Cina gli sono valse la censura: l’editore cinese l’ha invitato a togliere tutti i riferimenti “all’ineguaglianza e all’opacità in Cina”. Nato nella banlieue borghese di Parigi, i genitori militanti trotzkisti di Lotta operaia, non diplomati come lui precisa, hanno inseguito le utopie della fine degli anni ’60, cambiando più volte dimora e portandolo in giro per la Francia. Dopo anni di formazione a Boston, dal 2000 Piketty è direttore degli studi all’EHESS di Parigi. Dal 2007 è professore alla Paris School of Economics dove quest’anno tiene un corso intitolato “Introduzione alla storia economica: capitale, disuguaglianza, crescita”.
L’edificio dell’università, sottolinea l’economista, sorge sull’ex campus della Scuola Normale delle ragazze che si è unita con quella dei maschi solo nel 1987: «La Francia non è un Paese molto visionario sull’uguaglianza uomo-donna», osserva.
Professore, abbiamo imparato che dalla caduta del muro di Berlino viviamo in un mondo post-ideologico. Nel suo libro “Capitale e ideologia” lei scrive che «la disuguaglianza non è economica o tecnologica: è ideologica e politica». Che cosa intende per ideologia?
«L’ideologia è il tentativo di società e individui di trovare una risposta alla questione della società e dell’economia giusta. Concretamente significa dare una definizione della frontiera e della proprietà. Determinare la frontiera vuol dire chiedersi in quale comunità politica ci collochiamo, con quale gruppo di individui riflettiamo, come decidiamo chi è cittadino e chi è straniero. E poi c’è il tema della proprietà, ovvero: cosa abbiamo il diritto di possedere? Tutto? Le altre persone, le conoscenze, le risorse naturali? Quali sono i diritti dei proprietari rispetto ai non proprietari? Nel corso della storia c’è stato un cambiamento di scala rispetto a queste due questioni, dalle civiltà antiche, alle società schiaviste e coloniali fino a quelle “proprietariste” (liberiste, Ndr) o comuniste del XIX secolo. La definizione delle relazioni di potere tra i diversi gruppi rispetto alla proprietà è una delle questioni centrali».
Lascia intendere che l’Ancien régime fosse più egualitario del sistema repubblicano fondato sulla meritocrazia…
«Per me la Rivoluzione francese ha generato un’uguaglianza giuridica di fronte alla legge importante. Prendo in giro Montesquieu perché voleva conservare i privilegi giuridici della nobiltà a livello locale e faccio il paragone con le persone che oggi non si fidano di un catasto finanziario mondiale e che vogliono mantenere dei paradisi fiscali per poter fuggire ai cosiddetti governi dittatoriali. È lo stesso argomento di Montesquieu che non voleva la centralizzazione repubblicana, perché sosteneva che avrebbe avuto conseguenze dittatoriali. La Rivoluzione francese impone la centralizzazione del sistema giuridico e dello stato di diritto in una comunità di 30 milioni di persone che, tenendo conto dei mezzi di trasporto dell’epoca, è come oggi l’Europa. La creazione di quest’unità giuridica ha permesso di evitare di cadere sotto l’arbitrio delle élite locali. Ma è anche vero che nello stesso tempo si nazionalizza la capacità dei proprietari di difendere il proprio diritto alla proprietà e di non estenderlo ad altri. Ci vorrà molto tempo perché questa capacità di stato sia messa al servizio di un altro progetto politico».
Storicamente la sinistra ha rappresentato e difeso i valori dell’istruzione, dell’investimento nell’educazione, nelle pratiche della cultura... valori che nella sua ricostruzione storica appaiono centrali nella lotta alle disuguaglianze. Pensa che l’abbandono di queste priorità abbia impedito alle forze di sinistra di smarcarsi dai partiti di destra nazionalisti e contribuito alla loro debolezza elettorale?
«Dopo la Seconda guerra mondiale si costituiscono e si sciolgono coalizioni politiche che hanno realizzato misure come la previdenza sociale. Tra il 1950 e il 1980 i partiti politici socialdemocratici, socialisti, laburisti sono riusciti a riunire un elettorato popolare intorno ad una politica di riduzione delle disuguaglianze nell’ambito dell’educazione, dei diritti sindacali, del diritto al lavoro, della previdenza sociale. Queste coalizioni si sono poi disgregate e oggi questi partiti sono diventati partiti “socialmente favoriti”, ovvero la sinistra “brahmanica” (sinistra intellettuale benestante, Ndr). In origine, negli anni ’50-’70, gli elettori di questi partiti sono persone con un livello di istruzione basso. Nel periodo 2000-2010 è avviene il contrario: più l’elettore è diplomato (istruito?) più vota per questi partiti. A partire dagli anni ’80-’90, c’è stata una perdita di ambizione rispetto all’uguaglianza nell’educazione: i partiti di sinistra hanno fatto fatica a rinnovare i loro programmi. Ma la questione dell’educazione non è l’unico fattore. Queste forze politiche hanno smesso di riflettere sulle forme di superamento del capitalismo. I partiti socialista in Francia e laburista nel Regno Unito fino agli anni ’80 volevano nazionalizzare tutto; a partire dagli anni ’90 sparisce ogni programma di ridistribuzione della proprietà. Questo ha allontanato gli elettori».
