mercoledì 14 aprile 2021

IL CASO MORO NELLE INTERVISTE DI W. VELTRONI. G. BODRATO. Bodrato, ex portavoce Dc: «Moro aveva nemici anche dentro lo Stato, ma non cedere alle Br salvò la democrazia», CORRIERE.IT, 14 aprile 2021

 Guido Bodrato è stato portavoce della Dc nel periodo del rapimento Moro. È un uomo rigoroso, espressione di quel cattolicesimo democratico che è tanta parte della storia e della cultura politica italiana.


Quando va collocata la fine della prima Repubblica?
«Una data ha segnato in modo più profondo il declino della centralità della Democrazia cristiana, caratterizzata dall’intreccio tra un forte consenso elettorale, la maggioranza relativa che la Dc aveva ottenuto per tanti anni, e la sua capacità di determinare le maggioranze che hanno governato il Paese. Questa centralità è entrata in crisi dopo il referendum del ’74 che ha visto per la prima volta dal ’48 prevalere i voti del Partito comunista insieme a quelli dei tradizionali partiti alleati della Dc; cioè ha registrato l’isolamento della Democrazia cristiana. Mai così evidente. Poi si è delineata, con Tangentopoli, una perdita di credibilità della politica, una crisi morale, che ha colpito in particolare la Dc. Ma vorrei dire che la caduta dei riferimenti, dei valori ai quali un partito si ispira, è sempre alle origini della crisi dei regimi e dei partiti che li rappresentano. La fine del centrismo si era intrecciata con un cambiamento profondo del Paese, dell’orientamento e del costume della società; e poi con una crisi della autorevolezza di un partito che era stato egemone. E si avviava una lunga transizione. Tuttavia agì sul declino della Dc anche la crisi del suo avversario storico. In politica i successi di una parte hanno sempre a che fare con le vicende del nemico, e la Dc aveva costruito il suo consenso in alternativa al Pci. La storia del Partito comunista di Berlinguer, che aveva riconosciuto “l’esaurirsi della spinta propulsiva della rivoluzione d’ottobre” prima della caduta del Muro di Berlino, aveva inevitabilmente ridotto l’area di consenso possibile della Dc. Per De Gasperi un partito di ispirazione cristiana non doveva isolarsi, doveva avere degli alleati: con il referendum del ’74 questa regola era stata dimenticata. Con l’apertura ai socialisti si era fatta più evidente la strategia delle riforme, ed il confronto parlamentare con l’opposizione. Ed anche la politica di centrosinistra rischiava di essere indebolita, perché gli alleati che si erano uniti contro un comune nemico stavano maturando l’idea dell’alternativa, mentre l’immagine del nemico perdeva di rilievo. Poi l’anticomunismo è sopravvissuto come motivo di aggregazione della destra ed è stato rilanciato proprio a partire dalla crisi della Democrazia cristiana con la discesa in campo di Berlusconi, ma questa è già un’altra storia».

Una persona come te, espressione della cultura cattolico-democratica, come votò il 12 maggio del ’74?
«Avevo assunto una posizione diversa da quella che Fanfani aveva imposto alla Democrazia cristiana. Lui era convinto che sul tema del divorzio la Dc avrebbe recuperato i voti dei cattolici che stava perdendo; non si rendeva conto che si stava organizzando, anche all’interno del mondo cattolico, una posizione opposta a quella che lui sosteneva. Io mi ero convinto che, dopo il Concilio Vaticano e con la secolarizzazione della società, stava emergendo un orientamento nuovo; cambiava radicalmente il modo di guardare alla politica e ai rapporti tra questa e l’opinione pubblica. Anch’io pensavo che la Dc dovesse avere una sua posizione e fosse giusto difenderla; ma pensavo che dovesse rispettare la scelta degli elettori senza una contrapposizione frontale, di rottura. Noi avevamo fatto la battaglia parlamentare, ma quella referendaria doveva farla chi l’aveva promossa. Finivo sempre i miei interventi dicendo: «In coscienza, gli elettori sono liberi di scegliere»; e questa posizione mi ha fatto trovare nella terra di nessuno, con bordate da una parte e dall’altra».

Il «compromesso storico» e la posizione di Moro non erano la stessa cosa...
«Moro pensava ad una tregua che avrebbe fatto maturare delle posizioni politiche nuove e avrebbe aiutato a camminare in direzione della democrazia compiuta. Guardava avanti, ma era prudente, parola che secondo me si adatta molto al personaggio Moro. La sua preoccupazione era: dobbiamo stare attenti perché i comunisti potrebbero un giorno dirci “sono cambiate le condizioni”; e noi cosa faremmo? Moro aveva ricordato all’assemblea dei parlamentari Dc che “tutto dipende anche da noi”, ma non era così sicuro che di fronte a noi ci fosse una strada in discesa. E le Brigate rosse, colpendo il cuore dello Stato, il personaggio che più e meglio di altri era in grado di portare avanti un dialogo, un confronto storico con Berlinguer, hanno messo in profonda crisi quella politica».

