Secondo Fukuyama, il marxismo sarebbe morto assai prima del 1989, in assenza della miseria del mondo sottosviluppato, fenomeno che ha consentito alla scuola dei teorici della dipendenza di prolungarne la vita, sia pure al prezzo di alcuni “tradimenti” nei confronti della versione “canonica” che i fondatori avevano consacrato fra fine Ottocento e primo Novecento. Il libro di Alessandro Visalli, Dipendenza, da poco approdato in libreria per i tipi dell’editore Meltemi, esordisce citando questa opinione dell’autore della Fine della storia. Sappiamo che poi la storia non è affatto finita, e che il filosofo nippoamericano è stato altrettanto imprudente nel recitare il de profundis per il marxismo, cui la crisi del sistema liberal liberista sta oggi concedendo più di una rivincita, ma questo non è l’unico, né il più significativo, argomento della corposa (400 pagine abbondanti) e documentatissima ricerca che Visalli ha condotto sulla scuola della teoria della dipendenza.
Parliamo di una scuola che rappresenta una delle più affascinanti avventure del pensiero critico dell’ultimo mezzo secolo, un pensiero che, pur con i diversi accenti e sfumature che ognuno dei suoi vari esponenti vi ha incorporato, si è evoluto nei decenni senza mai rinunciare al filo rosso di una tesi di fondo comune: il sottosviluppo non è il prodotto di una carenza di capitali e tecnologie, né di insufficienti livelli di modernizzazione, bensì delle forme specifiche che il modo di produzione capitalistico ha assunto in determinati Paesi, e della loro collocazione nel sistema internazionale. Per argomentare questo punto di vista, Visalli ha scritto un libro difficilmente inquadrabile in un'unica categoria disciplinare, visto che può essere definito come un saggio di storia delle idee e delle teorie economiche, ma effettua frequenti incursioni in campi come la geopolitica, l’antropologia e la politologia.
Il cambio di paradigma che culminerà con la nascita della teoria della dipendenza nasce ben prima delle considerazioni di Fukuyama, affonda cioè le radici nei primi decenni del secolo XX. Lenin accusava di revisionismo Kautsky e l’intero stato maggiore della Seconda Internazionale, ma in verità il vero revisionista fu lui. In primo luogo perché cappeggiò, come scrisse Gramsci, “una rivoluzione contro il Capitale di Marx”, visto che la Russia del primo Novecento non presentava nessuno dei caratteri che, secondo Marx, avrebbero reso un Paese maturo per la transizione al socialismo (era un Paese contadino, industrialmente arretrato), e visto che l’idea di Lenin secondo cui l’attacco doveva partire dall’ <<anello più debole>> del sistema capitalistico mondiale rovesciava la tradizionale gerarchia fra struttura economica e decisione politica. Ma soprattutto perché, assieme a Rosa Luxemburg e Hilferding, seppe cogliere la transizione epocale fra colonialismo classico e imperialismo: la fase monopolistica del capitalismo era necessariamente associata alla proiezione di potenza di imperi che fondavano la propria accumulazione di ricchezza sulla sistematica espropriazione delle risorse periferiche. Nasceva così quel “marxismo orientale” che, al contrario di quello occidentale (cfr. in merito Domenico Losurdo), riteneva che la contraddizione antagonistica non opponesse solo borghesia e proletariato all’interno di ogni Paese, ma anche Paesi dominanti e Paesi sfruttati ed oppressi.
