Il colonialismo digitale è un'ideologia che si riassume in
un semplice principio, un condizionale. Si può, quindi tu devi. Se è possibile
che una certa cosa o attività migri verso il digitale, allora deve migrare. I
coloni digitali si adoperano per introdurre le nuove tecnologie in ogni settore
della vita delle persone, dalla lettura al gioco, dal supporto alla decisione
all'insegnamento, dalla comunicazione alla pianificazione, dalla costruzione di
oggetti all'analisi medica; la tesi colonialista è data per scontata dai
coloni, che ne apprezzano la semplicità: è assolutamente generale, dato che si
applica a qualsiasi cosa o attività in modo indifferenziato.
Facile da
ricordare, difficile da contrastare. Chi si oppone al colono digitale viene
rapidamente incasellato nella categoria dei luddisti, dei distruttori di
macchine, di quelli che non sanno stare al passo con i tempi. Il dibattito,
secondo i coloni, non dovrebbe neanche iniziare. In realtà, negare una tesi
condizionale è prendere una posizione più debole, negoziale. Chi si oppone al
colonialismo non per questo dice che le cose e le attività non digitali non
devono mai compiere la migrazione digitale. Invoca il principio di precauzione;
dice semplicemente che la migrazione non è un obbligo che discenderebbe dalla
semplice possibilità della migrazione; e che deve essere accompagnata, perché
tende a essere troppo invadente. Non basta mostrare un libro elettronico che
funziona per imporre il libro elettronico. L'anticolonialista ha quindi tutti i
diritti di rivendicare un atteggiamento positivo e costruttivo: la legittimità
della migrazione dev'essere valutata caso per caso. In alcuni casi la
digitalizzazione ha liberato, in altri no; e lo sappiamo già. A un estremo
sappiamo che la fotografia si è affrancata ed è diventata, grazie al digitale,
quello che avrebbe dovuto essere da sempre, un modo di prendere appunti visivi.
A un altro estremo, sappiamo che il voto elettronico, e in particolare il voto
online, presenta dei rischi imparabili di controllo sociale e manipolazione, e
dovrebbe essere bandito per sempre dalle istituzioni democratiche. Ma entro
questi estremi c'è uno spazio negoziale molto ampio in cui i casi particolari
meritano una discussione; discussione che è del tutto assente e quando c'è
viene mortificata dalla ripetizione ossessiva del mantra colonialista. La
geolocalizzazione crea enormi possibilità ma queste non si accompagnano a
enormi rischi per la sicurezza individuale? La condivisione immediata e senza
riflessione della propria vita privata gratifica ma non espone i cittadini a
forme sottili di aggressione commerciale e politica? L'educazione può trarre
giovamento dalle nuove tecnologie o distrugge il capitale di tempo e di
attenzione strutturata che la scuola dovrebbe invece faticosamente proteggere?
Le nostre scelte individuali non sono sempre più
condizionate da quanto ci propongono degli algoritmi? Il semplice fatto che
queste domande possano essere sollevate indica che non si accetta l'ideologia
colonialista; non certo che non si accetta il digitale. Non essere colonialisti
non significa essere luddisti. I coloni e i colonialisti che offrono loro una
sponda intellettuale hanno pronta una batteria di risposte a chi nega il «si
può, quindi devi»; la ridda vorrebbe frastornarci ma dovrebbe venir vista per
quello che è, un tentativo di parare con la quantità degli argomenti l'assenza
di qualità degli stessi. Nell'ordine: le nuove tecnologie avrebbero poteri
quasi magici per risolvere vecchi problemi sociali, in primis politica (M5S, ma
anche Diebold) ed educazione (Prensky, Ferri); sono divertenti in sé e comunque
più divertenti dei loro antenati (Google Mail); creano prodotto interno lordo e
occupazione (ex-ministro Profumo); permettono misure oggettive dei risultati
(Commissione europea); fanno tutti così, e chi sei tu per opporti (amici e
colleghi che deplorano la vostra assenza da Facebook); e, ultima spiaggia,
funzionano benissimo, nel senso che abbiamo riparato tutti i bug. Post-ultima
spiaggia, se poi non funzionano, possiamo sempre trovare il modo di ripararle.
La hybris non risparmia il lessico: vengono coniati termini come «multitasking»
e «nativo digitale» che danno un'aura di scientificità agli argomenti. Non
basta quindi lavorare caso per caso, ma su ogni caso si devono soppesare questi
molti e diversi argomenti. Prendiamo, tanto per fare un esempio, la scuola, e
mettiamo da parte il «si può, quindi devi». Quali ragioni ci sono per
introdurre le nuove tecnologie nella scuola? Non certo e non più il bisogno di
colmare il digital divide: i ragazzi hanno più tecnologia a casa di quanta la
scuola possa mai averne. Ma quale ragione, allora? La ridda riparte: «Ci sono
delle attività educative incredibili che puoi fare con il computer; i ragazzi d'oggi
sono così e bisogna adattarsi alla loro forma mentis; dobbiamo dare un accesso
totale all'informazione totale; ha funzionato benissimo nel settore bancario,
perché non deve funzionare nella scuola?». Ma sono argomenti ideologici.
Bisognerebbe chiedere se esistono dei dati per giustificare gli investimenti in
tecnologia. Per esempio dei dati sul rendimento scolastico. Certamente questi
dati non c'erano (per definizione!) nel momento in cui le tecnologie sono state
introdotte: la loro introduzione era un esperimento alla cieca, che la dice
lunga sulla qualità delle decisioni pubbliche.
Uno studio recente di Marco Gui del l'Università di Milano
Bicocca fa il punto su un esempio tra i tanti, il rapporto tra la frequenza
d'uso dei media digitali e i livelli di apprendimento, andando a scavare nei
dati del sesto volume del rapporto Pisa Ocse 2011, che coprono una popolazione
di 450mila studenti quindicenni da 65 Paesi. L'analisi di Gui è quantomai
interessante: le nuove tecnologie si associano positivamente all'apprendimento
fintantoché se ne fa un uso modico. Non appena le tecnologie diventano invasive
e colonizzano il tempo, il rendimento scende, a livelli inferiori a quelli che
si hanno senza tecnologie. Vale la pena di fare un'osservazione metodologica:
si tratta di associazioni e non di rapporti direttamente causali, per il
momento, dato che l'identificazione di questi ultimi necessiterebbe di studi
sperimentali. Tuttavia è più che abbastanza per farci venire il sospetto (il
rapporto Pisa vede gli stessi dati, ma è più elusivo sulle conclusioni). Gli
unici vantaggi (minimi) si hanno per quella che il rapporto Pisa chiama
subdolamente «lettura digitale», un altro dei termini dalla semantica dubbia
che fanno la gioia dei colonialisti, e che io renderei piuttosto con
«spippolamento». A guardare da vicino, la «lettura digitale» è l'abilità di
andare in giro per ipertesti, fare copia e incolla, cliccare per dire «mi piace»
e cose simili. Ci sarebbe da stupirsi se almeno queste "competenze"
non migliorassero almeno un po' con un uso accanito del computer, e comunque a
usarlo troppo anche queste regrediscono! Ma il punto principale è che le altre
competenze, ben più serie: lettura, matematica e scienze, ne soffrono.
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