giovedì 12 settembre 2013

IDEE E TEORIE POLITICHE. CURCIO. ROGGIERO - un'alternativa in cerca di autori. Intervista con M. Hardt, IL MANIFESTO, 10 settembre 2013

I movimenti sociali in Brasile e Turchia nascono, a differenza che nel Nord del pianeta, in un contesto di forte sviluppo economico. Ma forti sono i punti di contatto con quanto accade in Europa e Stati Uniti. Un'intervista con il teorico statunitense



Quando le lotte esplodono nei Brics. Allargando la definizione giornalistica a un paese come la Turchia, è questo il tema posto dalla «Comune di Gezi» e il movimento del passe livre in Brasile. Se il concetto di ciclo non è più utilizzabile nei termini classici, né dal punto di vista economico né da quello delle lotte, è però possibile parlare di un ciclo della soggettività delle lotte nella crisi? Quali sono tratti comuni e differenze rispetto alle insorgenze in Nord Africa, le acampadas o Occupy Wall Street? Comincia da qui la conversazione con Michael Hardt, autore con Toni Negri del noto trittico Impero, Moltitudine e Comune.
«Aggiungendo Turchia e Brasile alla catena di lotte cominciate nel 2011, si mettono in evidenza almeno due cose. In primo luogo, vi è una continuità nell'affermazione del comune della metropoli. A Gezi e nelle città brasiliane le lotte sono certamente anti-neoliberali, ma anche contro lo Stato, cioè contro il pubblico. Il progetto del governo turco di fare un centro commerciale con la forma di un forte militare del vecchio impero - che combinazione orrenda! - mostra che non c'è differenza tra pubblico e privato. Gezi, dunque, è anche l'affermazione del comune della città contro il privato e il pubblico. Nel caso brasiliano si può dire più o meno lo stesso. Questa è la continuità. L'elemento molto differente è, invece, il fatto che Turchia e Brasile sono società non in crisi economica. Abbiamo pensato i movimenti del 2011 nel quadro della crisi, mentre ora ci troviamo di fronte a lotte dentro economie in espansione. Non so ancora quali siano le conseguenze, però una lotta per la liberazione è in generale molto più potente e creativa in un momento non di crisi bensì di espansione sociale, come è avvenuto nel '68. Ciò rende molto interessante anche pensare a cosa viene dopo».

In Turchia, come sostieni, e forse ancor di più in Brasile le lotte prendono corpo in una situazione per certi versi rovesciata rispetto a quella europea e americana: non c'è recessione ma crescita. È forse innanzitutto la crisi di un modello di sviluppo e delle promesse di progresso a esso storicamente legate....In crisi è innanzitutto il modello di una modernizzazione a lungo termine. In crisi è anche il modello della sinistra, ormai finito, infatti le lotte stanno tentando di andare oltre. Si pone allora un'altra questione: tocca a noi articolare un'idea di altersviluppo. Si potrebbe avere una posizione anti-sviluppista, a me sembra invece che la scommessa stia nell'elaborazione di un'idea di sviluppo alternativo. In negativo è chiaro: l'altersviluppo non è definito dalla crescita economica, nel senso della produzione quantitativamente maggiore di merci. Rimane il problema di come elaborare l'altersviluppo in positivo. Nella formazione del vostro e nostro progetto - Commonware - sarebbe utile approfondire la questione e iniziare ad articolare un'idea di sviluppo.

Molti commentatori parlano di «movimenti del ceto medio», senza tener conto che quel ceto medio è - almeno in Europa e Nord America - ormai precarizzato e «impoverito». Nella crisi che hai descritto, il ceto medio - per esempio in Brasile - sembra nascere già declassato, è immediatamente, come sostengono altri studiosi, proletariato cognitivo metropolitano. Cosa ne pensi di questa lettura dei movimenti sociali?Non avviene solo in Brasile, ma anche per almeno una parte delle forze ribelli in Tunisia ed Egitto. Quando pariamo di un ceto medio declassato la lotta nasce dalla rabbia del perdere ciò che si aveva; invece, in queste società vedo una speranza frustrata. In Brasile, almeno per una parte della gioventù intellettualizzata, c'è una nuova e grandissima capacità, che però è bloccata. Quando prima evidenziavamo la differenza delle lotte in una società in crescita, la questione diventa centrale dal punto di vista della soggettività. Pensiamo ancora al Sessantotto: in Europa occidentale, in Cecoslovacchia, negli Stati Uniti, in Giappone, in Messico e in altri paesi c'era un'espansione soggettiva che abbatteva gli ostacoli della vecchia società. È quello che vedo nelle capacità intellettuali, soprattutto metropolitane, in Brasile: ci sono nuovi orizzonti bloccati da una vecchia società, con il suo governo e la sua ideologia di modernizzazione.