La riflessione critica inaugurata da Lenin, riprende trent’anni più tardi, negli anni Cinquanta, allorché Paul Baran e Paul Sweezy, rilanciano, articolano e approfondiscono il concetto di capitalismo monopolistico, sistematizzando la tesi secondo cui i Paesi più forti drenano il surplus potenziale di quelli più deboli e, in questo modo, determinano ad un tempo il proprio sviluppo e il sottosviluppo degli altri (la nota tesi dello “sviluppo del sottosviluppo”). Un’ulteriore, successiva articolazione avviene ad opera della “banda dei quattro” (Gunder Frank, Samir Amin, Emmanuel Wallerstein e Giovanni Arrighi) che, a cavallo degli anni Sessanta e Settanta, gettano le basi per il concetto di Sistema Mondo. Le loro posizioni non sono sovrapponibili punto a punto, e Visalli svolge un lavoro certosino di ricostruzione di convergenze e divergenze – che non ho qui lo spazio di ripercorrere – che rispecchiano le rispettive interpretazioni dell’evoluzione delle lotte di classe e delle lotte di liberazione nazionale a livello locale, regionale e globale. Si può tuttavia affermare che, per tutto questo periodo, le speranze del gruppo si concentrano sulle rivoluzioni di liberazione nazionale in Asia, Africa e America Latina e sulla loro funzione di stimolo diretto e indiretto nei confronti delle lotte operaie e studentesche in Occidente.
A determinare una tragica svolta, e il conseguente drastico ridimensionamento di aspettative, è il golpe militare che stronca, con l’appoggio dell’imperialismo americano, l’esperimento socialista cileno all’inizio degli anni Settanta (Frank era consulente del governo Allende). A partire da questo choc i percorsi divaricano. Gunder Frank, in particolare, abbandonerà il concetto stesso di sviluppo e la speranza di poterlo indirizzare in senso rivoluzionario e finirà per anteporre l’obiettivo di una rivoluzione anti occidentale a quello di una rivoluzione anticapitalista, condividendo con altri autori, come Hosea Jaffe, l’idea che solo dopo avere sottratto all’Occidente la capacità di sfruttare il resto del mondo si apriranno le prospettive di una transizione di civiltà, ancor prima che di modo di produzione.
Ma anche fra chi si mantiene fedele a una prospettiva di lotta anticapitalistica sorgono differenze. Da un lato, Samir Amin resta ancorato alla sua idea di delinking: attribuisce cioè un ruolo strategico allo “sganciamento” dei Paesi più esposti al dominio imperialistico dal mercato globale, perché solo ottenendo il controllo politico sulle proprie risorse e sulle condizioni di riproduzione del loro sistema economico potranno intraprendere la via verso il socialismo. Viceversa Wallerstein e Arrighi appaiono progressivamente meno interessati a ragionare sulle chance di un’efficace azione rivoluzionaria locale e spostano l’attenzione sulle dinamiche di un sistema mondo in cui il rapporto centro-periferia diventa più funzionale che geografico, assumendo una configurazione a pelle di leopardo che oppone metropoli e regioni ricche non solo alle nazioni ex e post coloniali ma anche alle proprie periferie interne. Nel loro discorso la speranza del cambiamento, sembra più affidata all’emergenza di inediti fattori strutturali, fra economia e geopolitica, piuttosto che alla progettualità rivoluzionaria. Visalli descrive questo punto di vista in modo particolarmente chiaro analizzando le tesi dell’ultimo Arrighi, per cui cercherò di seguirlo su questo terreno.
