La regola diffusa ormai è quella di incensare una persona defunta con una sorta di celebrazione post mortem tanto acritica quanto figlia di quella cultura ipocrita e falsamente buonista ormai imperante. Le azioni compiute in vita, belle o brutte, restano tali anche dopo la morte e non cambiano in virtù del trapasso. Gli atti degli scomparsi Pinochet, Franco, Mussolini, Hitler, ma anche Craxi o Andreotti, restano tali e quali prima e dopo la loro dipartita. Perciò, in questo momento di lutto, pur con il dovuto rispetto per i suoi cari, consideriamo legittimo affermare che Napolitano abbia svolto un ruolo negativo per il Paese e soprattutto per i lavoratori.
L’assenza di punti di riferimento gioca brutti scherzi. Quando non esistono argomentazioni e letture della realtà, la soluzione migliore è quella di rivolgersi al passato esaltando l’operato di quanti dovrebbero essere invece ricordati criticamente menzionando fatti storici e documentandone gli scritti.
Inserire nel pantheon della storia comunista i “miglioristi” è un esercizio diffuso negli ultimi anni. Lo fu già all’epoca della scomparsa di Emanuele Macaluso, senza ricordarne il sostegno al Governo Milazzo della Regione Sicilia nei primi anni Sessanta con l’appoggio dei monarchici e del Pci, fino alla direzione del quotidiano “il Riformista”, giornale di riferimento della destra del centro sinistra oggi confluita in buona parte in Italia Viva. Questa corrente del Partito comunista, dai due guidata, si fece promotrice dell’idea che il capitalismo potesse essere "migliorato" senza cambiamenti importanti ed è stata madrina di tutte le svolte e involuzioni a partire dagli anni Sessanta e Settanta.
All’interno del Pci Napolitano era stato il primo a ritenere esaurito il ruolo dei comunisti, non solo a Est, come ormai era convinto anche Berlinguer, ma anche a Ovest. L’unico sbocco possibile per il Pci doveva essere non la berlingueriana terza via, ma la socialdemocrazia sotto l’ombrello atlantico e in piena compatibilità con il capitalismo. Tuttavia la crisi profonda delle socialdemocrazie europee lo indusse negli anni successivi ad abbandonarla per aderire al liberismo.
Con la sua corrente, Napolitano ha promosso lo scioglimento del più grande partito comunista d’Occidente. Aveva infatti proposto che cambiasse nome – e con ciò connotati – molto prima di Achille Occhetto e si era sempre opposto alla resistenza di Berlinguer contro questa deriva, come era stato assai tiepido verso il movimento pacifista che il Pci a inizio anni Ottanta pur con molte contraddizioni sostenne quando gli Usa decisero di stanziare missili nucleari a Comiso.
Quando nel 1984 il Pci promosse un referendum per l’abrogazione del decreto di San Valentino, con cui Craxi aveva dato inizio alla spallata alla scala mobile, Napolitano, pur non esponendosi pubblicamente per mera disciplina di partito, fu favorevole a quell’attacco contro il mondo del lavoro, di cui paghiamo le conseguenze ancora oggi con i nostri salari falcidiati dall’inflazione. Il suo mancato impegno fu perciò, insieme a quello di vasti settori della Cgil, determinante per la sconfitta di misura in quel referendum che avrebbe cambiato la storia del sindacato in Italia aprendo la strada alla stagione concertativa.
Senza timore di smentita e con il senno di poi possiamo asserire che la vittoria politica dei miglioristi sia stata indiscussa.
Se volessimo delle prove basterebbe ricordare le critiche a chi si opponeva alla pacificazione nei luoghi di lavoro a unico vantaggio delle parti datoriali o a quanti si opposero all’installazione dei missili Usa e Nato a Comiso nei primi anni Ottanta, senza dimenticare la svolta atlantica del decennio precedente quando il segretario del Pci sostenne di sentirsi più sicuro sotto l’ombrello della Alleanza Atlantica e che Napolitano anticipò. Infatti quando divenne responsabile della commissione esteri del Partito costruì una linea di "piena e leale" solidarietà agli Stati Uniti d’America e alla Nato, tanto che Henry Kissinger, orchestratore di golpe in America Latina, ebbe in seguito modo di dichiarare che egli fosse “my favourite communist” (il mio comunista preferito).
Negli anni Sessanta Napolitano, da responsabile del Pci per il Mezzogiorno, ebbe posizioni di apertura all’allora governo di centrosinistra, contrastò i giovani del Sessantotto, prendendo le distanze da Pietro Ingrao ma anche da Luigi Longo che caldeggiava almeno l’ascolto di quelle istanze. Fu fermo oppositore di ogni ipotesi di radicalità all’interno del partito e dal compromesso storico assunse soprattutto la politica di austerità e dei sacrifici che accompagnarono la svolta dell’Eur fino al Governo di unità nazionale che contribuì alla perdita di appeal del Pci.
