Dal mandato "imperativo" del 1789 alla sovranità dell'Assemblea, ai partiti di massa fino alla loro crisi e al prevalere delle ragioni di "convenienza" del singolo parlamentare
Il principio del libero mandato parlamentare in un certo periodo della nostra storia si è intrecciato con le ragioni stesse della democrazia; oggi appare, invece, sfumare la dimensione costituzionale dell'istituto, sommersa da una cronaca avvilente. Ci si potrebbe ormai causticamente chiedere se sarà il malcostume del transfugismo a uccidere la libertà dei parlamentari e l'autonomia del parlamento.
Se si guarda alla reazione della politica, che si è espressa nell'irrigidimento dei regolamenti parlamentari e nella progressiva limitazione della libertà del singolo deputato a favore di un'assegnazione ai gruppi - in raccordo con il governo - dell'intera dialettica parlamentare, dovremmo concludere che la prospettiva da molti auspicata è quella di un mandato vincolato di partito. Al rapporto tra elettori ed eletto si andrebbe sostituendo un rapporto di stretta dipendenza tra eletto e partito di appartenenza.
Ma ha veramente esaurito il suo tempo il principio del libero mandato?
Per rispondere in modo argomentato alla domanda appare opportuno allontanarsi per un po' dalla contingenza e ricordare come nasce la richiesta di liberare i rappresentanti dai vincoli del mandato.
Il 30 giugno 1789 alcuni nobili, al fine di ostacolare le richieste del terzo stato, rifiutano di partecipare alle sedute dell'Assemblea Nazionale appellandosi ai mandati imperativi ricevuti ed esprimendo l'intenzione di tornare ai propri baliaggi per ottenere istruzioni. L'8 luglio l'Assemblea, accogliendo le tesi di Sieyès, pone fine al sistema feudale dei mandati imperativi, con la seguente motivazione: l'attività dell'Assemblea non può venire sospesa, né può essere indebolita la sua forza, a causa dell'assenza di alcuni suoi rappresentanti. Era chiara l'effettiva posta in gioco: la sopravvivenza stessa dell'Assemblea e le sorti della rivoluzione.
Il divieto di mandato imperativo venne dunque a porsi come una condizione necessaria per affermare la sovranità dell'assemblea, assicurando ad essa l'indispensabile autonomia; un'autonomia da far valere non solo nei confronti degli altri poteri, ma anche, contestualmente, dai propri elettori.
La natura chiaramente strumentale dell'istituto, posto a garanzia dell'Assemblea, lasciava però aperto un problema essenziale: quello della responsabilità del rappresentante. Furono i giacobini a porre la questione nei termini più chiari e radicali. Nel discorso «Sul governo rappresentativo» Robespierre fu il primo a evidenziare l'altra faccia della rappresentanza politica: la libertà dei rappresentanti non può andare disgiunta dalla questione della responsabilità dei suoi membri nei confronti "del popolo sovrano". I mandatari - tuonerà il rivoluzionario francese - devono rimanere «lontani sia dalle bufere della democrazia assoluta sia dalla perfida tranquillità del dispotismo rappresentativo».
Da allora la storia della rappresentanza politica, ed in essa del libero mandato, si è costantemente interrogata sul modo per tenere aperti i canali tra la società civile e i soggetti che la rappresentano.
Senza potersi soffermare su i diversi passaggi storici, basta qui rilevare come una cesura netta si è prodotta con l'avvento delle democrazie pluraliste. L'affermarsi del suffragio universale, facendo svanire il mito dell'omogeneità sociale, impose alla rappresentanza di dare voce alla divisione pluralistica della società.
Non ce l'avrebbe fatta la rappresentanza politica a sopravvivere a se stessa, se non fossero apparsi sul proscenio della storia i partiti politici di massa, perché per lungo tempo furono essi i grandi registi del gioco democratico. Fu grazie alla loro capacità di mediazione delle diverse istanze sociali entro la sfera istituzionale che si costruì lo Stato democratico e pluralista del Novecento.
