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Che certi termini abbiano assunto questo significato deteriore non è avvenuto a caso. Si tratta di una reazione del senso comune contro certe degenerazioni culturali, ecc., ma il ‘senso comune’ è stato a sua volta il filisteizzatore, il mummificatore di una reazione giustificata in uno stato d’animo permanente, in una pigrizia intellettuale altrettanto degenerativa e repulsiva del fenomeno che voleva combattere>>: così Gramsci nei “Quaderni” (Quaderno 8, § 28, p. 959 dell’edizione critica Einaudi).
Proviamo ad applicare questa citazione all’uso che oggi viene fatto di termini come populismo e sovranismo da parte dei partiti tradizionali, di destra come di sinistra. La parola populismo, che occupa da tempo un ruolo non marginale nella storia del moderno dibattito politico - nel corso della quale ha assunto valenze e significati diversi - è stata “emulsionata” dal linguaggio contemporaneo dei media, i quali l’hanno ridotta a puro strumento di propaganda politica, anatema da scagliare contro ogni forma di opposizione al pensiero unico liberal liberista. Quanto a sovranismo – che è un neologismo di origine relativamente recente (si riferisce originariamente ai movimenti che rivendicavano l’indipendenza del Québec dal resto del Canada) -, ha subito in tempi brevi un destino analogo: è stato adottato dalla langue de bois mediatica per analoghi fini propagandistici, per accreditare cioè l’associazione automatica fra ogni posizione politica che rivendichi la riconquista della sovranità nazionale e l’uscita dall’Unione europea e i nazionalismi di destra.
Chi non si accontenta di tali semplificazioni, e nutre salutari sospetti nei confronti degli interessi che le ispirano, dispone ora di due nuovi strumenti di approfondimento critico: sono usciti, a breve distanza l’uno dall’altro, i libri di Thomas Fazi e William Mitchell (“Sovranità o barbarie. Il ritorno della questione nazionale”, ed. Meltemi) e di Alessandro Somma (“Sovranismi. Stato, popolo e conflitto sociale”, ed. DeriveApprodi) che smontano, il primo le narrazioni sull’inesistenza di alternative al mondo globalizzato, il secondo quella che attribuisce alla Ue il ruolo di baluardo della democrazia contro il ritorno dei nazionalismi.
I. Fazi e Mitchell. Contro il mito della fine dello Stato
Il libro di Fazi e Mitchell inaugura una nuova collana dell’editore Meltemi, da me diretta e intitolata “Visioni eretiche”. Paradossalmente, le “eresie” in questione sono la riproposizione di principi, teorie, concetti, ideali e punti di vista che, almeno fino agli anni Settanta del secolo scorso, erano patrimonio comune del movimento operaio internazionale. Se oggi sembrano eresie, al punto da esporre chi le sostiene alle accuse di “rossobrunismo”, è perché le sinistre hanno subito una mutazione culturale, politica, quasi “antropologica”, di portata tale da cambiarne il codice genetico.
Non credo che la collana avrebbe potuto partire con un libro più adatto di quello di Fazi e Mitchell, un lavoro che affronta di petto un nodo cruciale, vale a dire la necessità di riacquisire la consapevolezza che lo stato-nazione è la sola cornice in cui le classi subalterne possono migliorare le proprie condizioni e allargare gli spazi di democrazia. Non essendo qui possibile riassumerne le articolate e complesse argomentazioni, mi limiterò a ripercorrere sinteticamente le domande fondamentali alle quali gli autori tentano di rispondere: perché il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro ha funzionato; per quali ragioni è entrato in crisi; perché le sinistre non hanno capito le ragioni del suo successo né, tantomeno, quelle della sua crisi; attraverso quali canali le idee liberali sono riuscite a contaminare la cultura socialista.