Le idee alla base della sua proposta di socialismo partecipativo, come la tassazione progressiva sul reddito e il patrimonio e la proprietà temporanea, sono chiare. Quale partito le sta interpretando oggi? I politici l’ascoltano?
«Credo che le idee facciano il loro cammino. Il dibattito sulle imposte progressive o la condivisione del potere nelle aziende esistono da anni. Dalla crisi finanziaria del 2008, molti Paesi come Stati Uniti, Francia e Spagna hanno sviluppato delle proposte nuove. Bisogna considerare la trasformazione ideologica in corso negli Usa. La campagna per le primarie del partito democratico negli Stati Uniti è stata vinta da Bernie Sanders e Elizabeth Warren, che avevano la metà dei voti. Cosa hanno proposto? Di creare un’imposta federale sul patrimonio negli Stati Uniti, con tassi che arrivano fino all’8 per cento per i miliardari. Chi possiede 100 miliardi avrebbe pagato 8 miliardi all’anno di imposte, quindi in 10 anni avrebbe pagato 80 miliardi con una exit tax al 40 per cento. In Europa il tasso delle imposte sul patrimonio non ha mai superato il 2-3 per cento. Roosevelt, negli Stati Uniti, ha applicato una fiscalità progressiva fino all’ 80 per cento sulle grandi ricchezze, applicata dal 1930 al 1980».
Bernie Sanders ed Elizabeth Warren sono andati nella direzione di una lotta fiscale alle disuguaglianze come suggerisce lei?
«Il fatto che due candidati alla campagna americana, che avevano la metà dei voti, abbiano fatto queste proposte fiscali è il segno di un’evoluzione importante. Penso che oggi nei dibattiti con Trump avrebbero fatto una figura migliore di Joe Biden».
Ha visto il primo dibattito Trump-Biden?
«Non è solo una questione di età: Biden non è molto giovane, ma nemmeno Trump lo è. Il problema è che Biden è piuttosto molle nell’espressione della sua visione delle cose. Trump è chiaro. Dice: voglio assicurazioni sanitarie private, non voglio essere disturbato sull’ambiente, non voglio immigrati, né tantomeno imposte sui businessman».
Biden afferma: sull’assicurazione sanitaria non sono come quell’orribile socialista di Sanders, non voglio un’assicurazione sanitaria pubblica, ma voglio comunque fare qualcosa per i poveri. Ma allora perché non un’assicurazione per tutti?
«Secondo me, se avessimo ascoltato di più i giovani elettori democratici che preferivano Sanders e Warren, penso che saremmo partiti con il piede giusto per l’elezione».
Ha provato a dialogare con loro?
«Ho avuto un dibattito con Warren nel 2014 a Boston: all’epoca difendevo un tasso di imposta sul patrimonio che arrivava a 5-10 per cento all’anno sui miliardari. Lei era molto scettica e mi diceva “è troppo!”. Sei anni dopo c’è stata una competizione tra lei e Sanders per chi proponeva un tasso più alto. Nel frattempo io sono passato al 90 per cento di imposte sul patrimonio per essere sicuro di stare un passo avanti (sorride)».
Quindi la fiscalità è lo strumento principale per combattere le disuguaglianze economiche?
«Gli strumenti più importanti sono la ridefinizione giuridica della proprietà e il potere attribuito ai lavoratori. L’idea chiave del socialismo partecipativo che propongo è la condivisione del potere: gli impiegati di un’azienda, anche se non ne detengono nessuna azione, devono avere la metà dei diritti di voto nei consigli d’amministrazione».
Come in Germania?
«Come in Germania, ma vorrei che accadesse in tutte le aziende, anche le più piccole. Penso che per il 50 per cento degli azionisti ci dovrebbe essere un tetto, diciamo del 10 per cento, sui diritti di voto che un azionista può avere al di sopra di una certa dimensione dell’azienda, per esempio 100 dipendenti. L’idea è che il potere dovrebbe circolare, come il reddito e la proprietà. Se i dipendenti o una collettività locale possiedono il 10-20 per cento delle azioni - come in Germania - la maggioranza cambierà anche di fronte a chi possiede l’80-90 per cento delle azioni. Ovviamente dal punto di vista degli azionisti questo è tabù. Per le piccole imprese, il creatore dell’impresa conserva la maggioranza dei voti, ma dovrà discutere e deliberare con i suoi 10 impiegati. Grazie al confronto si può cambiare il sistema».
Il governo Conte 1 ha adottato il reddito di cittadinanza, proposto dal M5S. In più la Lega voleva flat tax. Queste misure contribuiscono all’uguaglianza?
