Astraendo dalla grande varietà dei casi nazionali, si possono individuare due destre, una liberale, che sostiene i processi economici di globalizzazione e la concorrenza dei capitali, e una conservatrice, la destra del «Dio, Patria e Famiglia»
Semplificando molto e astraendo dalla grande varietà di casi nazionali, le destre sono due. C’è una destra liberale – in Italia diremmo liberista o mercatista – che sostiene i processi economici di globalizzazione e la concorrenza dei capitali dentro e fuori i confini di un singolo Paese. Essa è ostile non tanto allo Stato, ma alla sua interferenza in questi processi: che lo Stato intervenga attivamente per favorirli, per smantellare «difese corporative», è anzi visto con approvazione. E c’è una destra conservatrice, tradizionalistica e comunitaria – la destra del «Dio, Patria e Famiglia» – che trae i suoi consensi proprio dagli sconvolgimenti sociali che un capitalismo senza freni produce: disoccupazione e precarietà, declino di intere regioni, peggioramento nella distribuzione del reddito. Queste due destre ci sono sempre state, sin dagli albori del capitalismo moderno e della democrazia rappresentativa, a volte dando origine a un compromesso instabile nello stesso partito, a volte divise in partiti diversi e contrapposti. La divisione si manifesta quando le ragioni del mercato entrano in più forte conflitto con le ragioni della società: è allora che chi presta orecchio alle sofferenze sociali può trovare un facile consenso. Facile perché ancorato ai valori tradizionali di comunità strette, minacciate dal declino economico, da valori e atteggiamenti estranei ai loro modi di vita, dall’immigrazione.
Ciò è appena avvenuto negli Stati Uniti con la vittoria di Trump, una vittoria della destra populista contro la destra liberale. E sta avvenendo in Europa con l’emergenza o il rafforzamento di partiti populisti, prevalentemente a destra nello spettro politico. Alle origini sta un fenomeno che nessuno ha studiato con maggiore profondità di Karl Polanyi, in un libro scritto poco prima della fine della Seconda guerra mondiale, La grande trasformazione: un libro che costituisce l’integrazione necessaria, sul piano storico-sociale, delle critiche di Keynes all’economia classica, ai razionalizzatori teorici del fondamentalismo di mercato. Come quelle di Keynes, le analisi di Polanyi avevano conosciuto un declino nella fase di maggior successo del neoliberismo e della globalizzazione, fino alla grande recessione del 2007-2008. E, come Keynes, Polanyi viene riscoperto in momenti di crisi: si veda ad esempio il bel libro di Fred Block e Margaret Somers, The power of market fundamentalism (Harvard università Press, 2014). E allora si riscopre il fenomeno di cui dicevo, parte del grande lascito teorico di Polanyi: «il doppio movimento».
Una società non può stare insieme sulla base di soli rapporti di mercato: il tentativo di assoggettare alle logiche di mercato tutti i rapporti sociali, come avviene nelle fasi più dinamiche del capitalismo, è una utopia irrealizzabile e produce danni. Può produrre «contromovimenti» che vanno in direzione opposta, perché gli Stati, democratici o autoritari che siano, devono intervenire in difesa della coesione sociale, minacciata da una troppo radicale o troppo rapida alterazione delle condizioni di vita di gran parte dei cittadini. E questi contromovimenti, in circostanze internazionali avverse, possono sfociare in minacce serie alla democrazia liberale: così avvenne dopo la Prima guerra mondiale in molti grandi Paesi, e solo l’interventismo keynesiano del secondo dopoguerra consenti di riconciliare il mercato colla democrazia.