La lunga stagione keynesiana è stata una parentesi felice nella storia del capitalismo moderno: ha garantito elevati tassi di crescita economica, alti livelli di occupazione, salari e profitti crescenti, un’estensione dei diritti sociali ed economici mai conosciuta nelle ere precedenti, nonché una relativa stabilità finanziaria a livello internazionale (pur senza dimenticare che a usufruire di tali benefici sono stati quasi esclusivamente i Paesi del centro, mentre le periferie e le semiperiferie del sistema mondo ne furono escluse). Le sinistre si erano illuse che il compromesso fra capitale e lavoro associato a questa situazione storica fosse irreversibile, se non addirittura un passo intermedio verso la transizione a una società post capitalista, per cui la sua crisi le trovò del tutto impreparate. Quello che non avevano compreso, argomentano gli autori, è che a rendere possibile la parentesi dei “trenta gloriosi” è stata la sua funzionalità a uno specifico regime di accumulazione capitalista – il fordismo – associato a un modo di regolazione politica dell’economia fondato sull’interventismo statale.
A entrare in crisi non fu la “visione” keynesiana, scalzata, secondo un’interpretazione idealista, dal pensiero controegemonico dei monetaristi alla Milton Friedman, furono piuttosto il regime di accumulazione e il modo di regolazione dell’era fordista, stretti nella morsa della pressione crescente che i salari esercitavano su rendite e profitti, dell’aumento dei prezzi delle materie prime e dell’accresciuta concorrenza internazionale dovuta alla rinascita industriale di Germania e Giappone. A obnubilare i movimenti operai, indebolendone la capacità di opporsi alla controrivoluzione neoliberale, contribuì il diffondersi di teorie nate negli stessi ambienti di sinistra, come la tesi secondo cui una delle cause fondamentali della crisi era la spirale incontrollata della spesa pubblica; o come il mito secondo cui il successo delle multinazionali – nella misura in cui neutralizzava i poteri di regolazione dello stato-nazione - rendeva di fatto impossibile praticare il “keynesismo in un solo paese”. Accettate tali teorie, le sinistre assunsero in prima persona il ruolo di becchini delle politiche keynesiane: se gli stati non subirono passivamente la controrivoluzione neoliberista ma ne furono attivi promotori, il “merito” spetta, prima che ai governi di Ronald Reagan e Margaret Thatcher, alla svolta che James Callaghan impose al Labour Party alla metà degli anni Settanta, dopo avere liquidato la sinistra di Tony Benn, e alla retromarcia che il presidente francese Mitterrand, “ispirato” dal ministro social liberale Jacques Delors, compì all’inizio degli anni Ottanta, convertendosi al liberismo pur essendo stato eletto con un programma radicale di trasformazioni in senso socialista dell’economia.
La traiettoria appena descritta si è ripetuta in Italia, benché nel nostro Paese la connotazione “sociale” delle politiche keynesiane fosse corroborata dai principi contenuti nella nostra Carta fondamentale, come l’insistenza sui temi della tutela del lavoro, dell’uguaglianza sostanziale, della limitazione del diritto di proprietà, ecc. espressione della parziale convergenza fra le visioni comunista, socialista e cattolica. Contro questo compromesso “cattocomunista” – come sarebbe stato sprezzantemente liquidato dopo la crisi dei Settanta – è sempre esistita, argomentano Fazi e Mitchell, una strisciante opposizione liberale che ha avuto i suoi interpreti più autorevoli nei vari Einaudi, Carli e Ciampi. Costoro nutrivano non a caso grandi aspettative nel progetto europeo, nel quale intravedevano – sulla scorta delle idee di von Hayek – un’opportunità per neutralizzare la “anomalia” italiana. Citando stralci dai discorsi e dagli scritti di Togliatti, Basso, Di Vittorio e altri esponenti storici della sinistra italiana, gli autori ne mettono in luce la profonda avversione contro l’integrazione del nostro Paese in una costituenda istituzione sovranazionale. Le loro parole esprimevano una chiara consapevolezza che la sovranità nazionale era il presupposto indispensabile di qualsiasi realizzazione dei bisogni e degli interessi delle classi subalterne.
