Il dibattito sul ritorno dello Stato nella gestione delle autostrade – che pare inevitabile, ma è da capire in quali forme – si è finora concentrato su questioni di natura tecnica e finanziaria. Non c’è dubbio, gli “statalisti” hanno un ottimo arsenale, retorico.
Retorico ed empirico, a cui attingere a sostegno delle loro tesi; non solo per il caso specifico della gestione della rete autostradale.
I sostenitori della soluzione “privatista” fanno ricorso all’eterna litania dell’impossibilità per uno Stato indebitato come il nostro di accollarsi ulteriori oneri, oltre all’argomento – del tutto ideologico – della sfiducia preventiva nei confronti delle abilità di gestione dello Stato. Si tratta di argomenti facili da smontare.
I sostenitori della soluzione “privatista” fanno ricorso all’eterna litania dell’impossibilità per uno Stato indebitato come il nostro di accollarsi ulteriori oneri, oltre all’argomento – del tutto ideologico – della sfiducia preventiva nei confronti delle abilità di gestione dello Stato. Si tratta di argomenti facili da smontare.
Se uno Stato come quello italiano – che, è il caso di notare, già controlla parte della rete autostradale – non è in grado di gestire direttamente il proprio patrimonio, dotato com’è di scuole ed università pubbliche per formare personale specializzato, come avrebbe potuto esserlo un gruppo finanziario dedito tradizionalmente allo smercio di jeans a basso costo e alla speculazione terriera in Amazonia?
Oltretutto, se si allarga un po’ il panorama, si scoprirà che tra le dieci principali aziende operanti in Italia la maggior parte di esse sono pubbliche. Non pare che i campioni del capitalismo privato abbiano saputo fare molto meglio nel corso del trentennio delle grandi privatizzazioni. La preoccupazione dei privatisti per la sorte dei lavoratori di Atlantia a rischio licenziamento appare poi tutt’altro che disinteressata, venendo come viene da pulpiti dai quali fino a ieri si predicava il verbo della libertà di licenziamento, a vantaggio non certo dei lavoratori.
Ma se la gestione privatista generava profitti tali da occupare quei lavoratori, e soprattutto da facilitare la spartizione di rendite miliardarie tra i membri Cda, a spese della sicurezza e del portafoglio di tutti i cittadini, non si vede perché lo Stato non si possa permettere l’assunzione di quegli stessi tecnici e lavoratori, o di altri ancora, rilanciando al contempo gli investimenti (fermi, con la gestione privata, alla metà di quanto previsto nel lontano ’98) e abbassando le tariffe per i pendolari, i lavoratori o i semplici vacanzieri.
Al di fuori delle ideologie, dunque, anche se solo si trattasse di differenti tipi di gestione, l’esperienza degli ultimi trent’anni ci insegna che lo Stato lo fa meglio, o che, almeno nel caso specifico, non potrebbe certo fare peggio. Ma oltre ad argomenti di natura tecnica ci sono in ballo quelli di natura politica, che hanno a che fare con la redistribuzione del potere e della capacità di indirizzo delle scelte strategiche in una società democratica, e che dovrebbero stare particolarmente a cuore alla sinistra.
Grandi gruppi finanziari privati infatti, specialmente se fioriti all’ombra della rendita derivante dalla gestione di monopoli naturali, detengono un potere eccessivo nelle nostre società, e lo esercitano in due direzioni: la prima, più diretta, attraverso l’azione di lobbying e il finanziamento a partiti e gruppi politici, in un contesto già reso strutturalmente squilibrato dalla fine del finanziamento pubblico ai partiti e dalle difficoltà di accesso per i gruppi politici alternativi al sistema dei mass media; la seconda, più indirettamente, attraverso il condizionamento da essi esercitato sull’intero sviluppo sociale, economico ed ecologico del Paese.
In una democrazia contemporanea il potere espresso dai cittadini attraverso le elezioni, e dai loro rappresentati attraverso la promulgazione di leggi, è infatti sempre sotto lo scacco potenziale della capacità dei grandi monopoli finanziari ed industriali di indirizzare in maniera alternativa scelte che non riguardano la mera destinazione dei propri investimenti, ma la vita di tutti. Pensiamo al peso avuto in passato dalla Fiat in Italia, o ancor più dai grandi gruppi statunitensi, nel dettare un modello di sviluppo sociale, ecologico ed urbanistico tutto ruotante attorno all’insostituibilità dell’automobile.
Democrazia e capitalismo sono in fondo incompatibili, la loro coesistenza può essere solo dinamica, in un equilibrio in cui se la democrazia non pone sotto scacco il potere dei gruppi economici e finanziari, ne viene prima o poi distrutta.
Allora ricostruire un ruolo per lo Stato in economia significa non solo garantire servizi migliori ai cittadini, ma anche organizzare centri di controllo da cui esercitare quotidianamente il potere democratico. Non basta, per questo, il solo ritorno dello Stato in economia. Lo Stato, infatti, può essere tanto strumento di innovazione sociale, tecnologica ed ecologica, come ridursi ad un ruolo ancillare rispetto a quegli stessi interessi che sarebbe bene colpire. Questo dev’essere oggetto di lotta politica e di controllo democratico. Il ritorno della stagione dello Stato in economia è un inizio.
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