mercoledì 24 aprile 2024

RICORDO DI ROSSANA ROSSANDA. PROSPERO M., Chi era Rossana Rossanda, la ragazza del secolo scorso che vedeva nel comunismo la modernità e non la tradizione, L'UNITA', 23.04.2024

 La “ragazza del secolo scorso” nacque, in senso politico, nel 1941 quando incontrò il filosofo Antonio Banfi, il quale dopo qualche tempo di militanza antifascista le aveva consegnato un foglietto con su abbozzata una bibliografia minima dei testi classici del marxismo.

Da quella frequentazione, che dall’università si trasferì nella vita civile oltre che nella sfera privata in seguito al matrimonio con il figlio Rodolfo, scaturì il profilo intellettuale e politico di Rossana Rossanda.



Ne parla lei stessa in questi termini: “Banfi è stato più che il maestro, l’apritore delle porte. In lui trovo l’impronta della cultura tedesca di inizio del secolo, un sapere illimitato e le domande del neokantismo ma anche la Gestalt e un lucore di Freud”.

Nel marxismo Banfi immise autori e temi scandagliati nel corso della sua lunga produzione teorica precedente, la quale coltivava sensibilità talmente eccentriche da urtare con gli approcci canonici di segno economicistico prevalenti tra i comunisti nel dopoguerra.

Il dialogo con il neokantismo, con la fenomenologia, con il razionalismo critico resero quello di Banfi un pensiero indigesto. Egli fu accettato dal Pci come prestigiosa figura politica e accademica, ma il suo impianto filosofico rimase sempre ai margini del partito, al pari del sistema conoscitivo di Galvano della Volpe o del neopositivismo di Ludovico Geymonat.

Grazie alla sua rivista “Studi filosofici”, costretta alla precoce chiusura per un intervento censorio sollecitato dai comunisti francesi irritati per la dimestichezza con Sartre, Banfi usciva dagli schemi.

Rossanda rammenta che persino gli intellettuali fiorentini che dirigevano “Società” fecero “una tragedia perché da Milano un giovane intelligente, Franco Fergnani, aveva recensito Dewey senza maledirlo”.

Oltre che filosofo, Banfi era anche un lucido organizzatore culturale. Con l’apertura della influente “Casa della Cultura”, con la presidenza dell’Associazione Italia-Urss e con l’elezione al Senato, egli esercitò un sicuro peso e si immerse in un decennio di intensa attività pubblica.

Chiamata a dirigere la “Casa” di via Borgogna n. 3 a ventisette anni, alle iniziative Rossanda invitava regolarmente intellettuali laici (Bobbio, Calamandrei), socialisti (Musatti, Basso), e con loro l’ingombrante della Volpe o il sospetto Giulio Preti.

Rispetto agli orientamenti ufficiali del Pci, ancorati ai principi dello storicismo assoluto, non tardò ad emergere una distanza significativa nella valutazione delle tendenze artistiche, nelle interpretazioni del presente.

Rossanda parla di frattura “fra due idee non solo della cultura ma della politica, Milano e Roma. Noi eravamo convinti che coincidessero comunismo e modernità, comunismo e avanguardia, a Roma e a Napoli che coincidessero comunismo e formazione nazionale, comunismo e tradizione; a noi interessavano piú gli Stati Uniti, a Roma piú il latifondo”.

Proprio a questa eterodossa organizzatrice, contestata nella federazione milanese in cui ramificate rimanevano le venature staliniste, aveva pensato Togliatti allorché intuì che l’innesto egemonico – da lui stesso promosso in passato – del Pci nel cuore della cultura nazionale di impronta neo-idealista mostrava chiari segni di usura dinanzi alle trasformazioni del capitalismo dei primi anni ’60, alla diffusione di nuovi saperi e pratiche di vita.

Definendo “il crocianesimo una specie di ossessione”, egli autorizzava la ricerca di sperimentazioni in grado di ampliare la curiosità per le cose nuove. Nel 1963 Rossanda fu chiamata a Botteghe Oscure come responsabile culturale proprio perché aveva altre letture, possedeva diversi linguaggi.

All’inizio neanche le anime più crociane del partito si opposero alla sua nomina. Con quella che poi diventerà la “destra” del Pci a Milano era sorta una strana alleanza, che vedeva convergere gli storicisti del centro-sud e i razionalisti astratti del nord.

Rievoca Rossanda: “Nel 1956, Alicata meridionalista si batteva per un partito rinnovato, così sembrò e a Milano anche fu, con il risultato che c’è di lui una immagine persecutoria a Roma e una diversa in noi settentrionali. Non che fosse un mite né liberale, non lo era per niente neanche Amendola – ma Alicata era spagnolesco, appassionato, rischiatutto, con un gusto dell’impopolarità, Amendola freddo, ragionante e calcolatore, capace di menare una sola botta ma decisiva, «alla bolscevica» come diceva Giuseppe Berti. Alicata si spostava su e giù per l’Italia seminando spavento, Amendola si accattivava i più con quel fare da gran borghese comunista. Veniva spesso con Giorgio Napolitano, cortese e annuitore”.

Tra due mondi così eterogenei, uno cantore del moderno e l’altro dell’arretratezza italiana, non tarderanno le zuffe. Trasferendosi a Roma, da lei descritta come il luogo dell’“autonomia del politico” e dei giochi istituzionali, Rossanda si lasciò alle spalle Milano e Torino, cioè il laboratorio del conflitto sociale nella grande fabbrica (ben diversa da quella delle riviste nate negli anni ’60 perché, scrive con affettuosa ironia, “i soli operai che Mario Tronti conosceva erano gli scaricatori dei mercati generali all’Ostiense”).