A partire dagli anni Settanta, tuttavia, anche in Italia si attivano inediti canali di penetrazione del pensiero liberale nella cultura di sinistra: vedi il ruolo di un economista come il premio Nobel Franco Modigliani nel diffondere il verbo monetarista all’interno del Pci. La mutazione sarà più lenta di quella avvenuta in altri Paesi europei, ma i suoi effetti non tarderanno a farsi sentire, già a partire dagli anni Settanta, allorché Enrico Berlinguer tesserà l’elogio dell’austerità come strumento per rilanciare crescita e occupazione. Dai primi anni Ottanta all’ingresso nell’area dell’euro, la frana diverrà inarrestabile. I Carli, gli Andreatta, i Ciampi e il grande privatizzatore Prodi avranno mano libera per scandire le tappe di una marcia accelerata verso la de-sovranizzazione, de-politicizzazione e de-democratizzazione dello stato italiano: adesione allo SME, divorzio fra Tesoro e Banca centrale, approvazione del Trattato di Maastricht, fino al colpo di grazia della rinuncia al potere di emissione della moneta e all’integrazione nell’area dell’euro, che imporrà la costituzionalizzazione del neoliberismo e il divieto di adottare politiche keynesiane. Per Fazi e Mitchell è sbagliato interpretare tale processo come un “indebolimento dello stato”, occorre al contrario prendere atto che proprio gli stati – a partire dal nostro – hanno scelto autonomamente di subordinare le proprie scelte a vincoli esterni, il che non significa che si sono suicidati, bensì che hanno attuato con successo un progetto radicale di indebolimento delle classi lavoratrici e di svuotamento della democrazia.
“Sovranità o barbarie” è un titolo che evoca non a caso il celebre slogan “Socialismo o barbarie”. L’associazione non è casuale: negli anni Settanta, secondo gli autori, l’unico modo per uscire dalla crisi del modello keynesiano sarebbe stato compiere un salto a un modo di produzione post capitalista, obiettivo cui alludevano esplicitamente i programmi della sinistra laburista di Tony Benn e del Mitterrand prima maniera: piena occupazione, espansione del welfare, ridistribuzione della ricchezza, nazionalizzazione delle aree economiche strategiche, controllo democratico sulle decisioni di investimento e produzione, pianificazione industriale, asservimento della finanza ai bisogni della collettività. Ma simili obiettivi si sarebbero potuti realizzare solo mantenendo una rigorosa autonomia dello stato nazione, a partire dalla sovranità monetaria e dalla conseguente possibilità di finanziare il fabbisogno della spesa pubblica attraverso l’emissione di moneta. Oggi, dopo decenni di smantellamento sistematico di tale autonomia, non resta altra alternativa se non riconquistare la sovranità nazionale e popolare come presupposti irrinunciabili per rilanciare quel progetto politico che venne accantonato quarant’anni fa.
Gli “europeisti “critici” potrebbero replicare: perché questa via non potrebbe essere imboccata da una Unione europea riformata, piuttosto che dai singoli stati nazionali? Per il semplice motivo, rispondono gli autori, che non è pensabile democratizzare uno spazio che è stato creato con l’esplicita finalità di de democratizzare e de politicizzare i processi decisionali, concentrandoli nelle mani di una ristretta élite, in modo da poter annientare i rapporti di forza delle classi subalterne. E a corroborare tale risposta contribuisce l’analisi che Alessandro Somma conduce nel secondo libro di cui vado ora a occuparmi.
II. Alessandro Somma. La Costituzione tradita
Perché la nostra Costituzione rappresenta un ostacolo per gli interessi della finanza globale, tanto da attirarsi l’odio dei robber barons di oggi come JP Morgan? Quali sono le sue caratteristiche più indigeste per i nemici delle classi subalterne, e in che misura tali caratteristiche possono essere utilizzate per combatterli? Alessandro Somma, studioso di diritto costituzionale, risponde prendendo le mosse dal modo in cui la nostra Carta tratta i principi di sovranità popolare e uguaglianza sostanziale.
