Il 25 aprile dello scorso anno Giorgia Meloni ha scritto una lettera al “Corriere della Sera” pubblicata con grande evidenza dal quotidiano milanese. Riguardava un tema di attualità, come s’è visto in questi ultimi giorni, in occasione dell’ottantesimo Anniversario della strage delle Ardeatine: l’impossibilità di dirsi antifascista. Non si tratta di una semplice questione nominalista, per quanto esista un’evidente ritrosia per la leader di un partito che discende dal Movimento Sociale Italiano, erede del fascismo della Repubblica di Salò, a dirsi tale. Non è solo una omissione, ma riguarda una questione sostanziale come spiegano nel loro libro Democrazia afascista Gabriele Pedullà e Nadia Urbinati (Feltrinelli). Quella lettera costituisce per i due autori una sorta di manifesto ideologico della Presidente del Consiglio.
Cosa c’è scritto? Per prima cosa contiene l’affermazione che la destra italiana rappresentata da Fratelli d’Italia ha superato la “nostalgia” per il proprio passato fascista; lo fa senza riferirsi all’antifascismo, che è la premessa della Costituzione italiana nata dalla sconfitta militare della Seconda guerra mondiale e dalla Resistenza seguita al crollo del regime mussoliniano nel 1943. In un paradosso argomentativo, che pone il problema in termini esattamente rovesciati, Giorgia Meloni asserisce che l’antifascismo è stata una “arma di esclusione” ora obsoleta, ragione per cui l’antifascismo oggi è equivalente al fascismo: un retaggio passato. Poiché la destra non si richiama più al fascismo, di fatto anche l’antifascismo sarebbe un residuo inutile. Come scrivono i due autori nel loro libro, l’omissione della radice antifascista è decisiva per la visione della nuova destra di Fratelli d’Italia che con questo rimuove i valori di libertà su cui si fonda la Repubblica nata dopo il 25 aprile del 1945. Nella lettera al “Corriere” Giorgia Meloni asserisce che essere democratici esenta dal dirsi antifascisti. Un falso sillogismo.
Da un lato il suo partito non ha tagliato i legami anche simbolici con il fascismo, un legame anche psicologico che la stessa Meloni conserva col proprio passato, e dall’altro cerca di rendere anacronistico l’antifascismo. Se non c’è più il fascismo, che senso avrebbe dichiararsi suoi avversari, ripete nella lettera? Perciò con atto degno di un abile prestigiatore sparisce il fascismo insieme al suo avversario. Come è accaduto nella cerimonia in ricordo del massacro nazifascista delle Ardeatine, Giorgia Meloni non reputa più necessario nominare la parola “fascismo”, una autoassoluzione linguistica oltre che psicologica. Su cosa si fonda questa esclusione? Nella lettera, analizzata nel capitolo del libro intitolato Il 25 aprile di Giorgia Meloni, la Presidente del Consiglio apparenta in modo indebito l’antifascismo all’ideologia comunista, facendo piazza pulita della complessità storica dell’antifascismo italiano, e sostiene la necessità formale e sostanziale di liberare la democrazia attuale dai retaggi del passato riformando la Costituzione del 1948.
Come si sa, quella carta è nata dal confronto tra la tradizione socialista, quella azionista, quella cattolica e quella comunista, e ha posto a fondamento del patto costituzionale quei valori di libertà abrogati dal fascismo stesso. Si tratta di un argomento decisamente revisionista che ignora ottanta anni di storia italiana e cerca di seppellire quello che gli autori chiamano l’alter del fascismo. Con un gioco linguistico e retorico, se non c’è più il fascismo, che senso ha continuare a definire la democrazia attuale antifascista? Si tratta in definitiva d’un programma ideologico che agisce sull’aspetto linguistico nei termini resi evidenti dal filosofo J. L. Austin con la formula diventata celebre: dire è fare. Il libro del filosofo s’intitola in modo efficace: Come fare cose con le parole (Marietti 1820). Si tratta di una vera e propria performance lessicale che serve a occultare il substrato ideologico del partito di Giorgia Meloni trasformandolo nel partito della democrazia afascista.
Nel testo della lettera al “Corriere della sera” il termine non c’è. Uno dei meriti del libro di Pedullà e Urbinati è di richiamare con questa formula il tema ideologico che anima l’azione del partito di Giorgia Meloni: né fascista né antifascista, solo afascista. L’alfa privativa diventa la chiave a livello di comunicazione per collocare l’ideologia di Fratelli d’Italia in una sorta di neutralità, che sembra elidere gli opposti, mentre di fatto nasconde quello che è il tema cui s’ispira l’azione di cambiamento del partito di Giorgia Meloni: la conquista del potere è il centro della sua azione, non certo il dialogo, la dialettica e il confronto con le altre forze politiche rappresentate in Parlamento. Una forma di assolutismo che esclude gli altri, una vocazione autoritaria e autocratica proposta in nome della governabilità.
