Nelle nuove posizioni della sinistra intellettuale, della sinistra inclusiva, quella attenta alle questioni di genere e agli studi post coloniali, quella dei diritti Lgbtqia+ e contro ogni forma di razzismo sistemico, quella che lotta per la fine del patriarcato e del maschile sovraesteso in grammatica, insomma nelle posizioni che ora sembrano tenere il campo con qualche attitudine ricattatoria, sentivo da tempo qualcosa di sottilmente inquietante, pur essendo d’accordo con (quasi) tutte le sue rivendicazioni: come quando in una musica percepisci una serie di dissonanze e non sapresti dire se si tratta di un esperimento interessante o di uno strumento mal suonato.
Prima con la guerra in Ucraina, e ora con la campagna elettorale, mi pare di aver fatto qualche passo avanti e di aver capito un po’ di più, per cui provo a spiegarmi.
La storia è presto fatta: si parte con la “French Theory” nelle università americane, dopo le famose conferenze di Jacques Derrida a Yale dove insegnava Paul De Man; con Derrida (siamo tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta del secolo scorso) entrano nel circolo della cultura universitaria americana anche Michel Foucault e Jacques Lacan, due eretici del marxismo e della psicanalisi (cui si aggiunge, più tardi, perfino un po’ del Gramsci della “egemonia culturale”).
Nei quarant’anni successivi la teoria esce dal nido elitario delle università e si immette nel calderone della cultura di massa, o meglio nella “massa colta” del middlebrow. Qui avviene l’ibridazione più curiosa: il decostruzionismo della French Theory entra in contatto con l’attivismo politico militante.
Mentre in origine (all’ombra di Friedrich Nietzsche e Martin Heidegger) si puntava a decostruire i concetti classici della metafisica filosofica, e al limite ogni concetto che potesse apparire forte e stabile, vedendone gli impliciti presupposti linguistici come sintomi di un qualche postulato psicologico o sociale non dichiarato, ora si comincia a usare la decostruzione soprattutto per lottare contro i pregiudizi nascosti e le ingiustizie talmente fossili da risultare invisibili.
Si vuole decostruire il patriarcato con la sua implicita violenza sulle donne, si vuole decostruire l’occidente coi suoi peccati imperialisti, si vuole decostruire il vecchio desiderio sessuale con la sua sicurezza che ai nomi corrispondano cose definite una volta per tutte («il n’y a pas de rapport sexuel», diceva Lacan).
Trasportato in Italia (siamo già negli anni Dieci di questo secolo) l’attivismo si incontra con l’impronunciabilità ormai conclamata della parola rivoluzione; al punto che la decostruzione sembra prenderne il posto, potendo contare su un regime “fluido” che non allarma nessuno e su un lasso di realizzazione secolare che non necessita stringenti verifiche. Si tratta di un tentativo, verso cui ho il massimo rispetto, di non lasciar cadere la speranza nel cambiamento (in un botta-e-risposta epistolare con Alessandro Giammei mi è venuto di definirlo «un nuovo modo di sperare»).
Senza speranza nessun giovane può sopravvivere; e forse il mio disagio nasce proprio dalla mia vecchiaia, dal mio aver fatto il callo alla disperazione e dal mio restare legato a un marxismo e a un freudismo ormai fossili. Ma qualche osservazione critica mi permetto di avanzarla comunque.
Forse tra decostruzione e inclusività, o tra decostruzione e diritti, le cose non vanno così lisce, dato che i diritti presuppongono delle categorie e dunque anche queste categorie dovrebbero essere decostruite.
Nel rivendicare i diritti delle minoranze, la pratica ci ha mostrato come queste minoranze diventino sempre più esigue e parcellizzate (le donne, i vegani, i disabili, i non binary, gli psichicamente fragili, le persone transgender e quelle a metà del guado, le persone transgender che appartengono a enti religiosi, ecc.); il meccanismo produce scissione, non c’è unanimità nell’identificazione delle vittime (i nevrotici ossessivi? I musulmani omofobi arrivati coi barconi? Una trans che picchia il proprio cane?). Che cosa dev’essere difeso, che cosa giustificato?
I “diritti”, lasciati così da soli, dividono all’infinito invece che unire, ognuno sventola la propria bandiera identitaria. La teoria dell’intersezionalità fa quello che può, ma una “scala intersezionale del privilegio” finisce per fissare priorità e lasciar fuori quel che forse conta di più. Proviamo allora a chiederci che cosa viene rimosso ed escluso da tutta questa smania di includere.