Rispetto a questa dimensione soggettiva in espansione, in che modo sono verificati o modificati i quattro tipi di soggettività che tu e Toni Negri avete individuato nel libro Questo non è un manifesto: l'uomo indebitato, l'uomo mediatizzato, l'uomo securizzato, l'uomo rappresentato?Credo che queste tipologie funzionino anche in queste società. La questione del debito assume forme differenti, ma non lontane da quanto avviene nel nord del pianete. Per questo penso che la figura dell'«uomo indebitato» funzioni. La questione della sicurezza, come disciplina di sorveglianza, è invece abbastanza ovvia. Il tema della rappresentanza è il più importante, è forse la continuità più forte: non solo dal 2011, ma fin da Seattle vi sono sperimentazioni di forme partecipative contro la rappresentanza. O, per dirla in altra maniera, per reinventare il concetto di leadership. A livello di semplificazione tale attitudine è riassunto dallo slogan: «non vogliamo leader». Al contempo dobbiamo tuttavia trovare una reinvenzione del concetto di leadership, o per dirla in termini semplici di una leadership della moltitudine. Il modo in cui criticherei questi quattro tipi di soggettività è nei loro limiti, cioè non bastano. Dovrebbero essere aggiunte altre soggettività che abbiamo pensato in questi anni, come il precario o lo sfruttato.

La soggettività dell'«uomo indebitato» andrebbe pensata in combinazione anche con la questione generazionale. In Brasile, per esempio, i giovani protagonisti delle lotte sono cresciuti nell'era Lula, in una società per certi versi post-neoliberale, o comunque si sono socializzati immediatamente dentro le promesse di espansione di cui parlavamo. In questo contesto, e il discorso può valere anche per la Turchia, il debito è soprattutto rispetto a quella promessa di progresso, oltre che come indebitamento morale nei confronti della famiglia. Se questo tipo di analisi funziona, i movimenti sono anche una rivolta contro questo tipo di assoggettamento attraverso il debito. Cosa ne pensi?È un'analisi interessante che cambia il concetto di debito. Lo articola meglio, fino a usarlo per sipegare cose diverse. In questa accezione, il debito non è solamente una questione monetaria, ma anche una forma sociale. Tuttavia, vanno articolate anche le differenze, per meglio capire gli elementi comuni. A livello monetario, ad esempio, il debito è differente nei vari paesi: in Africa occidentale c'è poco debito individuale, mentre il debito statale costringe tutti entro vincoli precisi. Se il concetto di debito funziona come filo conduttore tra le diverse lotte, bisogna modularlo per ogni società in maniera diversa. Qualcuno potrebbe allora dire che non è utile come concetto generale, io non credo: proverei invece a pensare il debito proprio in modi differenti e al tempo stesso come un filo conduttore.

Spesso viene affermato che i movimenti sociali e i conflitti che agiscono sono sono straordinari nella loro forma destituente e faticano o si bloccano nella loro forma costituente. Torna un problema di potere, oggi completamente da ripensare. Come ripensare allora il nesso tra forma destituente e costituente?La questione è centrale e i conflitti non forniscono ancora una risposta. È chiaro che adesso la cosa principale è sviluppare, creare e inventare un potere costituente. Dire comune e gestione del comune indica una guida concettuale, ma non afferma ancora niente all'altezza di una nuova forma. Pensare alla questione della soggettività invece che alla governance aiuta, perché le lotte sono già capaci non solamente di distruggere dispositivi di produzione di soggettività cattiva della crisi, ma anche di creare nuove soggettività. Questa è una strategia per non essere depressi: dobbiamo allora spostare il punto di vista alla questione della soggettività e riconoscere in che maniera una soggettività alternativa è già in produzione. Bifo ha spesso criticato sia i no global che le nuove lotte sostenendo che nel Sessantotto c'è stata una rivoluzione nei modi di vita e nelle soggettività sociali. Anche nel Sessantotto non è stata concepita una strategia costituente, però si è trattato di una nuova prospettiva sociale e di una nuova soggettività. Ecco, forse questo è già un risultato delle lotte attuali. Affinché dopo l'euforia delle lotte non arrivi la depressione, forse dobbiamo proprio cambiare punto di vista.

Torniamo alla questione dello sviluppo. In Comune, con Toni Negri avete criticato la dialettica tra modernità e anti-modernità per individuare le linee genealogiche di un'altermodernità. Seguendo quella griglia concenttuale, emerge la necessità di mettere a critica tanto la tradizione «sviluppista» della sinistra, quanto il suo opposto speculare, cioè un anti-sviluppismo che ha assunto le sembianze della decrescita. La sfida è dunque come pensare e praticare forme di organizzazione e sviluppo, o altersviluppo, fondate sul comune e sulla produzione di soggettività nel comune?È una sfida difficile. Effettivamente la questione dello sviluppo è parallela al gioco tra modernità e anti-modernità. Non siamo in pochi a essere insoddisfatti sia con il modernismo sviluppista ed estrattivista, sia con le proposte della decrescita. In America Latina, almeno nella mia esperienza, si pone questa necessità e anche la difficoltà di soddisfarla. Io non sono completamente convinto che quello di Lula sia stato un governo post-neoliberale, neanche per i governi cosiddetti progressisti in America Latina è stato facile abbandonare il neoliberalismo. Non dico certo che Lula o Chávez fossero dei neoliberali nascosti, il punto è che il compito di inventare un altro modello, altersviluppista, è difficile.