Per lungo tempo, argomenta, il concetto di sovranità popolare è stato una formula politica priva di valore giuridico; ciò è cambiato a partire dagli anni Cinquanta, allorché viene introdotta la distinzione fra stato-governo e stato-società, precisando che il primo dev’essere concepito come al servizio del secondo: “è dunque il popolo il titolare della sovranità, mentre l’apparato statale si limita ad attuare gli intendimenti maturati entro la comunità dei governati”[1]. Tuttavia, posto che al conflitto governanti/governati si affiancano quelli fra i diversi interessi che esistono all’interno dei secondi, e posto che l’esito di questi conflitti è determinato dai rapporti di forza, è evidente che l’esercizio della sovranità richiede, oltre alla libertà, anche l’uguaglianza sostanziale dei cittadini che i pubblici poteri sono chiamati a promuovere rimuovendo gli ostacoli alla sua realizzazione. Riassumendo: l’esercizio delle sovranità presuppone, oltre alla libertà e all’uguaglianza, la solidarietà: “solidarietà fuori dal mercato, attraverso il sistema della sicurezza sociale, ma anche nel mercato, con il bilanciamento della debolezza sociale attraverso la forza giuridica”[2]. Da qui discende l’attenzione della nostra Costituzione per la valorizzazione del lavoro e per lo sviluppo della democrazia economica (nonché i mal di pancia di JP Morgan).
Il principio di uguaglianza sostanziale che, come appena chiarito, implica la solidarietà fuori dal mercato, cioè il bilanciamento della debolezza sociale ad opera della forza giuridica, sostiene Somma, rappresenta un nuovo modo di intendere la libertà rispetto a quello proprio del costituzionalismo ottocentesco, che si preoccupava esclusivamente di disciplinare i rapporti fra il cittadino e l’autorità pubblica. Non è esagerato affermare che è lo stesso concetto di democrazia che viene a cambiare, nella misura in cui integra al proprio interno l’elemento della democrazia economica. È qui che si annida il “peccato originale” della Costituzione italiana, cioè nel suo sforzo di superare i limiti della democrazia formale per attingere a una democrazia reale che affonda le radici nelle dimensioni del lavoro, che tende cioè a invadere “gli spazi tradizionalmente tenuti al riparo dalla sovranità popolare, come in particolare l’impresa o l’apparato amministrativo: è considerando questi spazi che si può misurare il grado di sviluppo di una democrazia, senza dubbio dipendente dal ’numero di coloro che hanno diritto di partecipare alle decisioni che li riguardano’, ma anche e soprattutto dall’incremento degli ’spazi in cui possono esercitare tale diritto’ “[3].
La democrazia economica è un principio intollerabile per il capitalismo nella misura in cui si propone di riequilibrare il conflitto sociale consentendo al lavoro di contrastare efficacemente il potere del capitale. Ciò è tanto più pericoloso in quanto non minaccia solo di condizionare le relazioni industriali ma anche di influire sull’indirizzo politico del Paese. Basti pensare alla misura in cui l’allargamento delle libertà sindacali ha influito sugli orientamenti politici popolari e sugli equilibri politici nazionali durante la grande stagione delle lotte operaie fra fine anni Sessanta e inizio Settanta. Per l’impianto dottrinale, ideologico e istituzionale anglosassone tutto ciò suona come una vera e propria nemesi, il che vale a maggior ragione per l’ordinamento di matrice ordoliberale dello stato tedesco nato dalla fine del nazismo: benché seguita al crollo di una dittatura, ricorda Somma, la costituzione tedesca è l’unica priva dei caratteri tipici delle carte accomunate da quell’origine, priva, in particolare, dell’enunciazione del principio di uguaglianza sostanziale e di un completamento dei diritti fondamentali attraverso una elencazione dei diritti sociali. Dalla costituzione tedesca alla irriformabilità delle istituzioni europee il passo è breve, considerato che tanto la prima quanto le seconde condividono le stesse fondamenta ideali, le quali risalgono a ben prima che la costruzione europea muovesse i primi passi e si propongono l’annientamento della sovranità popolare, lo svuotamento della democrazia e un drastico ridimensionamento della forza contrattuale delle classi subalterne.
