Non ho conosciuto davvero Franco Calamida, l’ho solo incontrato – credo a casa di Piero Basso e attraverso l’Associazione Costituzione Beni Comuni. E non ho mai dedicato una lettera d’addio se non a persone che avevo nella vita almeno per qualche aspetto conosciuto bene. Ma il ricordo che ne ha pubblicato il Manifesto del 16 giugno scorso, a firma dei principali esponenti di questa Associazione, non è solo toccante. Almeno in me, ha smosso strati e strati di questioni dolenti, le risposte alle quali molti di noi da molto tempo vanno cercando, senza (che io sappia) trovare risposte vere, risposte profonde se non definitive. Già: uno degli ultimi «rivoluzionari di professione» … «la parola aveva un senso nobile allora, e non evocava violenza, ma il coraggio di rischiare, di pensare di cambiare il mondo e misurare le proprie idee tra le persone con cui lavoravi o studiavi».
Ecco: “nobile” è l’aggettivo che più mi ha colpito. “Nobile” è quello che meglio si attaglia al tono di quella rievocazione, come ai suoi stessi autori, i compagni di strada: a coloro che sono rimasti fedeli agli ideali di giovinezza, senza (che io sappia) irrigidirli in un’ideologia. E scrivo con incertezza, eppure li ho visti cercare nuovi modi di incarnare quegli ideali, modi attenti alle esigenze dell’ora, spesso drammatico: alle sofferenze vere del presente, nel suo orizzonte più largo come in quello più vicino, quasi evangelici samaritani.
EMIGRAZIONE E SVILUPPO
Dai convegni sull’emigrazione e il mondo globale alla resistenza alle fiumane fangose di opacità e corruzione sempre rovesciate anche qui, in questa loro e nostra Milano, da uno sviluppo mai sostenibile, nell’intreccio mai sciolto fra affari e politica. Come un “ricercatore” – anche di unità, nel mondo tanto diviso delle sinistre “alternative” – gli amici ricordano Franco Calamida; e anche, in questa ricerca (“cinquant’anni di vita politica e di passaggi sofferti fra unificazioni e divisioni nella sinistra rivoluzionaria”), come un uomo «gentile, tollerante, portatore di dubbi, conviviale».
Ogni anima che si alza e accenna a un ideale, anche se questo la costringesse a lasciare incompiute le sue frasi, come accade al gran Pieter Peeperkorn de La montagna incantata, è in un senso “rivoluzionaria”: in faccia al conformismo della realtà e degli ingranaggi che stritolano tutto quello che assomiglia alla vela di un’idea, o allo skyline del Regno dei Fini, o al sogno di vera gloria di un ventenne. Ogni anche impotente sconcerto di fronte al conformismo della coscienza cinica è “rivoluzionario”, piaccia o no ai Walter Siti che alla meditazione manniana sulla nobiltà preferiscono Céline e i suoi epigoni. Tanto più “rivoluzionaria” la solitudine di uno che rinuncia a una brillante carriera di ingegnere per uno stipendio da operaio, e per di più nel «rispetto per le istituzioni, dal Consiglio comunale al Parlamento».
Ma molto migliore aggettivo, meno indeterminato e ambiguo che “rivoluzionario”, per anime come questa, è “nobile”. Nobiltà dello spirito, appunto: perché cos’altro è una fede che è sola «sostanza di cose sperate», fede senza più dogmi, quando tenta di trattenere l’idea del mondo come dovrebbe essere, in faccia al mondo com’è, e che ti ride in faccia?
E allora, le questioni dolenti? Appunto. È solo sostanza di cose sperate, quella fede? O non vuol anche farsi «argomento delle non parventi», prova delle cose che non si vedono, non si vedono ancora, non si vedono mai – un po’ più di giustizia, i beni di questo mondo un po’ meglio condivisi? Eccolo il nodo dolente, che i filosofi non hanno saputo sciogliere – ancora.
CHI CREDE NELLA GIUSTIZIA
Per forza chi crede nella giustizia deve trovare argomenti alla speranza di realizzarle almeno un po’ queste cose invisibili, una vita che valga la pena di vivere per tutti e non solo per pochi, una chance di felicità anche per i ventenni. Argomenti a riprova che è possibile veramente trasformare l’ideale in reale e i valori in beni di questo mondo – almeno un po’. Avere argomenti a riprova di una verità – fino a prova contraria – è ciò che più si avvicina ad avere conoscenza. La fede deve farsi conoscenza. Ma appena ci prova, rischia di farsi lei stessa argomento di cose invisibili. E così diventa mera petizione di principio: ideologia. Facciamo un esempio. Vogliamo tradurre la giustizia (un valore) in un bene che ne realizzi un po’: ad esempio l’acqua bene comune, ossia la gestione pubblica dell’acqua. Bene: mentre non dubitiamo l’acqua, così preziosa per la vita, debba in una città giusta essere accessibile a ciascuno nella misura necessaria senza sprechi e senza latrocini (verità di principio o verità assiologica, che ci pare evidente), non è affatto evidente che la realizzazione di questo valore stia nella gestione pubblica, e non privata, dell’acqua. A volte sembra vero il contrario, purtroppo (se si pensa allo stato disperante degli acquedotti nazionali). Ma è solo un povero piccolo esempio della relazione fra i valori e i beni che in parte li realizzano. Già: quello che eleva una fede non terrena, che altra prova non ha che esser vissuta, alla sua ineffabile purezza (il divino è inconoscibile e non sopporta dottrine, dogmi), abbassa e appiattisce una fede terrena in una specie di idolatria di dubbie verità. È questo il paradosso dei valori, che duole irrisolto da tutta la modernità – e ha perduto la sinistra.
IL CACCIAVITE DI ENRICO LETTA
Ma in fondo lo conosciamo tutti bene: è il problema dell’anima e del cacciavite, così icasticamente riassunto da Enrico Letta. Ovvero: certo che la fede dell’anima deve farsi conoscenza, ma per evitare l’idolatria – prendere un bene per un valore – deve capire la natura limitata e strumentale dei beni, la loro natura di mezzi. Importantissimi, e da discutere con la ragionevolezza che unisce, non coi dogmi che dividono.
E questo non vuol dire che le questioni serie siano solo questioni tecniche. Vuol dire che il maggior peccato della sinistra è stato proprio cercare fondamento non nei valori universali che voleva difendere, ma in strane divinità, dubbie e feroci, per colmo di stranezza credute forze della realtà. La storia, ad esempio, quando non la necessità o lo sviluppo. Ma così si è barattata l’etica con la pseudoscienza, e si è perduta l’anima. Questo, io credo, Franco Calamida lo aveva capito benissimo.
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