La commissione Affari costituzionali del Senato ha detto il primo sì davvero pesante alla riforma costituzionale del premierato, «la madre di tutte le riforme» come ormai è stata ribattezzata dalla premier Giorgia Meloni.
A ricevere il via libera, infatti, è stato l’emendamento del governo che apporta nuove sostanziali modifiche al testo base della ministra delle Riforme, Elisabetta Casellati. Tre in particolare: l’elezione diretta del presidente del consiglio; il limite dei due mandati consecutivi, che diventano tre solo nel caso in cui il premier abbia ricoperto l’incarico per meno di 7 anni e 6 mesi; la cancellazione del premio di maggioranza al 55 per cento. Via libera anche alla modifica sulla nomina e revoca dei ministri: sarà il presidente della Repubblica a conferire l’incarico al presidente del consiglio di formare il governo e nominerà e revocherà i ministri, su proposta di quest’ultimo.
Modifiche che, per Casellati, rappresentano plasticamente la volontà della maggioranza di ascoltare le voci critiche per migliorare il testo: «L’emendamento è stato rinnovato dopo l'ascolto delle opposizioni e dei costituzionalisti» e ha spiegato di «aver sempre tenuto aperto il dialogo», ma «ad oggi non abbiamo avuto risposte, io mi auguro che queste verranno prossimamente, al più presto». Anche perché il sì ha decapitato circa 700 degli oltre 2.000 emendamenti presentati dalle opposizioni e un’altra sforbiciata potrebbe arrivare in corso di lavori. Secondo quanto emerge dalla commissione, nella migliore delle ipotesi il testo dovrebbe venire licenziato intorno alla fine di aprile, così da approdare in aula a maggio. In tempo per un sì in prima lettura prima delle elezioni europee, come da desiderata di Meloni.
Sul fronte dell’opposizione, tuttavia, non ci sono aperture per un lavoro condiviso: «L’elezione diretta del premier fa male alla democrazia», è la valutazione tranciante di Peppe de Cristofaro, di Avs, mentre il M5S ha parlato di «riforma pasticciata e strabica che porta a una deriva plebiscitaria» e anche il Pd, con Brando Benifei, ha chiuso la strada al dialogo. Del resto, l’obiettivo dei contrari – e ce n’è una schiera anche a destra, che già lavora ai comitati per il no – è quello di puntare dritti al referendum.
Se secondo Casellati e FdI il via libera all’emendamento è un punto di svolta che dovrebbe accelerare l’iter, in realtà molti problemi rimangono sia dentro che fuori dalla maggioranza.
LE PERPLESSITÀ
Gli unici a intervenire per plaudire all’approvazione sono stati i parlamentari meloniani e la gioia per il via libera si è fermata a via della Scrofa. Nei giorni scorsi, infatti, è tornato a parlare in modo critico Marcello Pera, il senatore considerato padre nobile delle riforme eletto con FdI, che dal primo momento ha espresso pubblicamente le perplessità sul testo, in particolare sulla figura del secondo premier in caso di dimissioni del primo.
Proprio il silenzio degli altri gruppi, se non per qualche stringata battuta, mostra il clima in maggioranza. Il presidente azzurro della commissione Affari costituzionali alla Camera, Nazario Pagano, incalzato su La7 ha confermato che «ci sono proposte di modifica anche in seno alla maggioranza, non solo all'interno dell'opposizione. Inizia dunque adesso in Senato la trattativa per modificare al meglio quella proposta che poi arriverà alla Camera». Come a dire che cantare vittoria ora è decisamente prematuro.
A confermarlo, anche le parole del senatore leghista Paolo Tosato, che in commissione è la vedetta di via Bellerio sulle mosse degli alleati meloniani. «Non ho intenzioni dilatorie», è stata la premessa: una scusa non richiesta che però fa percepire i dubbi che ancora rimangono. Ma «Spero che la stesura di questo comma garantisca al premier di avere la maggioranza», è stato l’auspicio, altrimenti «credo che ci sia margine per migliorare il testo». Ipotesi che FdI tenterà di scansare in tutti i modi, ma con la consapevolezza che la Lega ha già chiaro quale sia il vero nodo irrisolto: la necessità di una nuova legge elettorale «altrimenti rafforziamo il premier ma non la governabilità». E in questo campo l’asso nella manica di Matteo Salvini per incidere su qualsiasi ipotesi in campo si chiama Roberto Calderoli, lo specialista per antonomasia di leggi elettorali.
LA LEGGE ELETTORALE
Anche se la maggioranza trovasse una mediazione a breve, il vero scoglio rimarrebbe quantomai presente. La riforma costituzionale, infatti, assegna il metodo per l’elezione diretta del premier e delle camere a una legge elettorale da scrivere ex novo, con un unico paletto: che sia una legge con impianto maggioritario. Se l’esperienza insegna qualcosa, però, è che la legge elettorale è quasi più difficile da scrivere di una riforma costituzionale.
«Sono al lavoro anche su questo e mi confronterò con le opposizioni», ha detto Casellati. Con un’unica certezza: «Se ne parlerà dopo l'approvazione sia in Senato che alla Camera della riforma in prima lettura», ha tagliato corto il presidente della commissione Affari Costituzionali del Senato, Alberto Balboni. Tradotto: problema – con annesso dibattito pubblico – da rimandare a data da destinarsi. Prima è necessario portare a casa il premierato. Eppure, incalzati a margine della commissione, qualche idea già c’è ed è stata anticipata da Balboni: «Una soglia minima, del 42 o 43 per cento, che sceglierà il Parlamento, sotto la quale resta solo il ballottaggio», sono le due possibili soluzioni per garantire governabilità.
Del resto, proprio questo è stato uno dei problemi sollevati da Pera, già candidato di FdI al Quirinale e che è ormai l’avanguardia a destra degli scettici, che preferirebbero ripensare in toto il testo perchè quello attualmente in discussione sarebbe ormai troppo confuso e involuto. Del resto, anche giuristi attualmente dialoganti con il governo come Sabino Cassese, Luciano Violante e Giuliano Amato si sono espressi in modo critico sull’impianto complessivo della riforma.
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