L’eresia di Arrighi, il suo distanziamento dal marxismo dogmatico, spiega Visalli, consiste nell’affermare che il capitalismo non è un “destino del mondo”, la tappa di un necessario autosuperamento dell’umanità, destinato ad approdare alla condizione pacificata del socialismo. Per dimostrarlo, si mette sulle tracce di Adam Smith e, nel suo capolavoro (Adam Smith a Pechino) mette in luce come la Cina, prima di subire l’aggressione degli imperialismi occidentali, avesse sviluppato un modello di economia di mercato non capitalistica (e qui Arrighi è debitore, oltre che di Smith, della distinzione di Polanyi fra economia di mercato ed economia con mercato). Un sistema economico florido ancorché statico (non rispondeva alla logica capitalistica dell’accumulazione infinita e fine a sé stessa) ed autosufficiente (non ha mai perseguito progetti di espansione coloniale). Questo equilibrio statico e geograficamente confinato in un territorio ancorché vastissimo, viene sconvolto dall’aggressione di un modello occidentale che, in ragione di eventi storici contingenti e irripetibili (e non di una qualche necessità immanente, di un presunto “destino” storico) ha al contrario sviluppato un duplice meccanismo espansivo fondato, da un lato, sull’accumulazione di spazio (conquiste coloniali), dall’altro sull’annientamento dello spazio attraverso il tempo (mobilità di capitali, merci e persone). L’altra eresia consiste nell’avere descritto la storia del modo di produzione capitalistico non come una progressione lineare guidata da “leggi” costanti e immanenti a un sistema unitario, bensì come una serie di “salti” scanditi dall’avvicendarsi di una serie di modelli plasmati sulle caratteristiche specifiche dei Paesi che, di volta in volta, hanno assunto un ruolo egemonico a livello mondiale (Olanda, Inghilterra, Stati Uniti).
Da questa doppia mossa teorica, derivano due conseguenze. La prima è che all’astratto concetto marxiano di modo di produzione subentra una visione multipolare, dislocata sia a livello spaziale che temporale, in cui non esiste il capitalismo, ma esistono diverse formazioni sociali in cui il rapporto di capitale si è integrato/adattato di volta in volta a diversi contesti storici, culturali, politici e geografici. La seconda è che Arrighi affida la speranza del superamento dell’attuale fase di capitalismo globalizzato e finanziarizzato – plasmato sull’egemonia americana – all’emergere di un nuovo polo egemonico in grado di agevolare lo sviluppo di un modello economico capace di instaurare relazioni più eque e giuste fra popoli e classi sociali (modello che, nei suoi ultimi lavori, ha creduto di riconoscere nella Cina e nel suo tentativo di costruire un’inedita forma di socialismo con mercato).
Visalli mette in luce come questa visione teorica non sia in grado, e in un certo senso nemmeno si ponga tale obiettivo, di fungere da guida a un nuovo progetto politico anticapitalistico (anche perché non considera il superamento del capitalismo un esito inevitabile, né ritiene che, ove ciò avvenga, debba necessariamente assumere la forma di una società socialista classicamente intesa). Al tempo stesso valorizza l’importanza di un ripensamento della teoria marxista che è riuscito a farci comprendere che l’accumulazione del capitale è anche una questione geografica, che ha saputo reinserire lo spazio nell’analisi delle dinamiche evolutive del capitalismo. Ma soprattutto insiste sul fatto che le idee della scuola della dipendenza, che per decenni è stata liquidata dalle sinistre – ivi comprese le radicali – come un residuo dell’ideologia “terzomondista” degli anni Settanta, stiano oggi tornando di attualità in una fase in cui assistiamo a una ripolarizzazione radicale fra centro e periferie che non coinvolge solo i Paesi post coloniali ma è frutto anche di un processo di proliferazione delle “colonie interne” (vedi i conflitti fra Paesi del Nord e Paesi del Sud e dell’Est Europa all’interno della Ue o quelli fra regioni dello stesso Paese, come quelli fra Italia settentrionale e Italia meridionale o fra Germania occidentale e Germania dell’Est). A queste mutazioni che stanno segnando il mondo in marcia verso un’era “post globale”, e che tendono a generare inedite contraddizioni antagoniste come quelle fra vincenti e perdenti al gioco della globalizzazione, fra nomadi e sedentari, fra nuove classi dominanti e nuove classi popolari, ha tentato di dare risposta Samir Amin, l’unico esponente della banda “dei quattro” che, fino alla fine della propria vita (è venuto a mancare un paio d’anni fa), non ha mai rinunciato ad attribuire una valenza politica immediata alle sue analisi teoriche, insistendo sulla possibilità/necessità di aggredire il sistema a partire dai suoi anelli più deboli, senza delegarne il superamento all’azione di fattori strutturali di natura globale.
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