I tre giorni che cambiarono il movimento di contestazione e dettero vita al cosiddetto Settantasette ebbero come epicentro Bologna. Era un venerdì di pioggia l’undici marzo 1977 e nell’aula dell’istituto di Anatomia dell’università felsinea alle 10 era cominciata un’affollata assemblea di Comunione e liberazione per discutere i problemi studenteschi del momento: sovraffollamento, prezzi troppo cari degli affitti. Dopo poco un gruppo di autonomi irruppe nell’aula e cominciò una rissa. In soccorso accorsero altri studenti dell’extrasinistra, botte urla, l’assemblea venne sciolta e lo scontro si spostò all’esterno. Attorno all’ateneo erano arrivati poliziotti e carabinieri, accolti dal lancio di cubetti di porfido e bombe Molotov. Un giovane carabiniere, uscito da una camionetta incendiata, scaricò tutti i colpi del fucile Winchester di ordinanza contro i dimostranti. A terra rimase privo di vita uno studente di Lotta continua, Pier Francesco Lorusso, 25 anni, all’ultimo anno di medicina, in regola con gli esami, una media di voti alta. Uno studente modello. In tasca aveva cubetti di porfido. Al momento non si seppe se Lorusso era stato colpito dai colpi del carabiniere che in preda al panico aveva sparato o dai proiettili esplosi da agenti in borghese che erano in zona (sotto e sopra scontri tra polizia e manifestanti vicino a via Zamboni).
La tensione arrivò ai massimi livelli. Gli slogan dei manifestanti era di questo tipo: “Poliziotto fa fagotto, arriva la compagna P 38”, “Diamo una spallata al sistema”, oppure “come mai come mai loro sparano e noi mai / prima o poi spareremo pure noi”. Nei giorni successivi dalle parole si passò ai fatti.
Le pesanti contestazioni al segretario della Cigl Luciano Lama, che il 17 febbraio aveva tenuto un comizio alla Sapienza di Roma non furono che un antipasto del venerdì di sangue bolognese (sotto scontri in piazza Verdi, Bologna, marzo 1977, foto Giorgio Benvenuti).
Una giornata che diede l’avvio, ancora a Bologna ma anche a Torino, Roma e in parte Milano, a un weekend di caos in cui la lotta armata si sposò con il movimento di contestazione. Sabato 12 marzo a Bologna fu presa d’assalto un’armeria dove vennero rubati 100 fucili e 50 pistole. I fucili furono successivamente ritrovati ma le pistole, con i proiettili raccattati a manciate nei cassetti del negozio, diventarono merce preziosa fra i più scalmanati del movimento.
Anche a Roma, in quel sabato di marzo sembrava che la preoccupazione principale degli autonomi fosse di mettere le mani su pistole e fucili e infatti vennero svaligiate due armerie. Verso sera tra gli agenti di polizia si contarono una decina di feriti da arma da fuoco. Davanti a Regina Coeli fu fermata una Cinquecento Fiat da cui partirono dei colpi di P38 che ferirono all’addome un sottufficiale. Nella macchina c’erano due ragazzi e una ragazza che si dichiarò prigioniera politica e disse di chiamarsi Mara, nome di battaglia di Margherita Cagol, caduta nel 1975 in un conflitto con le forze dell’ordine. In realtà la ragazza fermata era Franca Salerno e faceva parte dei Nap, Nuclei armati proletari, una delle tante sigle della galassia terroristica.
A Torino, invece, la banda della P38 colpì in un agguato che ricordava quello al commissario Luigi Calabresi: quattro terroristi aspettavano sotto casa il sottufficiale dell’ufficio politico di polizia Giuseppe Ciotta che fu ucciso a bordo della sua auto (sotto scontri in piazza Verdi, Bologna, marzo 1977, foto Giorgio Benvenuti).
Era una cruenta coda della scia di sangue cominciata a Bologna, dove domenica 13 arrivarono le autoblindo, per volontà del ministro dell’Interno Francesco Cossiga, che aveva definito i manifestanti “tupamaros”, e del sindaco comunista Renato Zangheri, che in un colloquio con Enzo Biagi, pubblicato sul “Corriere della sera” (13 marzo) aveva chiamato i violenti manifestanti “nemici della democrazia”.
L’arrivo dei blindati con tanto di torrette girevoli per potersi difendere da ogni lato fu preceduto da un dibattito che a volte sfociò in scontro tra i militanti comunisti e gli autonomi, che definivano il servizio d’ordine ma anche i leader del Pci “nuovo fascismo”. Era in atto uno scontro tra la vecchia e la nuova sinistra che aveva fatto un salto di qualità. Nel 1968-‘69 le posizioni erano distanti ma c’era rispetto, si ragionava ancora nei vecchi termini da Terza Internazionale di revisionisti e rivoluzionari, ma adesso si era arrivati allo scontro fisico. Una divisione drammatica che fotografava da un lato l’incapacità del Pci e del suo sindacato, la Cgil (il cui leader era stato contestato a Roma), di rappresentare il ceto dei “non garantiti”. Dall’altro, dopo lo scioglimento di Lotta Continua, avvenuto nell’autunno precedente, c’era una fetta di giovani sbandati. Lo scontro (e la deriva) sarebbe andato avanti per anni. Ma una svolta venne imposta già l’anno seguente, nel 1978 dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro, che costrinse tanti a rivedere le posizioni barricadere.
Al di là del velleitarismo politico c’era una dato sociale che proprio quell’anno venne fotografato in un saggio dello storico della letteratura Alberto Asor Rosa, “Le due società” (Einaudi): la società dei garantiti, degli stipendi fissi, degli integrati, e quella degli emarginati che non trovavano rappresentanza nella vecchia sinistra. La disoccupazione intellettuale, dei laureati senza lavoro o degli studenti che frequentavano l’università “come parcheggio sociale”, era uno degli aspetti di questa emarginazione, ma anche la manifestazione della crisi del sistema scolastico che in Italia non si era mai modernizzato. Lo aveva notato Alberto Ronchey in un editoriale al vetriolo su “Corriere” all’indomani della contestazione a Lama: “Ecco, s’avanza uno strano studente”. Uno studente che non accettava la selezione ma si lamentava della scarsa qualificazione, che non voleva professionalizzarsi, lamentando però la mancanza di lavoro. Sull’altro versante, intellettuali rivoluzionari in servizio permanente effettivo, come Dario Fo, Maria Antonietta Macciocchi e Felix Guattari accorsero a Bologna per dichiararla “capitale della reazione”.
Intanto si chiudevano gli occhi sull’aumento della violenza politica. Come ha scritto Luca Falciola, autore per Carocci del saggio “Il movimento del 1977 in Italia”, gli episodi di violenza politica attribuibili alla sinistra aumentarono nel 1977 rispetto all’anno precedente del 340 per cento. Qui voglio solo ricordare la gambizzazione di Indro Montanelli, il due giugno a Milano, di cui fui testimone oculare e di cui parlerò a suo tempo, e l’uccisione a Torino il 29 novembre del vicedirettore della “Stampa” Carlo Casalegno. Un delitto che chiuse un anno tra i più cupi, che non potè essere rischiarato dal neonato movimento femminista e dagli sprazzi di amara ironia e creatività dei singoli in un movimento allo sbando.
5 marzo 2017
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