Berlinguer e Moro sfidarono troppo la Guerra fredda?
«Dal punto di vista democristiano la scelta atlantica è stata naturale, come quella per la Comunità europea, anche se talvolta poco critica. Non ci siamo forse resi conto, lo abbiamo scoperto negli ultimi anni, che esistevano posizioni diverse sul fronte della guerra fredda anche negli Stati Uniti. Basta riflettere sul modo con cui Kissinger giudicava Moro e si rivolgeva polemicamente a lui, per rendersi conto che il presidente della Dc era un personaggio certo non amato dai vertici americani di quegli anni. Credo che anche Berlinguer non fosse molto amato dai vertici dell’Unione sovietica di quegli anni. Anche Acquaviva dice che la guerra fredda aveva condizionato il nostro sistema democratico (la conventio ad excludendum); ma non lo aveva bloccato. Entrambi, Moro e Berlinguer, avevano riferimenti internazionali piuttosto chiari, dal punto di vista della loro collocazione in termini generali, ma erano entrambi considerati personaggi troppo autonomi, non affidabili per le rispettive ortodossie della Nato e del Patto di Varsavia».

Moro vi parlò mai dell’incontro con Kissinger?
«Di quella vicenda Zaccagnini ci ricordava che Kissinger si era alzato troncando un colloquio con Moro praticamente voltandogli le spalle. Oggi parlano tutti bene di Moro, ma allora non era così, neppure nella realtà nazionale. Ad esempio, il film di Roberto Faenza “Forza Italia” metteva l’immagine di Aldo Moro insieme a tutti gli altri democristiani. E ricordo che quando alcuni autorevoli personaggi del mondo cattolico hanno messo in dubbio la libertà di Moro di scrivere lettere durante la prigionia, e lo fecero per difendere la sua immagine dalle critiche, si scatenò un’amara polemica. Gli amici di Moro si riferivano a giudizi come quello di Giorgio Agosti: “Quella lettera può essergli stata estorta... ma Parri nelle sue condizioni, una lettera del genere non l’avrebbe mai scritta”. Cito dal Diario pubblicato da Einaudi, con grande rispetto... Ma questi giudizi erano ripetuti polemicamente, e facevano pensare che Moro fosse un uomo intento a difendere la sua vita ma incapace di reggere alla prova di un sequestro politico. Non posso dimenticare che Sandro Pertini, presidente della Camera, quando venne a Piazza del Gesù, abbracciando Zaccagnini gli disse: “In questi giorni, voi siete il mio partito”».

Ma tu allora e oggi che giudizio dai di quelle lettere? Perché allora fu subito detto che non erano sue. E invece...
«La lettura più convincente delle lettere dalla prigionia è quella che ne ha dato Miguel Gotor. Ne ha riconosciuto l’autenticità, le ha considerate “scritte per non morire”, ma anche “per sopravvivere alla morte”, insistendo sul fatto che le Br hanno messo in campo una strategia delle lettere, per condizionare il comportamento della Dc e del governo, per radicalizzare le posizioni e rovesciare tutte le responsabilità per la vita di Moro, loro prigioniero, sulla Dc. Di quei giorni di angoscia ho sentito ricordare da due brigatisti, incontrati tanti anni dopo, una donna presente in quella prigione e un brigatista di via Fani, che in quella situazione “Moro era l’unico uomo”, l’unico che mantenesse una coerenza, una dignità; gli altri recitavano in una tragedia nella quale erano prigionieri. C’era in Moro una coerenza assoluta. Fin da quando ha iniziato ad insegnare diritto penale, ha sostenuto che la vita è la cosa più importante e che il resto viene dopo, il resto si può sempre comporre. Questa era la sua posizione. A noi era stata imposta un’altra posizione, e non ho trovato finora ragioni per cambiarla: un cedimento al ricatto delle Brigate rosse, il riconoscimento politico del terrorismo, avrebbe significato alimentarlo, dimenticando quelli che combattevano contro il terrorismo e chi era caduto in via Fani, chi continuava ad essere colpito. Oppure passare ad un sistema di repressione analogo a quello che ha caratterizzato la lotta al terrorismo in altri Paesi europei: considerare cioè il terrorista un nemico da eliminare, da uccidere. L’Italia ha sconfitto il terrorismo rispettando la Costituzione. Ne “L’ape e il comunista”, un libro che ha pubblicato i documenti del “Collettivo dei prigionieri comunisti delle Br”, in carcere con Renato Curcio, relativi agli anni 1979/80, ho letto che la trattativa non faceva parte della strategia delle Br e che “la fine di Moro ha aperto la crisi più acuta nella Dc partito-regime, e quindi nello Stato”; che “la distruzione della Dc è un momento essenziale della distruzione dello Stato”. Quando ho portato il saluto della Dc al Congresso del Psi, nei giorni in cui a Torino era in corso il processo a Curcio e ad altri brigatisti, quel congresso ha approvato le conclusioni di Craxi contro il ricatto delle Br... Nel 2008 ho partecipato ad un convegno, organizzato dai socialisti Acquaviva e Covatta, con questo titolo: “Fermezza e trattativa trent’anni dopo”. Sono passati altri dieci anni dai drammatici giorni del 1978, ed io potrei ripetere, dopo aver letto l’intervista di Gennaro Acquaviva, ciò che ho detto in quell’occasione. Rispetto l’iniziativa socialista di avviare una trattativa per salvare la vita di Moro. Ma noto che il processo Metropoli, riferendosi a quella trattativa, parla di un tentativo fallito, di una vicenda comunque emersa dall’ombra quando Moro era già stato ucciso. Eppure Signorile, coinvolto in quella vicenda, ripete: tutti sapevano, riferendosi però a persone che non ci sono più».