Ma proprio la visione di politica estera di Napolitano divenne dirimente per la sua elezione alla presidenza della Repubblica. Fu del resto il primo dirigente del Pci accolto in visita negli Usa, quando agli altri comunisti era precluso recarsi in quei paraggi.
Allo scoppio della guerra del Golfo, quando il Pci ormai in fase di scioglimento, pur criticando Saddam Hussein, propendeva per una soluzione diversa dalla guerra, Napolitano si distinse mettendosi l’elmetto in testa e aderendo alla guerra senza se e senza ma.
Altra medaglia al suo petto fu il deciso sostegno dello Stato di Israele e il riconoscimento a quel paese di "una forte determinazione a raggiungere la pace”.
L’esaltazione di Giorgio Napolitano a reti unificate non è quindi casuale.
Con la liquidazione del Partito Comunista inizia l’ascesa di Giorgio Napolitano, da Presidente della Camera nel 1992 a Presidente della Repubblica, passando dal Ministero degli Interni nel governo Prodi (1996-1998), istituendo la detenzione amministrativa dei migranti (legge Turco-Napolitano).
Fu anche fra i più favorevoli alla devoluzione delle funzioni pubbliche al terzo settore e al mondo delle cooperative, presentate come modello solidale all’interno del capitalismo italiano, senza mai far parola sulle dinamiche di super sfruttamento all’ombra delle privatizzazioni e dei processi, innumerevoli, che hanno portato a svalorizzare prima il lavoro e poi a mandare in soffitta ogni forma di conflittualità sociale e di classe.
Sull’operato da Presidente della Repubblica potremmo dilungarci ma preferiamo limitarci a ricordare l’incarico a Matteo Renzi come Presidente del Consiglio dopo lo “stai sereno Letta” e la firma del Jobs Act, ma anche la firma del “Lodo Alfano” che escludeva i procedimenti penali a carico delle massime autorità dello Stato, poi dichiarato incostituzionale dalla Corte, e della legge sul “legittimo impedimento” che consentì a Berlusconi di evitare di comparire, con la scusa di impegni istituzionali, in alcuni processi, prolungando la loro durata fino alle prescrizioni di molti reati. In seguito anche questa legge fu parzialmente abrogata dalla Corte Costituzionale e successivamente bocciata a furor di popolo in un referendum.
Emblematico è anche il ruolo di interventista e non di garante che svolse nella vicenda della caduta del governo Berlusconi e della formazione del governo Monti nel 2011. Dieci giorni dopo una riunione tempestosa a Bruxelles, dove l’Italia era posta sotto attenzione per via dello spread, Napolitano nominò (casualmente?) Monti Senatore a vita. Nel frattempo vi furono molte pressioni sull’allora Governo di centro destra, valutazioni negative provenienti dagli Usa, lettere della Troika e comportamenti irridenti di Sarkozy e Merkel che indussero Berlusconi a dimettersi. Il nuovo premier, già pronto e fresco di nomina senatoriale, fu incaricato in un battibaleno e formò un governo che avrebbe taglieggiato pesantemente il welfare (fu il governo delle “riforme” Fornero). Un governo guidato da un banchiere e sostenuto da tutti i partiti, compresi quanti oggi hanno dato vita a Fratelli d’Italia.
In quella vicenda, come nel suo comportamento in generale, ha svolto il ruolo di tessitore di un rapporto fra l’Unione Europea, il Washington consensus – che è la teoria economica che giustifica i massacri sociali degli ultimi 30-40 anni – e la grande imprenditoria italiana.
Napolitano, non solo portò di fatto la mannaia della Troika ad abbattersi sui conti pubblici italiani, inaugurando una stagione di feroce austerità che, tra le altre cose, avrebbe tagliato ulteriormente la spesa per le pensioni, la sanità e l’istruzione, ma volle che la nostra Costituzione venisse sfigurata inserendovi il pareggio di bilancio, prescrizione che fa a pugni con gran parte dei contenuti sociali ed economici della nostra Carta. Ma fece anche altro e si accanì contro il ruolo relativamente autonomo dell’Italia in politica estera, favorendo la guerra in Libia con cui venne assassinato il presidente Gheddafi, aprendo la strada allo jihadismo, alla tratta dei migranti nei lager pagati da noi, e in generale a un decennio di violenze fratricide che ha portato quel paese al collasso, a proposito di articolo 11 della Costituzione.
Sono questi i grandi meriti con cui si è aggiudicato il primato della seconda elezione al Quirinale, e per cui oggi il mondo dei potenti lo osanna.
Ragioni sufficienti perché sia celebrato dai fautori dell’atlantismo ma non certo da noi.
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