«Critico severamente la flat tax. Il giorno in cui il M5S ha accettato la flat tax per poter fare la coalizione con Salvini, in cambio del reddito di cittadinanza, ha mostrato a che punto il partito mancasse di una colonna vertebrale politica e ideologica. La flat tax è la peggior misura che si possa immaginare: se si vuole una società più giusta bisogna creare le condizioni per non trattare in modo diverso un miliardario e chi ha un reddito minimo. Gli scarti di reddito e patrimonio devono essere ragionevoli. Oggi l’imposta sul reddito in Russia è al 13 per cento, che tu sia un oligarca che guadagna 100 miliardi al mese o un pensionato che guadagna 100 rubli al mese. Il risultato è una società inegualitaria e ingiusta. Questo mostra la deriva nazionalista, identitaria, xenofoba di alcuni partiti, che cercano di far credere che, colpendo gli immigrati si risolvano i problemi di uguaglianza tra classi sociali e non ci sia più bisogno di ridistribuzione, di far pagare di più chi guadagna di più. La strategia di Trump è dire: «Poveri bianchi, il vostro nemico sono i poveri messicani, cinesi, musulmani e non il grande miliardario bianco che vi protegge». Mi ha rattristato vedere che il M5S fosse disponibile a cedere sulla flat tax, perché so che nel M5S rispetto alla Lega c’erano potenzialità più interessanti, una volontà di redistribuzione».
E il reddito di cittadinanza?
«Credo che il reddito di base sia da sviluppare. È solo una delle componenti per ridurre gli scarti salariali, insieme a maggiori diritti per i dipendenti, una tassazione progressiva e la redistribuzione della proprietà. Oltre al reddito di base e l’accesso all’istruzione per tutti, propongo l’accesso a un’eredità per tutti: a 25 anni tutti ricevono 120 mila euro di patrimonio; un’imposta progressiva sulla successione permetterebbe di pagare questa eredità. Concretamente le persone che ricevono zero con questo sistema ne riceverebbero 120 mila e quelli che ricevono oggi 1 milione, con l’imposta che propongo ne riceverebbero 600 mila».
Perché un patrimonio è così importante?
«Avere un patrimonio di base permette di avere un minimo di potere sulla vita, il che vuol dire che i giovani non sono obbligati ad accettare tutto. Quando possedete zero non avete scelta: dovete accettare qualunque lavoro a qualunque condizione, perché bisogna pagare le bollette, nutrire i figli... Con un capitale di partenza potete prendere tempo, discutere, creare un’azienda, comprare una casa, avere progetti professionali più coraggiosi, creare associazioni, cooperative. La stampa francese cosiddetta liberale mi critica dicendo che i figli delle classi popolari non sanno cosa fare con quei soldi, faranno solo stupidaggini… come se i figli dei ricchi spendessero sempre la loro eredità in modo intelligente e irreprensibile! Quando si vuole controllare l’eredità dei poveri, ma non quella dei ricchi, il liberalismo si mostra per quello che è: una foglia di fico per nascondere un elitismo autoritario».
Che tipo di influenza sulle disuguaglianze ha avuto l’attuale crisi sanitaria?
«Il Covid è una catastrofe. Non penso sia uno choc tale da cambiare il sistema: ha rafforzato le disuguaglianze. La reazione dell’Unione europea è stata di creare un debito comune per rilanciare l’economia e aiutare i Paesi più colpiti. Potenzialmente è stata una svolta importante, ma per ora abbiamo perso questa opportunità. Le misure non sono state adottate dai parlamenti nazionali e continuiamo ad essere bloccati dalla regola dell’unanimità in una Europa che impedisce di andare più lontano, più rapidamente, di adottare misure di giustizia sociale comuni. È arrivato il momento per Italia, Francia, Spagna, Germania, il 75 per cento della popolazione e del Pil della zona euro, di creare un’assemblea comune di parlamentari. Sarebbe l’occasione per votare a maggioranza un piano di rilancio più ambizioso, proponendo ad altri Paesi di raggiungere l’assemblea.
«Mi preoccupa il modo in cui ci siamo sottomessi al diritto di veto di Olanda o Danimarca. Il piano di luglio deve essere ancora ratificato e non sappiamo a che punto siamo. Se fosse approvato e fra 2-3 mesi scoprissimo che è insufficiente, cosa faremo? Come affrontare il debito comune? Al momento la soluzione è lasciare che la Banca Centrale Europea crei abbastanza moneta per assorbire nel bilancio tutti i debiti. Questa soluzione regola la questione del debito, ma aumenta le disuguaglianze di patrimonio, dopando il corso della borsa e quello immobiliare, arricchendo i più ricchi. Mi piacerebbe che il governo italiano fosse più offensivo nelle sue proposte di trasformazione democratica dell’Europa. Penso che l’opinione pubblica sarebbe pronta a sostenere un piano più ambizioso».
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