L'impatto dei partiti di massa fu enorme. La loro forza attrattiva finì per assorbire per intero la rappresentanza, e fu così che il rapporto di rappresentanza, sino allora caratterizzato da due termini, l'elettore e l'eletto, venne mediato da un terzo, il partito. Non si trattava più di chiedersi se il mandato dovesse considerarsi libero o vincolato rispetto al "popolo sovrano". Ci si doveva più realisticamente chiedere se una qualche autonomia dei singoli parlamentari si poteva esprimere nei confronti dei partiti di appartenenza ovvero se si fosse venuto a definire un "mandato imperativo di partito".
Al riguardo due precisazioni appaiono determinanti.
In primo luogo, volgendosi al passato, non può esservi dubbio che la pretesa dei partiti di condizionare il mandato discendeva dalla straordinaria legittimazione sociale che essi avevano storicamente conquistato. Nessuno, infatti, poteva negare che i partiti rappresentassero realmente il mezzo attraverso cui i cittadini concorrevano a determinare la politica nazionale. Nessuno poteva affermare il carattere esclusivamente autoreferenziale dei partiti.
In secondo luogo, il forte condizionamento dei rispettivi partiti di appartenenza sui singoli parlamentari - la stringente "disciplina di partito" - è stata a lungo mitigata dall'essere questa, per lo più spontaneamente accolta, in ragione della visione politica collettiva. Una disciplina dettata da principi e ideali comuni, cui i singoli parlamentari aderivano e non solo ubbidivano. In queste condizioni, e fatte salve le sue patologie, può sostenersi che la disciplina di partito, anziché ostacolare, si sia posta, di fatto, al servizio della rappresentanza pluralistica della società.
Questo è stato vero almeno fin tanto che il parlamento è stato il luogo della rappresentanza politica effettiva, il teatro reale del compromesso e dell'unificazione delle politiche nazionali. Oggi non è più così.
Sono le condizioni storico-concrete a essere mutate. Assai diverse sono le interpretazioni del mutamento intervenuto, però nessuno nega la profondità delle trasformazioni in atto, che riguardano tutti e tre i soggetti del triangolo della rappresentanza (eletti, elettori, partiti).
Non c'è bisogno di inoltrarsi nella sterminata letteratura sulla crisi dei partiti per riconoscere che la posizione di questi entro il sistema della rappresentanza si è andata smarrendo. Così come è anche facilmente riscontrabile la parallela crisi dei rappresentanti, trasformati in leader senza popolo, se non malauguratamente in simboli del privilegio del potere dispotico. Né, infine, i rappresentati sono passati indenni attraversando la tempesta della storia, basta constatare il loro sempre maggior distacco dalla comunità politica.
Tutto ciò ha fatto venir meno le condizioni che avevano contrassegnato il rapporto elettori ed eletti, e quello tra elettori e partito, nell'Italia repubblicana. Non può dirsi però che siano venute meno, perciò solo, le due esigenze che abbiamo visto porsi a fondamento della libertà di mandato: da un lato le garanzie di autonomia dell'organo rappresentativo, dall'altro la necessità di far valere una responsabilità dei rappresentanti.
Il punto vero di caduta allora può essere individuato proprio in questa discrasia. Il permanere delle esigenze non più sorrette dalle condizioni storiche reali non può che portare a una scarsa tenuta delle logiche - ad una fragilità - dei mandati.
La disciplina di partito continua infatti a operare, sebbene su più esili fondamenta. Privato di un orizzonte ideale e della comunità di appartenenza, il singolo parlamentare continua a svolgere il suo mandato entro un organo politico ove rimane immutata la richiesta di disciplina, ed egli continuerà ad ubbidire, ma non più per adesione, semmai per convenienza. In ragione cioè di valutazioni tattiche del raggruppamento cui si parteggia, non più invece in nome di un disegno strategico, magari utopico, ma pur sempre in grado di conferire pathos civile ed ethos politico a scelte altrimenti solo freddamente razionali. Tanto più forte è la richiesta di disciplina da parte dei capigruppo, tanto meno sentita è l'esigenza di disciplinamento da parte degli eletti che operano in base ad una - magari legittima - convenienza politica del momento, che non impegna il domani. Questo spiega molto dell'esecrabile transfugismo.