Per questo, all’inizio, ho parlato dell’invasione russa in Ucraina: mi ha stupito che questa cultura decostruzionista sia stata così silenziosa di fronte a una guerra basata sul diritto del più forte. Forse la prima cosa che questa cultura rimuove è proprio la forza, o meglio i rapporti di forza. Se il Potere è ovunque, come decostruzionismo vuole, e se il Potere si annida nel linguaggio (già lo sapeva il vecchio Manzoni), chi decostruisce non ha ruolo quando le parole tacciono e parlano le armi; forse si sono troppo frettolosamente rubricati i rapporti di forze come “una cosa da maschi”.
Ma che c’entra la campagna elettorale? Il partito maggiore della sinistra, una volta consegnata l’economia agli automatismi del capitalismo finanziario, ha creduto che tutto si potesse risolvere con la cultura, ribaltando il ribaltamento marxiano, e negli ultimi anni si è ibridato con la cultura della decostruzione, che a sua volta si è confusa con la cultura dei diritti.
Una sfumatura dello snobismo radicale ed elitario che questa cultura eredita dalle origini si è riverberata sul Pd, facendo tutt’uno con il percorso sociologico che ha portato il Pd ad essere il partito dei centri e della classe media invece che degli operai e delle campagne. E offrendo buon gioco alle destre nell’ironizzare sulle proposte “fighette” che vengono da sinistra.
Ma c’è forse qualcosa di ancora più grave: se il vero nemico, il vero Moloch da decostruire, è il Passato che si è incrostato nell’ingiustizia non dichiarata e nemmeno del tutto percepita, se il dovere progressista sta nel demistificare quel che è dato come ovvio, questo vuol dire lasciare in mano alle destre un tema formidabile come quello della Tradizione. Che vuol dire anche classicità, archetipi, inconscio; che vuol dire anche disciplina e gerarchia; che vuol dire anche esoterismo, e non tutto l’esoterismo è stato di destra.
Le femministe radicali americane si richiamano alla science fiction, e non siamo dalle parti del Signore degli anelli. Sarebbe divertente, oltre che istruttivo, analizzare quanto lo gnosticismo latente in un film come Matrix dei fratelli Wachowski (ora sorelle, in quanto entrambe/entrambi transgender) abbia fecondato sia l’immaginario di destra che di sinistra. Non basta certo qualche passeggiata etimologica di marca heideggeriana nei boschi della lingua a trascegliere dalla Tradizione cattiva una erratica Tradizione buona. Fatto sta che, chissà quanto consapevolmente, perfino Salvini nel suo “credo” elettorale si richiama alla tradizione come “forza costruttiva”.
Tutta la campagna elettorale, finora, si è giocata su un’opposizione semplice: la destra mostra quanto la sinistra sia ridicola, e la sinistra mostra quanto la destra sia pericolosa. Si sarebbe benissimo potuta impostare al contrario; non è ridicolo Berlusconi col suo milione di alberi? Non lo è Salvini che posta sul suo Instagram ogni ragazzo nero fuori di testa? Non lo è Meloni col suo imbarazzo per la fiamma tricolore? E non è pericolosa la sinistra, se continua a pensare sé stessa come unica bilancia istituzionale?
Il mondo fuori esiste, non permetterà così facilmente che un paese come l’Italia imbocchi una deriva autoritaria. Giorgia Meloni, astuta ironica appassionata com’è, si giocherà la carta della conservatrice e nel farlo spererà di risultare credibile; si formerà, come sempre accade, qualcosa alla sua destra. Certo la parola “naturale” mal si adatta a un’istituzione eminentemente culturale come la famiglia, certo elogiare sui social un imprenditore che ha regalato 500 euro a ogni suo dipendente non dà una grande idea del progetto economico, certo il suo patriottismo la metterà in rotta di collisione con molti in Europa.
Ma di certi temi di fondo bisognerà pur discutere senza demonizzare: che cosa fa di una famiglia una famiglia, chi è uomo e chi è donna secondo la società, che rapporto ci dev’essere tra sfruttati e sfruttatori, per che cosa vale la pena di disubbidire alle leggi, come si affronta la crisi demografica, quali sono i vantaggi e gli svantaggi del melting pot, che significato ha l’atlantismo nei nuovi equilibri geopolitici.
Io, per quel niente che vale, voterò Pd: sperando che da primo partito di opposizione possa ripensare alla propria natura, senza pasticci che forzino il normale andamento democratico. Il campo largo si è diviso e spezzettato, ognuno con la sua bandierina identitaria, incapace di fare fronte comune nel momento decisivo dei rapporti di forza. Speriamo che Letta, o chi per lui, si renda conto che, sotto il tafazzismo di superficie, lavorava un più profondo (e di più lontana origine) darsi la zappa sui piedi.
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