Secondo te si è fatto tutto per salvare Moro? Perché ho visto anche da parte di democristiani come Corrado Guerzoni ed altri dei giudizi molto sferzanti, specie su Andreotti...
«Sicuramente Moro aveva nemici anche nell’apparato dello Stato e forse anche per questo non si è fatto tutto, come se fosse ormai inutile. Ma noi abbiamo fatto tutto quello che siamo stati capaci di fare per salvare Moro. Nell’ultima lettera a sua moglie Anna, Zaccagnini scrive dall’ospedale: “Tra poco incontro Aldo e gli andrò incontro per abbracciarlo... io mi sono chiesto tante volte se potevo fare qualcosa di più”, e aggiunge: “Qualcosa di onesto”. E poi: “Se Aldo fosse stato con noi... avremmo trovato una strada che io non ho trovato”. Una posizione di assoluta trasparenza ed obiettività; Zaccagnini aveva letto con il cuore straziato le lettere di Moro e non nega di aver perso quella battaglia.

Tuttavia per comprendere il “no al riconoscimento del terrorismo” (questa è stata la fermezza della Dc), bisogna ricordare l’Italia degli anni di piombo, delle stragi nere e del terrorismo rosso, delle Br, di Prima Linea, degli Autonomi: bisogna ricordare l’elenco delle vittime innocenti, la cronaca quotidiana delle uccisioni, degli attentati, dei gambizzati a Bologna e Milano, a Torino e Genova, a Padova e Napoli.
Il problema, rimasto per noi senza soluzione, era come avere un rapporto con le Br che non comportasse il riconoscimento politico del terrorismo. Una volta i brigatisti hanno cercato un contatto telefonico “con il portavoce della Dc”. Avevo spiegato alla tv le ragioni della Dc, e mi convocarono attraverso il canale di Charitas. Cosa avrebbero chiesto? Cosa avrei potuto rispondere? Zaccagnini mi incoraggiò: ”Fatti guidare dalla tua coscienza”. Attesi un pomeriggio, per due volte si accertarono che io ci fossi, ma nessuno venne al telefono... Un’altra volta, la delegazione della Dc, dopo aver emesso un comunicato che si concludeva: “La Repubblica, con le forze che la esprimono, dinanzi alla libertà di Moro saprà certamente trovare forme di generosità e di clemenza coerenti con la Costituzione”, restò in attesa di un segnale, ma le Br restarono in silenzio. Quella dichiarazione scatenò invece aspre polemiche: “Allora avete accettato la trattativa!”. Ed Almirante portò quella accusa nel dibattito parlamentare, come prova del nostro cedimento al ricatto delle Br. Da un libro uscito di recente (“Brigate rosse, un diario politico”, ed. DeriveApprodi), che contiene la ricostruzione di quegli anni dalla parte delle Brigate rosse, sappiamo che la trattativa su Moro per i terroristi era strumentale; che l’obiettivo era scardinare lo Stato democratico. I brigatisti ripropongono, quarant’anni dopo, gli argomenti resi pubblici, nel 1980, da Curcio e dai “prigionieri comunisti”».

Cosa doveva accadere il 9 maggio e perché secondo te lo hanno ucciso proprio il giorno in cui la Democrazia cristiana stava per fare un passo ulteriore?
«Il passo ulteriore... non so cosa potesse significare. Dal “processo Metropoli” è emerso che Moretti ha forzato i tempi di una decisione che era stata assunta, forse per evitare che si rafforzasse il dissenso di Morucci e di Faranda... Quella decisione avrebbe potuto essere ridefinita dopo la Direzione della Democrazia cristiana? In realtà Aldo Moro era stato ucciso quella mattina, prima che la Direzione della Dc iniziasse».

