Nella cornice del New Public Management trova fertile humus la richiesta dell’autonomia differenziata da parte di alcune regioni italiane che rivendicano il governo diretto di diversi ambiti della vita pubblica. Sono regioni fra le più ricche d’Italia che mirano a stabilire legami diretti con le altre regioni più avanzate d’Europa e ritengono di poterlo fare con maggiore successo, se svincolate dal quadro istituzionale nazionale e dagli obblighi - fiscali in primo luogo, ma non solo - che esso comporta. Hanno in primo luogo bisogno di controllare settori strategici e, fra questi, uno dei più importanti è rappresentato dalla scuola. Non è un caso che sulla scia delle più note Emilia, Lombardia e Veneto, anche Marche e Umbria abbiano avviato un percorso in comune di autonomia differenziata limitato a poche discipline e che riguarda proprio l’istruzione e la formazione tecnica e professionale, nonché l’università. La posta in gioco è appetitosa: la riorganizzazione dell’istruzione in senso regionale comporta non solo la gestione del personale, ma la possibilità di intervenire sul curricolo degli studenti e sull’Alternanza Scuola-Lavoro. La regionalizzazione del sistema scolastico (o di parte di esso) punta a costruire in tempi brevi quella sinergia tra istruzione ed impresa invocata dagli organismi europei e dalle associazioni di categoria degli industriali e chiamata a fare della scuola il luogo dell’addestramento delle giovani generazioni alle competenze richieste dalle aziende del territorio.
* * * *
A partire dagli anni ’80 del secolo scorso comincia ad imporsi una corrente di pensiero, destinata ad influire profondamente sulle dinamiche socio-politiche e culturali del nostro tempo, che propone di importare le regole di funzionamento del mercato concorrenziale nel settore pubblico. I principi ispiratori del new management e della public governance affondano le loro radici nell’elaborazione del concetto di “società imprenditoriale”. Peter Drucker, teorico del management, riprendendo certi aspetti dell’imprenditore schumpteriano- l’uomo della “distruzione creatrice”- propugna la costruzione di una nuova società di imprenditori, il cui spirito deve diffondersi in tutta la società.
L’obiettivo dichiarato è quello di trasformare gli USA in una società imprenditoriale, caratterizzata da adattabilità e cambiamento incessante. Il nuovo spirito imprenditoriale deve penetrare in tutti gli ambiti del vivere sociale, in particolare nei servizi pubblici. Questa elaborazione fornisce i fondamentali alla grande controffensiva liberista, messa a punto proprio in quegli anni, mirata non tanto ad un progressivo ritiro dello Stato, quanto ad “una trasformazione dell’azione pubblica” capace di fare dello Stato stesso “una sfera regolata anch’essa da regole di concorrenza”[1]. La posta in gioco, dunque, è quella di riuscire ad imporre al centro di tale azione pubblica principi, modalità e meccanismi dell’impresa privata, in modo da riconfigurare una nuova pratica di governo che sarà progressivamente adottata, a partire dagli anni ’80, dai Paesi dell’OCSE.
In tale contesto, il management tende ad accreditarsi come una tecnica gestionale valida per qualsiasi settore della vita collettiva (e non solo, se pensiamo alla diffusione anche in campo educativo della concezione dell’individuo come “imprenditore di se stesso), in quanto portatore dei valori di efficienza, innovazione, flessibilità e competizione e delle modalità organizzative necessarie per tradurli in pratica effettiva di governo. Lo Stato è dunque spinto a strutturare il suo intervento secondo la logica del mercato , impresa in un mondo di imprese, regolato dalla legge della concorrenza, mentre il cittadino , già soggetto di diritti sociali, si avvia a divenire un consumatore al quale erogare beni e servizi, fra i quali egli potrà scegliere il più conveniente in rapporto alle sue possibilità e aspettative.
Nel nostro Paese l’importazione delle regole e modalità di funzionamento del mercato nel settore pubblico trova una significativa espressione giuridica nella Legge n. 59 del 15 marzo 1997, voluta da Franco Bassanini, ministro per la funzione pubblica e per gli Affari regionali nel governo Prodi. L’articolo 21 sancisce l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi (posti sullo stesso piano ), nell’ambito di un processo di riorganizzazione dell’intero sistema formativo. In particolare, il comma 8 stabilisce che “l’autonomia organizzativa è finalizzata alla realizzazione della flessibilità, della diversificazione, dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, all’ integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale. Essa si esplica liberamente anche mediante il superamento dei vincoli in materia di unità oraria della lezione, dell’unitarietà del gruppo classe e della modalità di organizzazione e impiego dei docenti, secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali e temporali, fermo restando i giorni di attività annuale previsti a livello nazionale”[2], nonché il rispetto degli obblighi annuali di servizio dei docenti previsti dai contratti collettivi.
