È difficile, forse impossibile, ricondurre entro un quadro razionale quanto accaduto la sera del 26 ottobre (il giorno dell’ultimo Dpcm e della rabbia alla fine esplosa) nel centro di Torino, “tanto uguale e tanto diverso” da quanto nello stesso momento avveniva, o era da poco avvenuto, a Milano, o a Roma, o a Napoli… .
Le immagini hanno fatto il giro del web: le vetrine di Gucci, Hermes, Vuitton in frantumi, gruppi di ragazzini che dei black blok avevano solo il nero dei felponi, con le mani ferite dalle schegge di vetro ad arraffare (imbrattandole del proprio sangue) giacche e borsette firmate, scarpe con tacco 12 e sciarpini di cachemire, a conclusione di una manifestazione che aveva per oggetto la protesta di ristoratori, esercenti e commercianti messi alla disperazione dall’effetto congiunto di covid e misure anti-covid, e che andava producendo tuttavia, per una sorta di perversa eterogenesi dei fini, la devastazione dei loro oggetti-simbolo.
Una cosa così non si era mai vista in una città come Torino che, nella sua lunga storia di città-fabbrica, di rivolte ne aveva viste tante, da quella “seminale” dell’agosto 1917 per il pane e la pace al luglio del ’48 come risposta immediata all’attentato a Togliatti, fino ai fatti di Piazza Statuto nel ’62 contro l’accordo separato alla Fiat e a Corso Traiano nel ’69, nel giorno dello sciopero generale “per la casa”.
Ma erano tutte, per così dire, rivolte “geometriche”, con protagonisti dal profilo preciso e stabile, ben polarizzati: gli operai, da una parte, i “signori” come controparte. E obbiettivi chiarissimi. Anche negli ultimi anni, quando alle grandi rivolte erano succedute le scaramucce, quel certo ordine geometrico della protesta si era mantenuto.
Ora invece no. Confusi i connotati dei protagonisti (simili in questo all’esempio dei “forconi”), un po’ ceto medio produttivo un po’ marginalità estrema, ognuno convinto della insostenibilità della propria condizione ma ognuno distribuito sul piano inclinato della posizione sociale a livelli diversi, anche molto diversi, dove la distanza tra il titolare del ristorante esclusivo del centro e il gestore del baretto in semiperiferia ammazzato dallo smartworking dei suoi abituali clienti (che pure in piazza stanno gomito a gomito a maledire Conte e il suo governo) è sicuramente incomparabilmente più ampia rispetto a quella che separa il proletaroide che vive di una sala per videopoker di periferia dal precario o dal disoccupato che ogni giorno ne staziona davanti.
Confusi anche gli obiettivi con cui ognuno portava il proprio rancore in piazza, e la propria volontà di vendetta contro qualcuno o qualcosa da cui si sente minacciato mortalmente, assai più che dalla vera minaccia mortale costituita dal virus di cui pare non far conto, come se riguardasse altri, quelli che godono del lusso di potersi preoccupare della propria salute. Frammenti, frantumi, pulviscolo sociale rappresentabile solo in un frattale, espressione di quanto, negli scorsi decenni, la vecchia metropoli non più “di produzione” si è andata scomponendo e disgregando, aprendo nel proprio tessuto voragini di senso.
Per questo – per questo scenario stravolto che fa da sfondo -, non convincono i giudizi sommari, quelli che liquidano come fascisti o “estremisti di destra”, ultras da stadio, micro-criminalità non organizzata le frange violente, e come reazionari potenzialmente evasori se non eversori gli altri. Non convincono non perché non ci fossero tra loro ultras da stadio o evasori fiscali, ma perché, appiattendosi sulle etichette politiche, si occultano le radici dei comportamenti, che sono ramificate, e profonde (si cade cioè in quell’”amnesia interpretativa” che Donatella Di Cesare denuncia nel suo recente libro su Il tempo della rivolta).
Gli adolescenti che saccheggiavano le boutiques venivano da vicino ma insieme da lontano: da periferie infette e cadute fuori, dove nella prima ondata il virus aveva colpito duro, durissimo (ovunque si sia mappato il contagio a livello di quartiere o di caseggiato si vede come i numeri di contagiati nelle periferie metropolitane siano state di quattro, cinque, sei volte quelli delle ZTL). Sono gli stessi “tamarri” che il sabato scendono in centro per lo struscio a guardare dai portici gli oggetti del desiderio che non si potranno mai permettere, ostaggi di una retorica del consumo opulento che li consegna a una frustrazione e a un risentimento perenni, tranne quando nella fessura dell’ordine infranto da una protesta possono infilarsi e colpire (niente si attaglia di più al loro agire dell’affermazione, ancora della Di Cesare, che “la rivolta mostra lo Stato dalla finestra dei quartieri periferici, la fa vedere con gli occhi di chi è lasciato fuori o di chi si chiama fuori”).
Sono i figli illegittimi di un lavorio multidecennale che nella distruzione della memoria sociale ha inoculato il virus di un individualismo competitivo e acquisitivo il quale, nel momento collettivo più difficile, con gli ospedali che si riempiono e i medici che vanno in overload, presenta il conto nella forma di un agire cieco. Lo stesso si potrebbe dire per gli altri, l’ala non fisicamente violenta della protesta contro il Dpcm: non poveri, questi, di certo, e neppur tutti “marginali”, ma impoveriti sì, e ancor più terrorizzati non dalla minaccia di SarsCov2 ma da quella della caduta sociale, della fine del sogno da imprenditori di se stessi, finalmente liberi dalla schiavitù del lavoro salariato, padroni di sé e, tout court, “padroni”.
Sono una parte consistente del fragile, fragilissimo, neo-neocapitalismo italiano, fibrillante e vulnerabile, privo di vera accumulazione e di figure di riferimento credibili, un po’ arte di arrangiarsi e un po’ domanda di assistenza da parte dello stesso Stato contro cui ogni giorno si inveisce. A loro, indubbiamente, riescono a parlare con maggior facilità le variegate neo-destre cresciute nel sottobosco nazionale e nel grande bacino internazionale dei populismi, capaci di titillarne le vocazioni acquisitive e gli individualismi narcisistici.
Mentre, in questo tessuto sfibrato, gli argomenti della solidarietà, della giustizia sociale e della cooperazione dolce stentano a penetrare, soprattutto se non accompagnati da pratiche di “risarcimento” per il declassamento subito. Su questo si parrà della nobilitate della maggioranza in carica, quantomeno della sua capacità di non far precipitare la crisi sociale oltre i limiti della sostenibilità del quadro democratico.
Nessun commento:
Posta un commento