Perché ci si stupisce, ci si scandalizza, si
grida allo sfascio davanti all’abbandono dello spazio pubblico, di quella
dimensione, cioè, fatta di servizi e strutture importanti (scuola, sanità,
giustizia, trasporti, strade, infrastrutture, ecc.), ma anche di strutture
apparentemente meno significative (quale un bagno pubblico, un parcheggio, le
strisce pedonali) quando per decenni e ad una intensità via via sempre più
crescente si è costruita, glorificata,
enfatizzata, predicata una ideologia che ha fatto della dimensione privata
dell’esistenza l’unica dimensione per cui valesse vivere davvero?
Se per decenni si sono santificate formule
come “meno stato, più mercato”, “imprenditore di se stesso”, “capitale umano”
oppure si sono usati epiteti ambigui come “furbetti del quartierino” per
definire, in realtà, chi aveva commesso gravi crimini finanziari e fiscali, ci
si può adesso sorprendere del fatto che, messi i propri piedi fuori dalla
propria villetta super-accessoriata, magari costruita con proventi e mezzi
illeciti, si rischi di sprofondare nella prima buca che si trova sulla strada
(quando la strada ancora c’è)?
Ma si rendono conto quanti gridano allo
sfascio che sono gli stessi che, poi, istigati a farlo, si vorrebbero armare
per difendere la villetta super-accessoriata e monitorata giorno e notte
dall’assalto di chissà chi? Chi potrà mai assaltarli e derubarli se lo
spazio pubblico non è più agibile oppure non c’è più? Se ognuno sarà
costretto a non uscire più dalla propria villetta proprio perché il territorio,
tutt’intorno, è sprofondato dopo l’ennesima alluvione od ondata di maltempo
contro le quali non c’è protezione civile che tenga (in quanto anche essa, come
istituzione pubblica, nel frattempo, se non ancora dissoltasi da sola, sarà
stata neutralizzata e cancellata via)?
Che senso ha accorgersene
di nuovo adesso che si sarebbe prestata attenzione più alle cose che
alle persone? Il che vuol dire, più attenzione allo status sociale da acquisire
e da esibire tramite, appunto, quella panoplia di ‘cose’ (invidiata alle altre
classi sociali?) fatta di automobilone, arredamentoni, “ville e villotte”
(Reichlin), abbigliamenti trendy e cianfrusaglie ipertecnologiche varie.
La
condizione psico-sociale odierna: fine della politica del ‘compromesso socialdemocratico’,
della democrazia sociale e della sfera pubblica
“40
anni di enfatica legittimazione delle disuguaglianze, intese come elemento
costitutivo delle relazioni e delle identità sociali in una logica mercatistica”
(C. Vercelli, Il popolo scomparso nella crisi democratica, Il manifesto, 14
giugno 2019). Altri effetti sono la fine della politica intesa come
“esercizio inclusivo, ossia riconoscimento e inserimento di una pluralità di
soggetti individuali e collettivi nella sfera pubblica”; fine della sfera
pubblica che si è anche essa trasformata “poiché non è più il campo delle
decisioni strategiche e neanche il luogo privilegiato di contrattazione e di
realizzazione dei processi redistributivi”; fine della democrazia sociale,
al tramonto, il che vuol dire fine del ‘compromesso socialdemocratico’ iniziato
nel 1945, “un rapporto che metteva in relazione ricchezza prodotta,
redistribuzione collettiva, responsabilità sociale delle imprese e coesione
territoriale. Oggi, invece, misuriamo come quel sistema di equilibri, basati
sull’integrazione nazionale delle classi lavoratrici, si sia interrotto, se non
completamente esaurito. E’ la nozione stessa di lavoro ad essere sottoposta a
continue transizioni; il lavoro non è più il paradigma sul quale misurare l’accesso
alle risorse e la loro effettiva fruizione”.
Tutto
questo a fronte di una concezione totalitaria dell’economia capitalistica,
estrattivistica e predatoria, intesa come un complesso di attività volte allo
sfruttamento della natura, delle sue risorse
e di altri esseri umani per poter soddisfare bisogni e desideri esclusivamente umani. I quali vengono poi soddisfatti non in egual
misura, ma secondo logiche regolate da rapporti di forza, di potere e di
dominio spesso estremi.
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