È noto che le fondamenta del neoliberismo moderno furono gettate, oltre che da von Hayek e altri, dal celebre incontro dedicato all’intellettuale liberale americano Walter Lippmann, tenutosi a Parigi nel 1938. In quell’occasione, ricorda Somma, fu criticata la classica visione dello stato minimo, e si iniziò a discutere della necessità di uno stato forte capace di svolgere una funzione di “polizia economica”, cioè il compito di contrastare la disgregazione sociale provocata da un mercato abbandonato a se stesso; obiettivo da realizzare elevando le leggi del mercato a leggi dello stato, in modo da imporne il rispetto con la forza della legge. Non bastava contrapporre l’ideale della libertà a quello dell’uguaglianza: occorreva integrare l’individuo nell’ordine economico. In altre parole, il neoliberalismo chiedeva ai pubblici poteri di promuovere attivamente il funzionamento del mercato traducendone le leggi in leggi dello stato “e dunque utilizzando la concorrenza come strumento di direzione politica dei comportamenti individuali. In questo senso subordinava le istanze liberatorie tipiche della tradizione liberale alle istanze ordinatorie indispensabili per assicurare l’equilibrio del mercato, per il quale si dovevano contrastare le concentrazioni di potere economico: prime fra tutte quelle rappresentate dalle coalizioni di lavoratori impegnati a sottrarre la relazione di lavoro alle logiche del mercato”[4].
Non sono solo i sindacati a finire sotto tiro: la critica colpisce anche lo stato sociale, in quanto offre incentivi ad abbandonare il mercato del lavoro e sottrae al libero mercato settori come la sanità e l’istruzione. Per i neoliberali lo strumento più efficiente per ridistribuire il valore è il mercato stesso, per cui l’obiettivo dell’inclusione sociale viene ricondotto a quello dell’inclusione nel mercato, con buona pace del principio di uguaglianza sostanziale contenuto in costituzioni come quella italiana. Infine l’attacco alla democrazia economica prelude all’attacco alla democrazia in quanto tale, che non è più intesa come fine in sé bensì come strumento per la selezione delle élite.
Questa filosofia, che è inscritta nel codice genetico delle istituzioni europee, è stata fatta propria dalle élite neoliberali italiane, di destra e di sinistra, le quali vi hanno riconosciuto uno strumento strategico per imporre dall’esterno quella disciplina economica che non riuscivano a imporre all’interno del Paese. Guido Carli, che rappresentò l’Italia nei negoziati per la definizione del Trattato di Maastricht in qualità di Ministro del Tesoro, ne era perfettamente consapevole; dichiarò infatti che il Trattato avrebbe condotto ad “allargare all’Europa la Costituzione monetaria della Repubblica Federale di Germania” aggiungendo che ciò avrebbe costretto tutti “ad assumere comportamenti antinflazionistici” e, in ultima istanza, avrebbe implicato “un mutamento di carattere costituzionale per cui si sarebbero ristrette le libertà politiche e riformate quelle economiche” realizzando in particolare “una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi”, e un ripensamento complessivo delle “leggi con le quali si è realizzato in Italia il cosiddetto Stato sociale”[5].
Con l’approvazione del Trattato di Maastricht inizia lo smantellamento delle caratteristiche incompatibili della nostra Costituzione. Le linee direttrici di tale processo sono la spoliticizzazione e la tecnicizzazione del nostro sistema istituzionale: spoliticizzazione perché da quel momento gli esecutivi evocheranno sistematicamente il vincolo dei mercati internazionali per giustificare le proprie scelte impopolari, tecnicizzazione perché la transizione dal governo alla governance verrà presentata come l’avvento di una democrazia “deliberativa” in cui tutti i gruppi interessati a una determinata decisione concorrono alla sua definizione (in realtà nessuno dei soggetti coinvolti - a parte le lobby più potenti - può realmente influire sul contenuto delle decisioni, mentre il peso delle rappresentanze popolari è drasticamente ridotto).
