Si preannuncia al ribasso l’intesa sulla tassa minima globale che i 140 Stati membri dell’Ocse ufficializzeranno venerdì, dopo lunghi negoziati condotti senza trasparenza, e che a fine ottobre dovrebbe ottenere il via libera finale al vertice dei leader G20 a Roma. A perderci, mostra un’analisi condotta da Oxford University e Oxfam, saranno soprattutto i Paesi in via di sviluppo. Che rischiano, dopo aver tassato la piccola parte di profitti che sarà “distribuita” tra i Paesi in cui le multinazionali realizzano i ricavi, di ritrovarsi in cassa meno di quanto raccolgono oggi con le loro web tax o digital tax. A festeggiare, sul fronte opposto, sono i Paesi ricchi e quelli che prosperano grazie alla concorrenza fiscale, cioè offrendo ai grandi gruppi aliquote di favore. Non a caso il governo irlandese, che in luglio insieme a Ungheria ed Estonia non aveva accettato di firmare, ora ha dato via libera – lo stesso ha fatto Tallinn – rivendicando di aver ricevuto “rassicurazioni” sulla possibilità di continuare a chiedere solo il 12,5% alle aziende con ricavi sotto i 750 milioni. E incassando pure i complimenti del commissario Ue Paolo Gentiloni (“passo epocale”).
“L’iniziativa partita per far pagare alle multinazionali la loro giusta parte avrà l’effetto opposto“, ha avvertito l’economista Joseph Stiglitz durante una conferenza online organizzata dall’Independent commission for the reform of international corporate taxation. Per Oxfam, il risultato sarà di “aumentare le disuguaglianze globali e negare ai Paesi in via di sviluppo il gettito che potrebbe metterli su un sentiero di più equa ripresa, nel bel mezzo del maggiore aumento della povertà estrema da decenni”.
Il primo pilastro e le perdite per i Paesi poveri – Sul tavolo della ministeriale Ocse c’erano i meccanismi per tradurre in pratica due “pilastri” previsti dalla bozza sottoscritta in giugno dal G7 e in luglio dal G20. Il primo riguarda la redistribuzione del “diritto a tassare” tra tutti i Paesi in cui una multinazionale opera e impatta solo sulle multinazionali con fatturato globale oltre 20 miliardi e profitti superiori al 10% dei ricavi (condizioni già di per sé assai restrittive, rispettate secondo Oxfam solo da 67 corporation). Una quota “tra il 20 e il 30%” dei profitti ulteriori rispetto a quella soglia sarà tassata nei Paesi in cui l’azienda realizza ricavi per almeno 1 milione l’anno. La riunione di questi giorni era chiamata a stabilire la quota precisa. Sulla decisione il vero verrà alzato venerdì, ma Oxfam e Oxford hanno già calcolato che in ogni caso i 52 Paesi in via di sviluppo nell’ipotesi più favorevole ci guadagneranno poco o nulla. Mentre saranno costretti a rinunciare al gettito (1,6 miliardi di dollari) che derivano dalle imposte sui servizi digitali, già applicate alle multinazionali in Brasile, India, Indonesia e Turchia tra gli altri.
Se la riallocazione riguarderà solo il 20% dei profitti ci perderanno addirittura (230 milioni di dollari) e con il 30% ci guadagneranno solo 494 milioni pari allo 0,007% del loro pil. “I governanti dei Paesi in via di sviluppo vengono forzati a scegliere tra qualcosa di negativo e qualcosa di peggiore”, ha commentato il ministro dell’Economia argentino Martin Guzman durante una conferenza online organizzata dall’Independent commission for the reform of international corporate taxation.
L’aliquota minima sarà al 15%: vince Dublino – Quanto al secondo pilastro, la fissazione di un’aliquota minima globale effettiva, l’asticella già a giugno era stata abbassata dal 21% proposto inizialmente ad “almeno 15%”. Un’aliquota “scandalosa”, aveva commentato dall’economista francese Thomas Piketty. Ma il punto di caduta è ancora peggiore: stando alle indiscrezioni fatte circolare in questi giorni da Dublino, durante gli ultimi negoziati si è concordato di togliere l'”almeno”. Ci si fermerà al 15%, meno di quanto paga qualsiasi lavoratore dipendente e pochissimo di più rispetto all’aliquota agevolata del 12,5% irlandese, che ha attirato nel piccolo Paese centinaia di multinazionali comprese Apple, Google, Amazon e Facebook. “Ci siamo assicurati che dal testo fosse rimosso l'”almeno”. Questo darà certezze al governo e all’industria”, ha festeggiato il ministro delle Finanze Paschal Donohoe. “Peraltro, la vasta maggioranza delle imprese in Irlanda sarà fuori dalla portata dell’accordo e non ci saranno cambiamenti alla loro aliquota”.
Per Stiglitz, ex capo economista della Banca Mondiale, il risultato sarà deleterio e innescherà una nuova corsa al ribasso: “Se annunci un minimo globale del 15% temo che quello diventerà il massimo“. E anche in questo caso c’è un grave problema di distribuzione dei proventi: più di due terzi del gettito finirà all’erario dei Paesi del G7 e Ue, mentre stando ai calcoli di Oxfam i Paesi poveri che contano più di un terzo della popolazione mondiale vedranno solo il 3% dei ricavi.
Paesi in via di sviluppo “pressati” per farli aderire – “E’ sicuramente un progresso il fatto che 140 Paesi si accordino sulla redistribuzione dei profitti globali ai fini della tassazione”, concede Mikhail Maslennikov, che per Oxfam segue i dossier relativi a giustizia fiscale e disuguaglianze socio-economiche, “ma la porzione redistribuita sarà residuale e gli impatti distributivi molto limitati. Servirebbe almeno una certa gradualità nel passaggio a questa nuova formula dalle web tax nazionali, di cui l’intesa proibisce l’applicazione a tutte le multinazionali e non solo a quelle coinvolte dal Pillar 1. Perché i Paesi in via di sviluppo devono cedere gettito certo per passare a questa fonte di ricavi non certa?”. Quanto al secondo pilastro, l’aliquota minima globale, “saranno possibili deduzioni tali per cui si scenderà tranquillamente sotto il 15%. E il grosso dell’extra gettito andrà ai Paesi di residenza delle multinazionali”. Questo perché una multinazionale che ottenga di pagare pochissimo in un paradiso fiscale – dentro o fuori dall’Ue – dovrà versare ciò che manca per arrivare al 15% alla nazione dove ha il quartier generale: nella maggior parte dei casi sono gli Usa e in misura molto minore l’Ue e gli Stati asiatici sviluppati.
A conti fatti, secondo Oxfam si tratta di un accordo “fatto dai ricchi, per i ricchi”. I Paesi poveri, che resteranno a bocca asciutta o quasi, sono stati messi sotto pressione per indurli a firmare. Come? Per esempio agitando lo spauracchio di confinarli nella blacklist europea dei paradisi fiscali. L’organizzazione non governativa, in una nota, “condanna il bullismo dei Paesi Ocse nei confronti di quelli meno sviluppati condotto attraverso minacce di sanzioni commerciali e liste nere”. E auspica che sia lasciata libertà di non aderire a uno o ad entrambi i pilastri agli Stati che li valutassero dannosi per la loro economia.
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