Sono, qui, declinate tutte le voci che concorrono a definire le “ buone pratiche” di governance secondo i dettami del management, dalla flessibilità , all’efficienza gestionale, all’ottimizzazione del cosiddetto capitale umano , a discapito della specificità scolastica , che ha come corollario la consapevolezza della radicale differenza qualitativa (fondamenti, contenuti e fini ) tra scuola e impresa, implicante, anche sul piano organizzativo, soluzioni rispettose di tale specificità.
La riforma scolastica dell’autonomia, conosciuta come riforma Berlinguer dal nome del ministro che la promosse in quello stesso periodo, si è incaricata di rendere operante all’interno del sistema scolastico le linee guida stabilite dall’articolo 21 , aprendo la strada all’aziendalizzazione della scuola. La creazione della figura del Dirigente Scolastico cui si attribuiscono compiti di tipo manageriale, l’introduzione del Piano dell’Offerta Formativa in ogni scuola, l’insistenza sulla necessità di rispondere alle “attese espresse dalle famiglie, dagli enti locali, dai contesti sociali, culturali ed economici del territorio”,[3] la premialità per docenti coinvolti in attività di tipo organizzativo o in base ad un “merito” valutabile attraverso test (il famoso “quizzone” che costò al ministro l’incarico) fanno penetrare nella scuola forme elementari di marketing , con l’invadente ed inevitabile bagaglio di una neolingua ammiccante a debiti, crediti, successo formativo, performance, obiettivo, risultato, servizio all’utenza, open day. E spalancano le porte alla concorrenza, appena temperata dal rituale richiamo alla libertà d’insegnamento garantita dalla Costituzione: concorrenza tra docenti all’interno della stessa scuola , attraverso meccanismi premiali a disposizione degli insegnanti con funzioni organizzative o progettuali (e conseguente svalorizzazione dell’attività in classe) e concorrenza tra i diversi Istituti che, a suon di POF e progetti multiformi, allettano gli studenti-clienti, strappandoli alle altre scuole.
Le successive riforme (se ne contano ben tre: Moratti, Gelmini e buona scuola), pur con sfumature diverse, hanno accolto pienamente tale impostazione, radicalizzandola nel senso della Scuola delle Tre I – Impresa, Inglese, Internet- , della scuola dell’Invalsi, ostaggio del pensiero quantitativo, e della scuola leggera del saper fare, fino alla fornitura gratuita di manodopera alle aziende con l’Alternanza scuola-lavoro.
Questo sistema, in cui l’Italia si è trovata ad adottare politiche scolastiche già in atto in diversi paesi sin dagli anni Novanta, crea nei fatti un mercato dell’istruzione e della formazione, la cui conseguenza più visibile è la frammentazione dei sistemi educativi e la differenziazione dei luoghi e delle modalità di scolarizzazione secondo varianti sociali o/e geografiche e rappresenta un caso emblematico della costruzione di una situazione di mercato in un ambito ad esso estraneo per natura. Non è certo casuale che diversi e importanti esponenti del pensiero neoliberista abbiano sempre guardato con grande interesse all’istruzione, a partire da Milton Friedman che, già nel 1955, aveva proposto di istituire un sistema di concorrenza fra gli istituti scolastici, fondato sull’assegno educativo, corrispondente al costo medio della scolarità, da versare ad ogni famiglia, la quale avrebbe, poi, deciso in quale scuola utilizzarlo.[4]
Due sono i principi da cui scaturisce tale proposta: le famiglie sono considerate alla stregua di “consumatori”, liberi di scegliere “il prodotto” più confacente alle loro aspettative, e gli Istituti sono spinti ad entrare in concorrenza gli uni con gli altri , ciò che dovrebbe comportare un miglioramento del loro livello, conformemente all’ideologia neoliberista per cui la competizione produce , di per sé, beni e servizi di qualità superiore , a maggior profitto di tutti, secondo l’ottica del win win (tutti vincenti). Non solo la realtà degli ultimi decenni si è incaricata di smentire ferocemente tale rosea previsione, ma è doveroso sottolineare che questa idea si fonda sul più che discutibile presupposto che educazione e cultura siano merci , la cui produzione e distribuzione non risponde a criteri sostanzialmente diversi da quelli di mercato. Presuppone altresì il passaggio dalla figura del cittadino in possesso di diritti sociali e politici, maturati nel corso di una lunga e complessa storia collettiva, a quella del consumatore, la cui libertà si esplica entro lo spettro delimitato dalla possibilità di scegliere i prodotti più rispondenti alle sue esigenze. E’ la norma della concorrenza generalizzata che informa e plasma le relazioni sociali ai diversi livelli e alla quale devono sottomettersi tutti i campi in cui si esercita l’attività umana, pubblica e privata.