Ma è alla crisi della rappresentanza politica che bisogna guardare. Credo sia giunto il tempo di adoperarsi per riattivare una dinamica alla nostra politica ormai smarrita e «senza qualità», dotando di senso il suo agire. Solo allora l'organizzazione del parlamento e, al suo interno, la disciplina dei parlamentari troverebbe una rinnovata ragione d'unità e rispetto.
Se si guarda alla reazione della politica, che si è espressa nell'irrigidimento dei regolamenti parlamentari e nella progressiva limitazione della libertà del singolo deputato a favore di un'assegnazione ai gruppi - in raccordo con il governo - dell'intera dialettica parlamentare, dovremmo concludere che la prospettiva da molti auspicata è quella di un mandato vincolato di partito. Al rapporto tra elettori ed eletto si andrebbe sostituendo un rapporto di stretta dipendenza tra eletto e partito di appartenenza.
Ma ha veramente esaurito il suo tempo il principio del libero mandato?
Per rispondere in modo argomentato alla domanda appare opportuno allontanarsi per un po' dalla contingenza e ricordare come nasce la richiesta di liberare i rappresentanti dai vincoli del mandato.
Il 30 giugno 1789 alcuni nobili, al fine di ostacolare le richieste del terzo stato, rifiutano di partecipare alle sedute dell'Assemblea Nazionale appellandosi ai mandati imperativi ricevuti ed esprimendo l'intenzione di tornare ai propri baliaggi per ottenere istruzioni. L'8 luglio l'Assemblea, accogliendo le tesi di Sieyès, pone fine al sistema feudale dei mandati imperativi, con la seguente motivazione: l'attività dell'Assemblea non può venire sospesa, né può essere indebolita la sua forza, a causa dell'assenza di alcuni suoi rappresentanti. Era chiara l'effettiva posta in gioco: la sopravvivenza stessa dell'Assemblea e le sorti della rivoluzione.
Il divieto di mandato imperativo venne dunque a porsi come una condizione necessaria per affermare la sovranità dell'assemblea, assicurando ad essa l'indispensabile autonomia; un'autonomia da far valere non solo nei confronti degli altri poteri, ma anche, contestualmente, dai propri elettori.
La natura chiaramente strumentale dell'istituto, posto a garanzia dell'Assemblea, lasciava però aperto un problema essenziale: quello della responsabilità del rappresentante. Furono i giacobini a porre la questione nei termini più chiari e radicali. Nel discorso «Sul governo rappresentativo» Robespierre fu il primo a evidenziare l'altra faccia della rappresentanza politica: la libertà dei rappresentanti non può andare disgiunta dalla questione della responsabilità dei suoi membri nei confronti "del popolo sovrano". I mandatari - tuonerà il rivoluzionario francese - devono rimanere «lontani sia dalle bufere della democrazia assoluta sia dalla perfida tranquillità del dispotismo rappresentativo».
Da allora la storia della rappresentanza politica, ed in essa del libero mandato, si è costantemente interrogata sul modo per tenere aperti i canali tra la società civile e i soggetti che la rappresentano.
Senza potersi soffermare su i diversi passaggi storici, basta qui rilevare come una cesura netta si è prodotta con l'avvento delle democrazie pluraliste. L'affermarsi del suffragio universale, facendo svanire il mito dell'omogeneità sociale, impose alla rappresentanza di dare voce alla divisione pluralistica della società.
Non ce l'avrebbe fatta la rappresentanza politica a sopravvivere a se stessa, se non fossero apparsi sul proscenio della storia i partiti politici di massa, perché per lungo tempo furono essi i grandi registi del gioco democratico. Fu grazie alla loro capacità di mediazione delle diverse istanze sociali entro la sfera istituzionale che si costruì lo Stato democratico e pluralista del Novecento.
L'impatto dei partiti di massa fu enorme. La loro forza attrattiva finì per assorbire per intero la rappresentanza, e fu così che il rapporto di rappresentanza, sino allora caratterizzato da due termini, l'elettore e l'eletto, venne mediato da un terzo, il partito. Non si trattava più di chiedersi se il mandato dovesse considerarsi libero o vincolato rispetto al "popolo sovrano". Ci si doveva più realisticamente chiedere se una qualche autonomia dei singoli parlamentari si poteva esprimere nei confronti dei partiti di appartenenza ovvero se si fosse venuto a definire un "mandato imperativo di partito".
