Non si agita soltanto sulle vette della nostra storia letteraria, ma vive anche sulle piane del nostro senso comune, un invincibile sentimento di amo et odi per il Paese «là dove il sì suona». È bella l’Italia («Suso in Italia bella giace un laco…»), eppure “prava” («In quella parte della terra prava/italica…»); è il «giardin de lo imperio», eppure straziata da discordie di ogni tipo, «nave senza nocchiere», tutta che piange, come la sua Roma “vedova e sola”.
Un conflitto tra nostalgia e condanna, tra una bellezza che ci si ostina a credere presagio di meravigliose sorti e l’attuale miseria del suo stato, tra l’immagine della “nobilissima regio” che abitiamo
e l’impotenza politica che l’affligge
- autori e epoche, da Dante in poi, hanno avanzato le loro diverse diagnosi su questo stato di perennecrisi in cui sembra versare l’idea stessa di Italia, ma la “dominante” è una sola: la sua bellezza non salva, e tuttavia ad essa non possiamo cessare di volgere il nostro amore e le nostre speranze. Italiam fugientem …così la scorgeva il padre Enea avvicinandosi attraverso inenarrabili dolori alla terra che gli dèi gli avevano destinato. Italia che fugge- patria che tanto desideriamo, quanto sembra sempre attenderci oltre l’ultimo orizzonte.
Siamo così certi che sia questa una condizione assolutamente negativa,
da superare e basta? Che in ciò consista il nostro limite fatale? Non aver una “solida” patria, non essere una nazione, animata da un solo spirito, vivere “dispersi” per tante città e tanti luoghi, senza “capitale”, manifestare tante usanze e consuetudini, ma non un ethoscomune - certo, quando tutto ciò dà vita al più freddo egoismo, al cinismo per cui «non è infamante la colpa, ma la punizione» (Leopardi), che Italia fugga
è solo un vizio, un male radicale, che condanna. Ma ancor più ci ha afflitto e impedito “il volo” continuare a pensare che l’Unità costituisca il rimedio, che
il Modello sia quello di Francia con Parigi, di Prussia con Berlino, di Albione con Londra, il grande mito dello Stato.
Italia che fugge …una patria “libera” dall’ossessione della patria potestas , una patria da ricercare sempre, di un amore che si alimenta amando, mai alla mèta, mai sicuro di sé, mai quieto possesso. Se la nostra destinazione, ciò cui la nostra storia ci destinava, fosse stata,e magari ancora fosse, di inventare e costituire una matria ? Accogliere in sé
i distinti, riconoscerne la singolarità e federarli . Attraverso vincoli di amicizia .
La grande cultura italiana, maestra d’Europa, nasce nel segno di questa parola-chiave: si veda il Dante del “Convivio” e del ”De vulgari”. E amici si può essere soltanto tra liberi, coscienti che la stessa potenza di ciascuno dipende dalla solidità e operatività del rapporto con l’altro. La patria potestas sottomette per natura, e i popoli se ne dimostrano ogni giorno di più insofferenti; disiecta membra di piccole comunità locali possono magari distruggerla, ma senza nulla creare; la vivente complessità di luoghi, città, idiomi federati insieme - non potrebbe essere questa, invece, l’idea che germoglia sotto la maschera dell’Italia “che manca”? Complessità della città mediterranea,pensiero meridiano .
Non potrebbe l’Italia “che manca” far balenare agli occhi (se ancora ne dispone) dell’Europa proprio una tale idea?
Immaginazione soltanto? può darsi - ma è il nostro passato a ispirarla . E lo studio del passato diventa sedentaria erudizione quando non ispira a pensare in nuove forme il presente e ad agirvi. Certo, con tutta la consapevolezza dell’irripetibilità, e tutta la necessaria ironia . Un mosaico di popoli e tradizioni
è l’Italia anche molto dopo la “conquista” romana; già all’alba della nostra storia esistono città dove queste distinte genti si incontrano e si assimilano, dove i culti si meticciano. Così nasce Roma stessa,concordia discors , asilo per «gente oscura e umile» proveniente da ogni luogo, «di una folla di gente d’ogni sorta, senza distinzione alcuna di liberi e servi» (Livio). Nessuna unità di sangue, di razza, ma costruzione razionale di un patto,di un foedus capace di riconoscere e tutelare ciascuno “salvando” così l’intero. Anche i più aspri conflitti vanno regolati verso una tale fine: l’Enea virgiliano rimane il vinto di Troia,e perciò mai arrogante, desideroso, anzi, di far partecipe lo sconfitto alla sua stessa vittoria. Vittorioso davvero è chi debella i superbi . L’Italia - così nei grandiosi versi danteschi - è rappresentata tanto dagli eroi troiani, quanto da quelli che li combatterono: per la “salute” di questa “umile Italia” «morì la vergine Cammilla/ Eurialo e Turno e Niso di ferute».
I grandi disegni provvidenzialistici, le volontà egemoniche volte ad “interrare” le differenze, la boria intellettuale di chi pretenderebbe di porre la storia sotto
il segno esclusivo della Ragione, sono tratti alieni all’”umile Italia”. I suoi grandi dipingonol’effettuale; per quanto doloroso cercano di dire il vero, e il loro dire ha l’aspro suono dell’esperienza vissuta, del mestiere di vivere. Da Dante all’umanesimo tragico dell’Alberti, a Machiavelli, e forse ancor più a Guicciardini, al Leopardi, ma anche al Manzoni, è tutta una lezione di disincanto, di spes contra spem , di disprezzo feroce contro ogni retorica, ogni chiacchera vana su quei “valori” universali e eterni, che mai vengono lucidamente analizzati e tantomeno realizzati. Il genus italicum è una formidabile lezione sulla ipocrisia
di politici e clerici, pur senza alcuna concessione al culto del “popolo”
e della sua naturale“bontà”(la storia manzoniana della “colonna infame”!). Esso sa disilludere e demistificare, ma sa anche immaginare . Senza questa doppia virtù, senza questa Italia, l’Europa potrà sopravvivere soltanto nel segno della sua unica moneta, ma in hoc signo non vincerà su nessun campo.
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