La lotta linguistica ingaggiata da tempo con la nuova nominazione dei Ministeri, la sostituzione del termine “Paese” con la parola “Nazione”, la rivendicazione del termine “Patriota” quale proprietà esclusiva della destra, l’uso della parola “Italia” e dell’aggettivo “italiano” come propria prerogativa. A questo si aggiungono le omissioni d’ogni termine che rechi un riferimento esplicito all’egualitarismo e all’esistenza delle classi sociali. Tutto questo fa parte di una attenta e acuta strategia di propaganda politica, che espelle ogni aspetto che si riferisca alla storia passata dell’Italia, cercando di rendere in apparenza neutrale l’ideologia politica della destra di Fratelli d’Italia. Una formidabile ripulitura. La definizione di questa destra viene edulcorata nella propaganda, fino a emarginare riferimenti al passato fascista. Il centro della politica della Meloni è espresso attraverso la volontà di presentarsi come il governo della stabilità politica, compreso il travestimento del partito dell’antipartitismo: noi non siamo come gli altri.
I temi del lavoro, dei diritti della persona, della dignità, della democrazia economica, della partecipazione alla politica, iscritti nei primi articoli della Costituzione del 1948, non sono mai presenti come elementi fondativi dell’ideologia del partito-Meloni. Il fascismo resta tuttavia nel sottofondo dell’ideologia meloniana, per quanto mai esibito in modo prevalente, e sempre negato nonostante gesti e segni di membri di rilievo dei Fratelli d’Italia. Come ricordano Pedullà e Urbinati, la democrazia nata dalla Resistenza si basa su due principi, due promesse, che la Costituzione pone come perno fondamentale e come obiettivo sempre da raggiungere e verificare: il primo riguarda l’uguaglianza di fronte e sotto la legge (la legge è dichiarata uguale per tutti e alla sua costruzione tutti contribuiscono direttamente e indirettamente); il secondo si riferisce ad una eguale distribuzione fra tutti i cittadini del potere politico fondamentale (diritto al voto, di parola e di associazione). Per ottenere questo risultato le democrazie moderne, di cui il libro ricostruisce in modo rapido ma efficace le vicende degli ultimi secoli, ha due strumenti: la rappresentanza, con libere e cicliche elezioni, e una costituzione scritta, che ricordi questi stessi valori.
La parte sostanziale del libro riguarda la decostruzione delle parole d’ordine con cui la leadership di Giorgia Meloni s’appresta a proporre una forma di governo autocratico che mette fuori gioco, mediante una legge maggioritaria, le opposizioni in modo da poter governare con un’ideologia apparentemente non ideologica, in realtà figlia d’un progetto apertamente autoritario, in cui il ruolo dominante spetterà a chi otterrà la maggioranza relativa: un surplus di maggioranza per evitare il contrappeso di una opposizione degna di questo nome. Un progetto che Pedullà e Urbinati ricostruiscono nel loro volume attraverso la storia del termine “democrazia afascista”, espressione usata per la prima volta da Benito Mussolini, poi ripresa nel secondo dopoguerra da uno scrittore di indubbio valore letterario, Giuseppe Berto, che era stato volontario nelle guerre fasciste in Africa, fascista convinto durante il conflitto mondiale.
Com’è scritto nella quarta di copertina del libro, “nell’anno III del governo Meloni prende forma, con sempre più chiarezza, il disegno di superare la democrazia costituzionale nata dalla Resistenza per approdare a una democrazia afascista. Conoscerne i caratteri, le radici storiche e i rischi è il primo passo per provare a ostacolarne l’avanzata”. Per questo il libro di Pedullà e Urbinati è un’opera chiara, scandita in 155 pagine, che come scrivono i due autori si occupa di una questione “che finirà inevitabilmente per toccare le vite di tutti noi”: i diritti civili, la giustizia, la distribuzione della ricchezza, i valori di libertà sanciti dalla nostra Costituzione, nata appunto dalla sconfitta di un regime autocratico e liberticida, da cui discende il partito Fratelli d’Italia.
Oggi Giorgia Meloni si presenta sotto forme in apparenza neutrali, non ideologiche, ma è solo un travestimento linguistico, una negazione funzionale alla conquista del potere. Per fortuna a rendere evidente l’aspetto del mascheramento ci sono i gesti e le parole stesse di Giorgia, che ai toni suadenti alterna espressioni ben poco rassicuranti di tipo bellicistico e aggressivo, come il recente riferimento all’uso dell’elmetto portato, come ha dichiarato la Presidente del Consiglio “anche a letto”: segno d’una visione altamente conflittuale del confronto politico con gli altri partiti, anche questa un’eredità non solo inconscia del suo passato neofascista.
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