Anche la sua sofisticata formazione filosofica banfiana doveva convivere con gli strumenti del rude realismo politico. Rossanda dichiara di aver avvertito una vera e propria “seduzione” al cospetto del ceto politico di comando a Botteghe Oscure“Il vertice del partito, che da lontano avevo percepito come una sorta di super Io, a Roma erano individui che a stento celavano le loro complicatezze. Dovette essere ben forte il cemento che legò a lungo persone così diverse come quelle che mi successe per due o tre anni di frequentare a dovuta distanza, Togliatti, Longo, Amendola, Ingrao, Pajetta e Luciano Lama, e D’Alema padre, e poi Berlinguer. Erano tutto fuorché un gruppo di amici. Suppongo che l’avere fra le mani uno strumento poderoso e delicato – quello che Occhetto e D’Alema avrebbero sepolto prima che spirasse – li inducesse a una disciplina e li difendesse da accenti troppo singolari”.

Sul piano filosofico, Rossanda ottenne il sostegno di opposti fronti di pensiero: da un lato, quello raccolto attorno a Cesare Luporini, il più organico al gruppo dirigente; dall’altro, quello schierato con i più ereticali della Volpe e Lucio Colletti, le cui categorie uscivano finalmente dall’aperta ostilità di Botteghe Oscure per entrare in un regime di semi-accettazione.

L’evento più dirompente prodotto da Rossanda alla guida della cultura comunista fu un seminario di studi filosofico-giuridici sul tema della famiglia tenuto nel 1964 a Frattocchie, nel corso del quale si ripropose la frattura tra la sinistra di Ingrao e il centro del partito.

Così Rossanda richiama alla mente quei dibattiti: “Tuoni e fulmini, e la damnatio memoriae, caddero sul convegno. Il gruppo dirigente spedì Emilio Sereni, Nilde Iotti e non ricordo se anche Marisa Rodano contro noi distruttori, anzi distruttrici – eravamo soprattutto Luciana Castellina e io – della famiglia come cellula di base della società. Non era un apparato ideologico dello Stato, era la griglia dalla quale tutti gli apparati passavano”.

A insorgere contro la direzione culturale di Rossanda, oltre che settori del mondo artistico, fu soprattutto un altro “conte rosso”, Ranuccio Bianchi Bandinelli, allora presidente dell’Istituto Gramsci, che denunciava l’eclettismo, la rottura di consuetudini antiche.

La convergenza delle molteplici correnti ostili decretò nel dicembre del 1965 la defenestrazione di Rossanda da compiti direttivi. Era il preludio di una dura contesa sui fondamenti identitari del Pci post-togliattiano che portò prima alla sconfitta della sinistra interna nell’XI congresso, poi alla radiazione del gruppo del “Manifesto”. Anche restandone fuori, però, Rossanda non è mai uscita dal Pci.

Ripensando alla sua esperienza nel partito, concede l’onore delle armi agli avversari di un tempo (“In ogni caso Alicata e Amendola erano i due con i quali si poteva parlare, stavano a sentire, volevano conoscere, li presentavo a questo o a quello, puntavano a capire e con loro non c’era soggezione – cenando assieme a casa mia si scambiavano reciproche ironie”) e coltiva una profonda nostalgia di Togliatti: “Quanto lo avrei criticato negli anni settanta lo rivaluto oggi, una volta accettato che il suo obiettivo non fu di rovesciare lo stato di cose esistenti ma garantire la legittimità del conflitto. Non so se fosse arrivato a pensare che era la condizione in assoluto migliore in occidente, o se al presente non si potesse fare altro. Propendo per la prima ipotesi, il nostro avanzare e mutare il paesaggio politico senza lacerazione e tragedie a lui, a cavallo fra l’Urss degli anni trenta e l’Italia del dopoguerra, non doveva parere una disgrazia. Meglio trovarsi nel 1945 segretario del Pci che segretario del Partito operaio unificato polacco”.

Rispetto al partito che si faceva vanto del senso della responsabilità nazionale, della preoccupazione per la crescita e le alleanze sociali, Rossanda propugnava un ancoraggio alla secca polarità capitale-lavoro, una diversa qualità dello sviluppo e un uso sistematico delle riforme di struttura concepite come politica-progetto per governare la transizione al socialismo.

Ciò non toglie che la eutanasia del Pci Rossanda l’abbia vissuta come una vera tragedia. Con punte di disprezzo guardava a chi aveva demolito un soggetto con forti radici ideali e sociali per inseguire i miti dell’elezione diretta dei sindaci, dei governatori e dei segretari perché divorato dalla fata cattiva della personalizzazione.

“Parrà strano di questi tempi, ma contro ogni personalizzazione il Pci era molto rigido: di regola tutte le immagini degli individui si evitavano. Il primo manifesto con il volto di Togliatti uscí nel 1963 quando la sera avrebbe parlato in televisione. Nelle campagne elettorali nessuno faceva per sé, chi lo avesse tentato sarebbe stato rampognato e fin buttato fuori. Questo mettere in avanti soltanto il partito, il simbolo, appare oggi un fare burocratico e astratto, ma fu il solo in grado di risparmiare intrighi, vanità e delusioni”.

Il ricordo della bella politica del secolo scorso scatena un senso del vuoto dinanzi ai guasti indelebili che i ragazzi di Berlinguer hanno prodotto in nome di un leaderismo sfrenato e della mistica dell’immagine come surrogato di una teoria critica.

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