Forse potremmo dire che il governo Lula o altri governi latinoamericani erano ambigui, con elementi di continuità neoliberale e aperture alle istanze costituenti dei movimenti. Le lotte in Brasile sembrano essere basate su questa ambiguità, rovesciata in potenza espansiva della nuova composizione di classe...Mi sembra un buon punto di vista per capire la forza e l'origine delle mobilitazioni dentro questa ambiguità. Allora, storicamente dobbiamo pensare sia Lula che Chávez come momenti di transizione irrisolta. Le lotte perciò si collocano all'interno di questa transizione irrisolta.


BIOGRAFIA

Michael Hardt, Ph.D., born in Washington DC in 1960, is a political philosopher and literary theorist currently based at Duke University, North Carolina. After graduating with a degree in engineering, Michael Hardt pursued a career working for solar energy companies in Latin America, believing that providing alternative energy for third world countries was the best way for political activism. Nevertheless, after working for various NGOs in Central America, Michael Hardt decided to move back to the United States and pursue the study of possibilities for fundamental social and political changes in his own country. He received an MA in 1986 and a Ph.D. in 1990 in comparative literature at the University of Washington.
Michael Hardt's recent writings focus primarily on deciphering various aspects of globalization through the style of writing he defines as eclecticism – or bringing together in one place and connecting the ideas of various thinkers such as Karl Marx, Michel Foucault, Gilles Deleuze and Félix Guattari, Antonio Gramsci and Thomas Jefferson. His most famous works, Empire (2000) and Multitude: War and Democracy in the Age of Empire (2004) were written in collaboration with Antonio Negri and, according to some, became major events in political and critical theory. In 2009, these two works will be accompanied by the next part of the trilogy entitled Commonwealth. Michael Hardt is also the author of Gilles Deleuze: An Apprenticeship in Philosophy (1993), Labor of Dionysus: A Critique of the State Form (co-written with Antonio Negri, 1994), Radical Thought in Italy (coedited with Paolo Virno, 1996), and The Jameson Reader (with Kathi Weeks, 2000).
In Empire, Hardt and Negri offered the analysis of the functioning of current global power structures due to the transformation of imperialism and American dominance which happened after the Vietnam war. In this new state of affairs, the sovereignty of the nation state has declined and a new form of sovereignty was created, which they name the 'empire'. Following the poststructuralist model set by Gilles Deleuze and Félix Guattari, the empire is seen as being characterized by flexible, mobile boundaries and hybrid identities, as a decentered global network and a dynamic pattern of breaks and flows. In this network of coordinated collaboration, no nation state is really sovereign anymore and even the most powerful nation is not able to control the global order.
Therefore, the main question Hardt and Negri were interested in was to try to define the new authority that guarantees the long-term survival of capital after the demise of the nation state which functioned as its main guarantee of sustainability. According to them, this authority is the empire, with no center or the binary opposition of the outside and inside. Further on, Hardt and Negri formulate the most relevant task today to be the mapping of the geography of global power divisions where power is seen as transcendental and not transcendent. Only through this we might reach some of the possible answers to the question, 'what forms of contestation of power are possible today?' As Hardt and Negri remind us, the most dangerous thing would be to fight the enemy that no longer exists.
Upon completing Empire, Hardt and Negri felt the need to further elaborate on the subject or form of an alternative for which they believed remained at a poetic level in their previous analysis. Therefore, in Multitude: War and Democracy in the Age of Empire they examine the possibilities of cooperative resistance to the new global order. Hardt and Negri decided to work upon this question by rethinking the concept of the working class which they refuse to see as a homogeneous group. They formulate the need for a political party that will have a form of a horizontal network structure without a centralized point of decision or leadership. For this, they have found the inspiration in several organizations created after the 1960s in order to defend the rights of marginalized groups such as the black power, civil rights movement, homosexual and queer organizations. Established in such a way with no centralized power, these organizations raised the question of the possibilities of multiplicity to act together.
According to Hardt and Negri, the power of resistance is much stronger than what we might think and if held the right way, any tool can become one's weapon of revolution. Instead of trying to answer the question of what is to be done, they propose answering the question of what are people already doing, as a way to create a particular catalog of ideas for revolutionary practices. According to them, the main question about what democracy is today and what it could be in a global world will remain unanswered and in the realm of fantasy unless there is a subject that can fill it. Therefore, the new subject of democracy is exactly this entity they named 'multitude', and the democracy of the future can be saved only if there is a freedom to determine what are we to become.
In their third part of the trilogy entitled Commonwealth, Michael Hardt and Antonio Negri offer a framework in which to restore the meaning of the many corrupted concepts of political vocabulary. They will further elaborate their previous suggestions for the social change that can be obtained by using the current forms of class oppression by joining it with the necessity to rethink the common in communism in order for this change to actually happen.

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