Il tentativo di assoggettare alle logiche di mercato tutti i rapporti sociali, come avviene nelle fasi più dinamiche del capitalismo, è una utopia irrealizzabile e produce danni
Circostanze internazionali di forte conflitto inter-imperialistico concorsero a produrre gli esiti estremi che si realizzarono dopo la Grande guerra. Circostanze che, per fortuna, oggi non ricorrono. Ma il doppio movimento è ben visibile anche oggi e produce tensioni di cui, per ora e quasi ovunque, sembrano profittare soprattutto le destre. Anzi, sembra quasi che tra di esse si sia instaurato un perverso gioco di squadra. La destra liberale e mercatista scatena gli spiriti animali del capitalismo sregolato, che poi creano crisi economiche e sofferenze sociali. A questo punto è la destra tradizionalista e nazionalista che prende la palla e indirizza l’opposizione sociale secondo i suoi valori e i suoi orientamenti: law and order, nativismo, xenofobia, opposizione a valori liberali in materia di sessualità e famiglia, ritorno all’isolamento comunitario. Da questo gioco la sinistra sembra esclusa, salvo pochi casi eccezionali, come Podemos in Spagna e Syriza in Grecia. Anche i 5 Stelle in Italia? Staremo a vedere, perché sinora non hanno scelto il campo di gioco. Prima o poi lo dovranno però fare, anche se non averlo fatto ha loro consentito di raccogliere tutti gli scontenti. Ma l’aspirazione all’onestà non è un programma che risponda alle grandi sfide politiche dei nostri tempi e non reggerebbe alla prova del governo.
Perché la sinistra non prende palla? Il motivo di fondo mi sembra questo: avendo rinunciato al grande programma utopico del suo lontano passato, avendo accettato un orizzonte capitalistico, l’unico programma al quale essa può ricorrere è quello socialdemocratico del suo passato recente, dei trent’anni gloriosi del secondo dopoguerra. Ma il grande successo politico di quel programma dipendeva anzitutto dal prevalere di condizioni di egemonia mondiale indiscussa degli Stati Uniti e, all’interno di essi, dal predominio di forze politiche orientate ad una liberalizzazione fortemente controllata: il regime di Bretton Woods è stato questo. E dipendeva inoltre da condizioni estremamente favorevoli alla crescita e all’occupazione nei Paesi inseriti nell’orbita americana, tutti alle soglie della rivoluzione industriale fordista-taylorista che già aveva avuto luogo negli Stati Uniti. Non è più così, e anche Paesi che seguissero un orientamento socialdemocratico, nelle attuali condizioni internazionali di globalizzazione neoliberale andrebbero incontro a una crescita assai più modesta e a un continuo sforzo per trasformare economia e istituzioni in modo sempre più efficiente e competitivo. Non certo una buona notizia per le regioni, le imprese e i lavoratori più deboli.
Un’alternativa possibile – non certo entusiasmante per i conflitti programmatici che essa provoca – è un’alleanza contro i populismi tra la sinistra socialdemocratica e le forze più moderate e liberali della destra
In queste condizioni sarebbe quasi un miracolo se la sinistra potesse prevalere da sola a livello nazionale. Contro gli orientamenti internazionali del capitalismo, essa può fare assai poco. Di più potrebbe fare in Europa, se questa non fosse, sotto l’egemonia tedesca, una cinghia di trasmissione del neoliberismo che prevale a livello mondiale. E a livello nazionale la pressione di movimenti populisti, che fanno leva sulle sofferenze, la rabbia e la domanda di protezione dei ceti più deboli, rimarrà molto forte: la loro offerta politica è ingannevole ma molto semplice e non imitabile dalla sinistra se questa non snatura del tutto i suoi valori. Un’alternativa possibile – non certo entusiasmante per i conflitti programmatici che essa provoca – è un’alleanza contro i populismi tra la sinistra socialdemocratica e le forze più moderate e liberali della destra. Questa alleanza funziona da tempo in Germania sotto la leadership della cancelliera Merkel e funzionerà in Francia con l’appoggio della sinistra a un candidato presidenziale della destra liberale. Col governo Rajoy la si tenta ora in Spagna. Con rapporti di forza invertiti sarà forse inevitabile adottarla domani in Italia.
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