Facciamo un passo indietro. Il Pci e il governo Andreotti.
«C’era molta tensione alla vigilia del voto di fiducia. Il Pci era irritato per la composizione del governo e quella mattina stava per decidere come votare. La sera prima si erano incontrati Luciano Barca e un consigliere di Moro, Tullio Ancora. Barca non riuscì a comunicare a Berlinguer il contenuto di quel colloquio prima che fosse raggiunto dalla notizia sul rapimento di Moro. Il presidente della Dc, consapevole del disagio comunista, aveva mandato a dire a Berlinguer: “Non tronchiamo i rapporti, questo è un passaggio difficile, io capisco le vostre difficoltà, voi capite le difficoltà della Dc. Ma io continuerò a mantenere le posizioni che ho assunto”. Probabilmente senza la strage di via Fani e senza il sequestro di Moro da parte delle Brigate rosse il gruppo parlamentare comunista si sarebbe astenuto sulla fiducia al governo Andreotti. Cosa sarebbe accaduto? Nessuno lo può prevedere; il modo con cui si era conclusa la vicenda del governo riapriva la discussione sulla “solidarietà nazionale”. Il Partito comunista aveva le sue ragioni per non restare in mezzo al guado; attendeva una risposta da Moro, che si era trovato in difficoltà all’interno del partito proprio sulla formazione del governo. Anche Zaccagnini aveva spinto, con convinzione, perché si formasse un governo diverso, e l’aggravarsi della situazione politica lo ha costretto a restare alla guida del partito».

Zaccagnini e Moro chi avrebbero voluto in quel governo che poi invece ebbe quella composizione così continuista?
«Ci dovevano essere alcuni ministri indicati dagli indipendenti di sinistra per rendere esplicito che dal “governo delle astensioni” si faceva un passo verso una presenza più significativa della sinistra “nel governo”. Ma una parte della Democrazia cristiana non era d’accordo su quel passo, su quella svolta. E la crisi restò aperta».

Cossiga è un personaggio shakespeariano...
«Cossiga nelle sue memorie mi tratta molto male, anche se eravamo stati molto amici. Penso lo abbia fatto perché a qualche sua intemperanza verbale avevo risposto con lo stesso tono. Era un personaggio di grande cultura, di grande intelligenza, ma instabile nelle posizioni che assumeva. Era un grande amico di Moro ma in quella circostanza aveva attorno a sé personaggi che non erano amici di Moro, che lo ritenevano vittima della sua politica. Può sorprendere che dopo questa vicenda, dopo le dimissioni da ministro degli Interni, sia diventato presidente della Repubblica: i parlamentari lo conoscevano ma lo stimavano. La politica, quando diventa storia, è fatta dagli uomini, e si porta dietro non tanto una teorica e astratta razionalità, ma la fragile e concreta razionalità e coerenza degli uomini».

Gelli però con Andreotti aveva dei rapporti.
«La filosofia di Andreotti era molto particolare: in fondo siamo tutti peccatori. Non era un personaggio votato all’intransigenza, e aveva un’idea del potere che coincideva con la sua celebre definizione: il potere logora chi non ce l’ha. A mio parere una delle principali ragioni che ha incrinato la credibilità della Democrazia cristiana è stata proprio quella di affidare al potere il compito di riprodurre sé stesso».

Molti dei protagonisti di quella stagione della quale tu sei stato protagonista non ci sono più. Chi ti manca di più?
«Se guardo alle esperienze che abbiamo avuto in comune penso a due persone diversissime: Carlo Donat-Cattin e Benigno Zaccagnini. Ho iniziato la mia esperienza politica con Donat-Cattin: aveva un temperamento politico diverso dal mio, aveva una irruenza che io non ho mai avuto e una tenacia che probabilmente io non ho. Se consideriamo la politica come uno scontro continuo — ”una guerra condotta con altre armi” — potremmo dire che Zaccagnini non era fatto per la politica. Amava ascoltare, più che parlare, aveva uno straordinario senso della solidarietà. Aveva il fascino della semplicità e della coerenza. Entusiasmava i giovani. Signorile ha ironizzato sul suo silenzio nell’incontro delle delegazioni Dc-Psi; avrebbe dovuto chiedersi: cosa poteva dire in quella situazione? Quando è andato da Craxi per essere informato sulle intenzioni dei socialisti, è tornato senza nulla. Zaccagnini era di una trasparenza e di una lealtà assoluta. Stava per lasciare la politica, quando divenne Segretario del partito su sollecitazione di Moro. E toccò proprio a lui affrontare la prova politica più dura...».

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