Un velo di ipocrisia e inettitudine ricopre il nostro Paese.
Un velo che, come i fumi di una nube tossica, è sceso lentamente ma si è posato inesorabilmente, dopo che per decenni abbiamo mortificato e spento tutto ciò che è sapere, formazione, preparazione di nuove generazioni al fine di affrontare tempi incredibilmente mutati e complessi.
Proprio in questi tempi così complessi, dove la troppa luce produce una cecità che ci rende incapaci di scorgere l’essenziale, possono essere gli episodi a rivelarsi capaci di oscurare il superfluo e quindi illuminare ciò che davvero conta.
In questo caso mi riferisco a due episodi recentissimi.
La cattiva Università
Nel primo troviamo nientemeno che il Rettore dell’Università di Catania. Questi, in merito alle obiezioni che uno studente del suo ateneo ha rivolto al ministro Boschi sulla riforma costituzionale (il video è diventato virale in Rete), avrebbe obiettato che in realtà «non era previsto contraddittorio» e che «chi non gradisce il format può anche non partecipare».
Non è difficile dedurne tre sconfortanti dati di fondo:
1) La genuflessione, anche da parte delle alte sfere del mondo accademico e intellettuale, di fronte al potere politico, al punto tale di doversi scusare perché un proprio studente ha avanzato delle critiche a un ministro (atteggiamento scientifico per antonomasia, sia detto per inciso, quello della «critica»);
2) Negazione del più elementare principio democratico. Ossia quel «contraddittorio» che, basti pensare a Popper, non solo si rivela necessario alla crescita del sapere e della scienza, ma che andrebbe persino ricercato da parte di ognuno di noi allo scopo di mettere in discussione e, quindi, corroborare la fondatezza delle nostre convinzioni o teorie.
3) Sottomissione della galassia del sapere (rappresentata dall’Università) a quella dello spettacolo (il «format»), forse la vera e propria epitome in grado di sintetizzare la nostra epoca.
Ma come, signor Rettore dell’Università di Catania, come le viene in mente di sostenere che «chi non gradisce il format può anche non partecipare»?! Lei si rende conto che, in questo modo, il più alto rappresentante dell’istituzione culturale e formativa per antonomasia, ha praticamente dichiarato che i propri studenti sono ridotti alla stregua degli spettatori paganti di un format televisivo, e che quindi gli è richiesto di applaudire a comando, di venerare l’ospite di turno, di non disturbare il conduttore e la trasmissione, e quindi di non «partecipare» se non si rivelano disposti a questo gesto supremo di sottomissione?!
La formazione di individui libero pensanti, autonomi e quindi critici è il nerbo di quella formazione scolastica rispetto alla quale l’Università rappresenta il momento apicale.
Che gli studenti siano interessati al contesto democratico della società in cui vivono, e quindi alle problematiche che la riguardano (la riforma costituzionale, in tal senso, non costituisce propriamente un momento trascurabile), che desiderino conoscere e quindi anche criticare quelle misure che gli amministratori di turno mettono in atto, si rivela come un momento essenziale per la formazione di cittadini (e non solo produttori e consumatori) che abitano la democrazia, non limitandosi a esserne ospiti paganti.
In un paese serio, signor Rettore, lei sarebbe chiamato a rispondere di queste sue gravissime parole. Nel nostro, invece, in cui si assurge ai più alti posti di comando anche grazie alla genuflessione verso i poteri che contano, le viene consentito pacificamente di collaborare alla legittimazione di un sistema in cui si impone a chi studia di imparare la misera arte di tacere e sottomettersi ai dogmi dello spettacolo e del profitto.
La finta Scuola
Il secondo episodio di cronaca riguarda una scuola media toscana, dove il dirigente scolastico e i professori hanno deciso di vietare la consueta partita di calcio di fine anno.
Sì, perché questa partita, stando alle motivazioni addotte, aveva cominciato ad assumere un rilievo e un’importanza troppo elevate fra gli studenti, finendo però col mettere al centro dell’attenzione soltanto quei pochi abili nel calcio e riducendo le ragazze al ruolo di passive cheerleader.
Insomma, un’operazione ritenuta contraria ai principi etici dell’educazione, che per questa ragione si è deciso di sopprimere.
Qui ci troviamo di fronte a un diverso esempio di cattiva scuola. Ossia quella che persegue l’utopia nefasta dell’omologazione (che è ben diversa dall’uguaglianza) a tutti i costi. Per di più intrisa di un moralismo del tutto fuori luogo.
Come ci ha insegnato un signore di nome John Dewey, infatti, superbo pensatore e pedagogista americano, una buona educazione non può e non deve essere distinta dall’esperienza reale, ossia dal confronto con quelle dinamiche che regolano tanto il consesso sociale quanto quello dei rapporti fra gli uomini.
In tal senso, una buona educazione è anche quella che non perde di vista il principio di realtà: quello per cui è bene insegnare ai nostri figli che essi, quando usciranno dalla scuola, si troveranno gettati un contesto che sarà anche competitivo, in cui dovranno lottare per affermare le proprie competenze e abilità.
E in cui dovranno anche imparare ad accettare le sconfitte, come anche di non poter partecipare in quei contesti in cui le loro abilità non saranno consone al livello delle altre persone. Si tratta di un tabù difficile da superare, me ne rendo conto, fondato su una concezione della scuola come «chioccia», come estensione impropria della famiglia, come luogo di protezione assoluta degli individui che, in questo senso, opera nei loro confronti un danno seppure vestito di buone intenzioni.
Senza contare l’applicazione di una logica tanto fastidiosa e irritante quanto sterile: quella della proibizione. Quella che, sempre per stare alla logica pedagogica, finisce con l’insegnare agli studenti che tutto ciò che si rivela problematico, arduo da gestire, magari insidioso, invece che affrontarlo posso e devo eliminarlo.
Un po’ come si potrebbe fare con la democrazia, se proprio vogliamo trovare dei punti di contatto col primo episodio.
Si tratta di una «logica negativa» propria del pensiero conservatore più bieco e diseducativo. La scuola, la buona scuola, dovrebbe insegnare ad affrontare le questione spinose della vita armati di una «logica positiva». Quella per cui, ad esempio, si sarebbe potuto far svolgere la partita tanto amata da quei ragazzi (e non credo solo quelli che giocano), magari accompagnandola con altre celebrazioni per la fine dell’anno scolastico in cui avrebbero trovato spazio i meno atleti e le stesse ragazze.
Perfino lasciando alla loro creatività e intraprendenza il compito di individuare iniziative consone a questo scopo, tanto per mettere in atto il principio per cui conviene formare teste autonome e intraprendenti, invece che passivi ripetitori di costumi tradizionali e ordini superiori.
Se il «pedagogo» è colui che accompagna i giovani nel percorso della conoscenza e dell’apprendimento di quegli strumenti atti ad affrontare la vita, non possiamo poi sorprenderci, di fronte a questi esempi di cattiva scuola, che i ragazzi decidano di fare a meno di accompagnatori.
Consegnandosi integralmente a quel surrogato che è la Rete. Che se affrontata senza guide e strumenti, visto che è impregnata di «logica spettacolare», non farà altro che completare il disastro. Per la profonda gioia del Potere.
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