Al riguardo due precisazioni appaiono determinanti.
In primo luogo, volgendosi al passato, non può esservi dubbio che la pretesa dei partiti di condizionare il mandato discendeva dalla straordinaria legittimazione sociale che essi avevano storicamente conquistato. Nessuno, infatti, poteva negare che i partiti rappresentassero realmente il mezzo attraverso cui i cittadini concorrevano a determinare la politica nazionale. Nessuno poteva affermare il carattere esclusivamente autoreferenziale dei partiti.
In secondo luogo, il forte condizionamento dei rispettivi partiti di appartenenza sui singoli parlamentari - la stringente "disciplina di partito" - è stata a lungo mitigata dall'essere questa, per lo più spontaneamente accolta, in ragione della visione politica collettiva. Una disciplina dettata da principi e ideali comuni, cui i singoli parlamentari aderivano e non solo ubbidivano. In queste condizioni, e fatte salve le sue patologie, può sostenersi che la disciplina di partito, anziché ostacolare, si sia posta, di fatto, al servizio della rappresentanza pluralistica della società.
Questo è stato vero almeno fin tanto che il parlamento è stato il luogo della rappresentanza politica effettiva, il teatro reale del compromesso e dell'unificazione delle politiche nazionali. Oggi non è più così.
Sono le condizioni storico-concrete a essere mutate. Assai diverse sono le interpretazioni del mutamento intervenuto, però nessuno nega la profondità delle trasformazioni in atto, che riguardano tutti e tre i soggetti del triangolo della rappresentanza (eletti, elettori, partiti).
Non c'è bisogno di inoltrarsi nella sterminata letteratura sulla crisi dei partiti per riconoscere che la posizione di questi entro il sistema della rappresentanza si è andata smarrendo. Così come è anche facilmente riscontrabile la parallela crisi dei rappresentanti, trasformati in leader senza popolo, se non malauguratamente in simboli del privilegio del potere dispotico. Né, infine, i rappresentati sono passati indenni attraversando la tempesta della storia, basta constatare il loro sempre maggior distacco dalla comunità politica.
Tutto ciò ha fatto venir meno le condizioni che avevano contrassegnato il rapporto elettori ed eletti, e quello tra elettori e partito, nell'Italia repubblicana. Non può dirsi però che siano venute meno, perciò solo, le due esigenze che abbiamo visto porsi a fondamento della libertà di mandato: da un lato le garanzie di autonomia dell'organo rappresentativo, dall'altro la necessità di far valere una responsabilità dei rappresentanti.
Il punto vero di caduta allora può essere individuato proprio in questa discrasia. Il permanere delle esigenze non più sorrette dalle condizioni storiche reali non può che portare a una scarsa tenuta delle logiche - ad una fragilità - dei mandati.
La disciplina di partito continua infatti a operare, sebbene su più esili fondamenta. Privato di un orizzonte ideale e della comunità di appartenenza, il singolo parlamentare continua a svolgere il suo mandato entro un organo politico ove rimane immutata la richiesta di disciplina, ed egli continuerà ad ubbidire, ma non più per adesione, semmai per convenienza. In ragione cioè di valutazioni tattiche del raggruppamento cui si parteggia, non più invece in nome di un disegno strategico, magari utopico, ma pur sempre in grado di conferire pathos civile ed ethos politico a scelte altrimenti solo freddamente razionali. Tanto più forte è la richiesta di disciplina da parte dei capigruppo, tanto meno sentita è l'esigenza di disciplinamento da parte degli eletti che operano in base ad una - magari legittima - convenienza politica del momento, che non impegna il domani. Questo spiega molto dell'esecrabile transfugismo.
Ma è alla crisi della rappresentanza politica che bisogna guardare. Credo sia giunto il tempo di adoperarsi per riattivare una dinamica alla nostra politica ormai smarrita e «senza qualità», dotando di senso il suo agire. Solo allora l'organizzazione del parlamento e, al suo interno, la disciplina dei parlamentari troverebbe una rinnovata ragione d'unità e rispetto.
Nessun commento:
Posta un commento