Nel 2005 uscì il libro, poi arrivò il film interpretato da attori belli e famosi, e adesso la nuova edizione del volume «ampliata di contributi». Con l’obiettivo di «raccontare ai giovani perché anni fa altri giovani decisero di imbracciare le armi, uccidere e rimanere uccisi o finire per deceni in prigione, nelle carceri di massima sicurezza dove si praticava la tortura e la violenza». È bastato l’annuncio della ristampa e di una presentazione sabato prossimo a Milano, con la partecipazione di un ex terrorista e un ex tangentista, per riaccendere la polemica su Miccia corta, una storia di Prima linea, scritto da Sergio Segio che di quella banda armata fu il «comandante Sirio», responsabile di ferimenti e omicidi.
Compreso quello del giudice Guido Galli, ammazzato il 19 marzo 1980 all’università di Milano. Precisamente 37 anni fa. Alessandra Galli, la seconda figlia del magistrato, all’epoca aveva vent’anni e studiava Legge; oggi è giudice come suo padre, e continua a essere inquieta: «Trovo inconcepibile che in una società che ha avuto un passato così traumatico, ci si preoccupi di rievocarlo illustrando ai ragazzi i principi e le motivazioni che l’hanno provocato; tanto più in un contesto generale di grande scontento e disagio come quello attuale».
Così dice Alessandra Galli riunita con la madre e i fratelli sulla tomba del papà, tra le montagne della Val Brembana. Quello che contesta, spiega, non è il diritto di parola degli ex terroristi, ma un approccio che «rischia di essere giustificazionista e mistificatorio, trasformandosi in un messaggio ambiguo verso le nuove generazioni». È un’accusa che — a fronte di tanti altri scritti di ex terroristi — ha riguardato più spesso proprio Segio; il quale non ha mai negato il rispetto dovuto alle vittime, rivendicando però il diritto a spiegare le ragioni delle scelte sbagliate di quarant’anni fa, perché «non siamo nati con la pistola in mano». Un atteggiamento esplicitato dalle parole stampate in un altro suo libro dedicato «a tutti i figli dei nostri compagni, perché crescendo e cominciando a sapere e a capire, non gli venga mai meno la certezza che i loro genitori sono state persone buone e leali, che hanno lottato, con errori gravi, ma anche con generosità e coraggio, per un mondo migliore e più giusto».
Parole suonate offensive per i familiari di persone note e meno note ammazzate senza aver ingaggiato alcuna guerra, a differenza dei terroristi uccisi. Lo scrissero proprio la moglie e le figlie di Galli in un lettera aperta agli assassini del magistrato «che non avrebbe mai voluto essere un eroe, ma solo continuare a lavorare nell’anonimato, umilmente e onestamente come ha sempre fatto». Anche per via di questo atteggiamento oggi la giudice Galli si preoccupa per una pubblicazione, dichiaratamente rivolta ai giovani, «ad opera di personaggi che ripropongono messaggi del loro vissuto senza una critica seria delle scelte fatte in passato».
È un dibattito che ciclicamente riapre ferite mai rimarginate, e difficilmente troverà una composizione. Perché sullo sfondo c’è sempre il timore del «cattivo esempio» che può reclutare nuovi seguaci. È già successo ventidue anni dopo l’omicidio di Guido Galli, quando i suoi assassini erano tornati liberi dopo aver scontato le pene, e nuovi terroristi che volevano rifondare non Prima linea ma le Brigate rosse uccisero a Bologna il professor Marco Biagi, che progettava la riforma del mercato del lavoro. Era il 2002, un altro 19 marzo. Quindici anni fa.
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