Stabilire se la Ue sia un Superstato, oppure una superstruttura parastatale, come preferisce definirlo chi sottolinea l’assenza di una politica fiscale ed un esercito comuni, per tacere dell’assenza di una Costituzione europea, ha importanza relativa: ciò che conta è che a svolgere la funzione di una Costituzione europea in grado di sovradeterminare le Costituzioni dei Paesi membri sono i Trattati; e che i parlamenti nazionali sono di fatto esautorati dal processo di costruzione dell’unità, che viene diretto dagli esecutivi nazionali e dalla tecnocrazia europea. Il vero organismo politico unitario è il Consiglio europeo, cioè un vertice di Capi di Stato e di governo cui spetta fornire all’Unione “gli impulsi necessari al suo sviluppo” oltre a definirne gli orientamenti e le priorità politiche. Comunque la si voglia definire, la Ue agisce come un’entità sovrastatale che divora spazi di partecipazione democratica, spoliticizza il mercato e sterilizza il conflitto ridistributivo, ed è una costruzione palesemente irriformabile, non tanto per il fatto che per modificare i Trattati occorre l’unanimità dei membri, quanto in ragione di quel “mercato delle riforme” che scandisce i passaggi fondamentali della sua esistenza. Somma allude qui ovviamente all’uso che la Ue ha fatto della crisi del debito sovrano per mettere al bando le politiche economiche keynesiane: vedi gli effetti devastanti della proibizione alla Bce e alle banche centrali nazionali di acquistare titoli del debito pubblico e di assistere finanziariamente gli stati, di modo che, per sovvenzionare i propri debiti questi ultimi sono costretti ad assoggettarsi alla logica del mercato, il quale diviene il poliziotto che ne sorveglia il rispetto della disciplina di bilancio. Solo in presenza di rischi di default sarà concesso alle istituzioni europee di intervenire e l’aiuto verrà accordato in base allo schema dolorosamente sperimentato dalla Grecia: tagli alla spesa pensionistica e sociale; tagli a stipendi e livelli di occupazione dei dipendenti pubblici; liberalizzazioni e privatizzazioni selvagge; drastiche riforme del mercato del lavoro per ridurre il potere sindacale e favorire il lavoro flessibile e precario.
Somma si dichiara stupefatto dal modo in cui i governi italiani hanno ignorato i profili di incostituzionalità associati all’appartenenza alla Ue, dal momento che quella che si è realizzata non è una semplice limitazione, bensì una vera e propria cessione di sovranità. Il risultato è che la nostra Costituzione mostra oggi i segni dell’adattamento forzato all’ortodossia neoliberale, come conferma lo sfregio dell’articolo 81 che costituzionalizza i dettati del Fiscal Compact, stabilendo che i bilanci nazionali debbano essere in pareggio o in avanzo, aprendo un conflitto insanabile con i principi fondamentali della Carta.
Eppure è esistita una fase storica – ricorda Somma – in cui la sinistra italiana era consapevole della minaccia che l’integrazione europea rappresentava per gli interessi popolari. Nel 1949 Lelio Basso, commentando il Preambolo dello Statuto del Consiglio d’Europa, ebbe a ironizzare su una borghesia che, abbandonato il tradizionale nazionalismo, faceva professione di cosmopolitismo: una conversione che, dietro l’agitazione di nobili principi pacifisti, celava la volontà di resistere alla pressione delle classi popolari che avevano acquisito coscienza dei propri diritti. Il deputato socialista chiarisce che l’emancipazione delle classi subalterne passa dalla loro capacità di togliere “alla nazione il carattere di espressione esclusiva della classe dominante”, ma non anche di abbandonarla come terreno di lotta politica. E ciò equivale a dire che il proletariato deve acquisire “contemporaneamente la coscienza di classe e la coscienza nazionale, ponendo le basi per un vero internazionalismo, per una federazione di popoli liberi”.[6] Nel 1957, nel corso del dibattito parlamentare sulla legge di ratifica dei Trattati di Roma, mentre i deputati favorevoli celebravano i vantaggi che la denazionalizzazione dei mercati avrebbero apportato, l’opposizione comunista, con le voci di Giuseppe Berti e Gian Carlo Pajetta, replicava che il mercato comune avrebbe favorito i grandi monopoli industriali, in particolare tedeschi, e compresso la forza contrattuale dei sindacati. Scampoli di questa consapevolezza si ritrovano negli anni Settanta, ma negli anni Novanta, quando si svolge il dibattito sulla ratifica del Trattato di Maastricht, non ne è rimasta traccia: l’ex partito comunista – ora Pds e convertito al credo liberale – dichiara, per bocca di Claudio Petruccioli, che sulla scelta strategica dell’unità europea “convergono le ragioni della democrazia, del lavoro, della pace e dell’internazionalismo”. L’apostasia verrà definitivamente sancita con il consenso accordato alla costituzionalizzazione del Fiscal Compact.
