Nei sondaggi che moltiplicano il gradimento di Viktor Orbán in Ungheria c’è tutta l’ansia dell’Europa. Il premier è la versione più contemporanea del dittatore, ha cambiato il sistema elettorale, si ribella alle sanzioni internazionali, protesta contro gli immigrati, silenzia la critica. È il nazionalismo che ha sfondato e per questo anche quella che fa più paura. Il suo consenso cresce e le elezioni di primavera non sembrano a senso unico solo per il sistema creato su misura: l’approvazione regge e per capire come mai forse basta guardare i muri di Budapest.
dal sito de LA STAMPA
Le facciate grondano nazionalismo e non è quello becero promosso dai discorsi di Orbán, sono graffiti appassionati che raccontano il bisogno di riscoprire il proprio passato. Patria, eroi, bandiere, soprattutto storia e per una volta colorata. Il Paese che è passato dall’occupazione nazista a quella comunista non ha ancora trovato un momento per sé e pure chi non vota Orbán finisce per riconoscergli degli strani contorti meriti difficili da esplicitare. Il graffito di solito si ribella, a Budapest fa proprio la rivoluzione, solo che è ancora quella del 1956.
Le facce della nazione come quella di Angyal Istvan, il comunista idealista condannato per essersi ribellato al comunismo reale. E, ancora più facile, l’Ungheria di Puskás nel 6-3 che per la prima volta ha sconfitto l’Inghilterra dentro la fortezza di Wembley. Murales giganti, vivaci, schizzi abusivi diventati icone: un passato mai celebrato che cambia le strade della capitale e ha trasformato l’ex ghetto in una galleria di ricordi.
Molti lavori sono firmati Neopaint, un gruppo di sei persone che oggi si muove su commissione e ha litigato con l’amministrazione locale: «Hanno aperto i muri a un festival e snaturato l’idea, ormai è una chiazza. Credono di attirare i turisti e pasticciano». Ci sono brigate di writer che si contrappongono al nucleo originale, ragazzini che scarabocchiano, talenti che si inseriscono. I Neopaint hanno cambiato territorio ma hanno lasciato una firma e soprattutto una scia ben visibile. Un enigma dentro una bomboletta spray.
Uno dei leader del gruppo, Barnabas, sceglie il caffè Kozpont per raccontarci il loro viaggio. Sembra un centro sociale, è animato da universitari in felpa e sneaker che si parcheggiano lì per la connessione gratuita e lui è vestito allo stesso modo, frequenta gli stessi posti e parla «di narrazione per ritrovare il Dna», di «azioni per dare vivacità a una città depressa». Vocabolario di generica sinistra, frasi contro il sistema, voglia di cambiare. Lui è la mente manageriale dei graffitari, da sempre contro il potere, eppure al nome Orbán, un sorriso segue un lungo silenzio consapevole: «Ha tanti eccessi e non mi identifico nel suo programma, ma a volte concentrarsi su chi siamo non è sbagliato, soprattutto qui. Noi abbiamo disegnato Erno Rubik perché non esiste un monumento che lo ricordi e Sandor Marai perché è la nostra tradizione. Ci si chiede di pensare al mondo globale, ma non lo puoi fare se non sai chi sei e qui hanno oppresso ogni identità per decenni». Non dice per chi vota, rifiuta di appiccicare l’etichetta politica sul progetto, però non contesta il dittatore formato Duemila: «Nazionalismo non è una parolaccia, lui lo alimenta troppo, ma almeno lo ha liberato. Ci è mancato così a lungo...». Ora sta sui muri romantici e nei sondaggi angoscianti, legato in un miscuglio impossibile da definire. Servirebbe Rubik per divedere le facciate della memoria da quelle della paura
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