Ma è più darwiniano essere di destra o di sinistra? La domanda può suonare bizzarra, ma non lo è per chi si interroga sulle basi evoluzionistiche del comportamento politico. Con quali esiti? È uscito negli Usa, per mano di Avi Tuschman, che si presenta come «esperto nelle radici nascoste dell’orientamento politico», il libro Our Political Nature (Prometheus Books) che intende svelare i tre istinti innati che presiederebbero alle scelte di voto. In base alle differenti attitudini verso il tribalismo, la diseguaglianza e l’altruismo, sarete di destra o di sinistra (il centro non è pervenuto). L’opera, che indaga le origini della partigianeria, è stata stroncata dall’«Economist» per le generalizzazioni infondate, le semplificazioni e… la partigianeria: «Darwin può aiutare a spiegare tante cose, ma non proprio tutto».
Non è di questo avviso Paul H. Rubin, della Emory University di Atlanta, autore nel 2002 de La politica secondo Darwin (Ibl Libri, 2009), secondo il quale la selezione naturale si nutre di disparità individuali e di maschi competitivi, e quindi gli esseri umani hanno una naturale tendenza all’autonomia. Ne discende che le ideologie egualitarie sono destinate al fallimento. Le differenze di produttività portano vantaggi all’intera società. Ecco perché le istituzioni del capitalismo (compresa la monogamia) renderebbero più felici, sane e attive le persone. Le relazioni fra individui si misurano sulla base dei costi e dei benefici, essendo influenzate dalle preferenze fissate dalla selezione naturale nel Paleolitico per massimizzare il successo riproduttivo dei portatori. Tranquilli: non è la politica secondo Darwin, è la politica secondo Rubin.
Che il mondo fosse fatto per capitani d’industria temprati dalla lotta nella libera competizione lo ipotizzava già Herbert Spencer nell’Ottocento. Lo ribadisce nel 1996 il giornalista Matt Ridley in Le origini della virtù (Ibl Libri, 2012), aggiungendo però che, sebbene la competizione tra geni egoisti sia la forza primaria dell’evoluzione, spesso ci conviene cooperare. L’altruismo, del resto, è la forma più raffinata di egoismo. Secondo Larry Arnhart, autore nel 2005 di Darwinian Conservatism (Imprint Academic), la selezione ha forgiato una natura umana che prevede la proprietà privata, il libero mercato senza intervento statale, le tradizioni morali e tutta l’agenda dei repubblicani Usa. Solo che gli umani sarebbero predisposti per natura anche a limitare la libertà altrui, perché così funzionava il loro cervello da cacciatori-raccoglitori abituati a vivere in piccoli gruppi «a somma zero». Socialisti e no-global approfittano di questa eredità e non capiscono che oggi viviamo in un mondo in crescita, a somma non-zero. Dunque, nota ancora Rubin, «il desiderio di punire o penalizzare i ricchi è fuorviante». Ad avviso di Albert Somit e Steven A. Peterson, la democrazia è ciò che di più innaturale possa esistere ma, siccome siamo sensibili all’ambiente in cui cresciamo, i sistemi liberaldemocratici sono quantomeno possibili, benché costantemente minacciati dai tribalismi. A detta di Peter Singer, nel suo classico Una sinistra darwiniana (Edizioni di Comunità, 2000), la sinistra del futuro dovrebbe accettare la naturalità della diseguaglianza, senza volerla sradicare come ha fatto finora, e al contempo valorizzare le altrettanto forti propensioni naturali alla cooperazione. Ma allora siamo più adatti al liberismo o al socialismo? Dipende, anche perché un adattamento dell’età della pietra non è detto sia utile oggi, in un mondo più complicato. Ne risulta una gran confusione. Alcuni troveranno queste tesi interessanti, altri discutibili, altri ancora assurde. Sarebbe un errore però rifiutarle perché sono per lo più di orientamento conservatore. Se una ricerca scientifica porta a risultati corroborati, pur se non ci piacciono vanno presi sul serio. Sarebbe futile anche reagire invocando lo spettro del «determinismo biologico». È acclarato che la mente umana nasce provvista di un ricco repertorio di competenze evolute nel corso della storia naturale, che influenzano le nostre scelte. I fattori biologici interagiscono con quelli, altrettanto importanti, di tipo sociale e culturale. Cercare i precursori naturali delle nostre predisposizioni non implica quindi alcun determinismo, ma arricchisce il bagaglio delle conoscenze. Il problema è un altro, come fanno notare molti biologi evoluzionisti, e riguarda lo statuto immaturo di ricerche basate spesso su letteratura di seconda mano, su comparazioni etologiche speculative, su osservazioni non sistematiche e su campioni statistici insufficienti. Ma ci sono cautele ancor più serie. Lo stabile e uniforme ambiente paleolitico immaginato da questi autori, dove la selezione avrebbe forgiato i nostri adattamenti ancestrali, non è mai esistito. Inoltre, è ormai smentita da più parti l’idea che dal Neolitico in poi non vi sia stata evoluzione (biologica e culturale) in Homo sapiens. Nei nostri crani quindi non risiede affatto «un cervello dell’età della pietra». E soprattutto, l’evoluzione non è un’ottimizzazione ingegneristica, ma un’esplorazione di possibilità dentro un albero ramificato di forme. Non solo: se una propensione attuale può essere ritenuta a volte adattativa e a volte no, ecco una spiegazione buona per tutto, che non spiega niente. Vediamo un esempio. La libera espressione dell’autonomia individuale è darwiniana ed è bene assecondarla perché consona alla natura umana. Il conflitto etnico e l’egualitarismo invece non vanno bene, anche se sono darwiniani: sono diventati disadattativi e vanno corretti con l’educazione. L’economia di mercato e la democrazia non sono darwiniani, sono contro-intuitivi, ma vanno perseguiti lo stesso. Infine, quarta possibilità, un tratto non è darwiniano (per esempio il socialismo) e, anche se il mondo di oggi è così diverso dalla savana africana, è sbagliato perché contrario all’evoluzione umana. Nel fantomatico Paleolitico c’è tutto ciò che serve per inventarsi una storia ad hoc. Capita così di leggere, in Rubin, quadretti simili: «I maschi si dedicavano alla caccia, spesso cooperativa, e le femmine alla raccolta (il che spiega la preferenza femminile per i fiori, dato che sono associati alle cose che sono buone da raccogliere) ». Per migliorare l’agricoltura, secondo Ridley, bisogna fare in modo che ogni coltivatore possa imitare il vicino più bravo, senza regolamentazione pubblica. Il resto verrà da sé, con tanti piccoli egoismi che insieme creano il bene comune. Lo sapevano anche gli abitanti dell’isola di Pasqua. Ognuno imitava il vicino che aveva i rendimenti migliori nel disboscamento ed erigeva il moai più bello. Poi si sono accorti che un’isola è un’isola e si sono quasi estinti.”"
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