Esiste una via di uscita da tutto ciò? L’economista franco-egiziano Samir Amin, da poco scomparso, ha indicato in modo inequivocabile quella che, a suo parere, è l’unica soluzione che permetterebbe di riscattare i popoli europei dal giogo dell’Unione a egemonia tedesca: non c’è alternativa all’uscita dall’euro e alla restaurazione della sovranità monetaria degli stati-nazione. Solo così tornerà possibile separare banche commerciali e banche di investimento, nazionalizzare le banche in difficoltà, sottrarre l’agricoltura e le Pmi al controllo monopolistico, introdurre politiche fiscali progressive, ecc. Chi si oppone alla restaurazione della sovranità degli stati-nazione ignora – in buona o mala fede – il fatto che il posto di questi ultimi è ora occupato dai monopoli e dalle loro istituzioni transnazionali. Anche Alessandro Somma richiama il concetto di delinking dal mercato globale che Samir Amin aveva elaborato in riferimento alle lotte dei popoli coloniali, sostenendo che “anche i Paesi europei avrebbero bisogno di disconnessione, se questo significa riconquistare gli spazi per una partecipazione democratica alle scelte di fondo relative al modo di essere dell’ordine economico. Anche nel Vecchio continente possono cioè operare meccanismi non dissimili da quelli un tempo tipici delle aree interessate al colonialismo, come i meccanismi contemplati dal vincolo esterno”[7]. Del resto, pur in un contesto economico e geopolitico diverso, anche Keynes aveva espresso la propria preoccupazione nei confronti di una uniformazione dei sistemi economici mondiali e sostenuto l’opportunità di essere relativamente liberi da interferenze derivanti da mutamenti economici realizzati altrove. Al punto che, pur restando alieno a suggestioni autarchiche, auspicava un movimento consapevole verso una maggiore autosufficienza nazionale e un maggior isolamento economico.
Se gli stati-nazione non si fossero ispirati a tale visione, commenta Somma, non sarebbe stato possibile attuare l’esperimento dei Trenta gloriosi, sostenuto da un sistema di welfare che liberava reddito per i consumi e dal controllo politico sulle banche centrali, le quali erano messe in condizione di rendere sostenibile l’indebitamento pubblico. Il sovranismo democratico auspicato da Somma non si esaurisce però nel recupero della democrazia economica, e delle forme che questa ha assunto attraverso il compromesso keynesiano fra capitale e lavoro. Se è vero che solo le lotte dei lavoratori possono contrastare l’Europa dei mercati, e se è vero che ciò può avvenire solo nel contesto di una dimensione nazionale che è la dimensione “naturale” di ogni conflitto ridistributivo, allora l’obiettivo dev’essere quello di andare oltre la restaurazione della democrazia borghese, marciando verso l’attuazione del principio costituzionale di uguaglianza sostanziale.
Il libro di Somma ha anche il merito di non sottrarsi agli aspetti più spigolosi del dibattito sul sovranismo, associati a temi come il ritorno dei confini nazionali e il controllo non solo sui flussi dei capitali, ma anche su quelli delle merci e delle persone, nella misura in cui questi entrino in contraddizione con gli obiettivi di democrazia economica. Consapevole che le cose si complicano allorché si afferma la necessità di limitare la circolazione dei lavoratori - causa di dumping sociale e fonte di conflitti fra lavoratori disponibili a percepire salari inferiori e accettare condizioni di lavoro più gravose rispetto a quelli previsti dalle leggi e dai contratti collettivi, e lavoratori che difendono tali livelli, conquistati al prezzo di dure lotte -, Somma chiarisce che il sovranismo democratico implica un recupero non nazionalista della dimensione nazionale. Si tratta cioè di evitare ogni declinazione sostanzialista, ontologica del concetto di nazione, evitando di cadere nella trappola della scissione fra i concetti di popolo e nazione messa in atto da populismi e sovranismi di destra, i quali utilizzano l’idea di nazione per esaltare i caratteri identitari – cultura, lingua, religione, ecc. – condivisi da un popolo. Viceversa occorre difendere un concetto di popolo che è tale in quanto condivide un insieme di diritti e di doveri, e non di elementi identitari che servono a occultare i conflitti legati alle differenti posizioni occupate nell’ordine sociale. In poche parole: la nazione è il territorio su cui lavorano, vivono e lottano tutti i soggetti che lo abitano e si riconoscono nell’ordinamento politico che lo controlla e governa.
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