In questo quadro distopico – messo a punto dal pensiero neoliberista già a partire dal convegno Walter Lippmnann del 1938 – gli Stati, dietro le molteplici pressioni di organismi sovragovernativi (FMI,Banca Mondiale, Gatt in primis) e privati, non solo si sono adeguati al modello gestionale dell’impresa, ma hanno finito per cambiare il proprio ruolo, promuovendo politiche volte ad adattare la società tutta ai vincoli della competizione mondiale. Contestualmente, il settore pubblico- istruzione, sanità, amministrazione, previdenza- è stato trasformato in produttore di servizi forniti ad un cliente, in concorrenza con altre agenzie fornitrici.
In questa cornice – ideologica e politica – trova fertile humus la richiesta dell’autonomia differenziata da parte di alcune regioni italiane, le quali rivendicano il governo diretto di diversi e significativi ambiti della vita pubblica in base alla loro maggiore competitività – in termini economici, finanziari, gestionali- sia rispetto ad altre regioni del Paese, sia rispetto allo Stato centrale. Sono regioni fra le più ricche d’Italia che, lungi dal volere ritrovare una mitica identità locale all’insegna dei bei tempi andati che esse per prime hanno distrutto con l’industrializzazione selvaggia che ne ha devastato il territorio e sconvolto la coesione sociale, mirano a stabilire legami diretti – di carattere economico innanzitutto- con le altre regioni più avanzate d’Europa e ritengono di poterlo fare con maggiore successo, se svincolate dal quadro istituzionale nazionale e dagli obblighi -fiscali in primo luogo, ma non solo- che esso comporta. Per potersi misurare proficuamente sul terreno economico e commerciale , hanno bisogno di controllare settori strategici e, fra questi, uno dei più importanti è rappresentato dalla scuola. Non a caso, le regioni Marche e Umbria che, sulla scia delle più note Emilia, Lombardia e Veneto , hanno avviato anch’esse un percorso in comune di autonomia differenziata, limitano le loro richieste a poche discipline ed una di queste riguarda proprio l’istruzione e la formazione tecnica e professionale, nonché l’università. La posta in gioco è, infatti, piuttosto appetitosa , perché la riorganizzazione dell’istruzione in senso regionale comporta non solo la gestione del personale, ma la possibilità di intervenire sul curricolo degli studenti e sui “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento”, ovvero sull’Alternanza Scuola-Lavoro, così ribattezzata dal nuovo ministro nel vano tentativo di dare una verniciatura didattica ad un dispositivo di descolarizzazione, sfruttamento e manipolazione ideologica del quale questo sito già si è occupato[5] . La regionalizzazione del sistema scolastico ( o di parte di esso) punta, infatti, a costruire in tempi brevi quella sinergia tra istruzione ed impresa invocata dagli organismi europei e dalle associazioni di categoria degli industriali e chiamata a fare della scuola il luogo dell’addestramento delle giovani generazioni alle competenze via via richieste dalle aziende del territorio. Sarebbe, questo, un percorso particolarmente propizio alla messa in discussione del valore legale del titolo di studio, la cui soppressione aprirebbe agevolmente la porta a soluzioni tarate sul modello della “tessera personale delle competenze”, proposta già sul finire del secolo scorso dal commissario europeo per la scienza, la ricerca e la tecnologia Edith Cresson nel suo Libro bianco[6]:una certificazione aggiornata in tempo reale lungo l’intero arco della vita , con il concorso di settori professionali e imprese.
Il processo di mercatizzazione dell’istruzione , innescato dalle riforme degli ultimi vent’anni, troverebbe un coerente e più completo sbocco nell’ambito di una riorganizzazione su base regionale, capace di darsi gli strumenti più efficaci per realizzare l’auspicata integrazione fra realtà produttive locali e formazione e di vincere, grazie alla frammentazione del sistema, le resistenze che il mondo della scuola ancora esprime in merito. Il compito si trova ad essere facilitato dai profondi mutamenti che già hanno portato la scuola sulla via dell’aziendalizzazione e non servono provvedimenti di eclatante rottura che potrebbero suscitare allarme sotto il profilo giuridico: l’autonomia scolastica fornisce un quadro normativo improntato a flessibilità e significativa attenzione sia alle esigenze territoriali, sia alla possibilità di opzione da parte delle famiglie.
E’ rilevante che un importante esponente di una rete di istituti privati di orientamento cattolico, intervistato circa la regionalizzazione, affermi che essa rappresenta un passo avanti (presumibilmente, verso il pieno riconoscimento degli Istituti paritari), “se si tratta di un modo per garantire più autonomia e libertà di scelta ai singoli Istituti”[7]. Si invoca, non casualmente, quella libertà di scelta che per Milton Friedman riassumeva tutte le qualità del capitalismo concorrenziale e che muove dal principio che la concorrenza va creata anche dove non esiste, introducendo una serie di incentivi di mercato. E tali sembrano essere quelli che il governatore del Veneto fa balenare dalle pagine dello stesso periodico: promette, infatti, aumenti ai docenti in base al merito, nonché una modifica in senso territoriale dei contratti collettivi. Pura operazione di marketing, probabilmente , se non fosse che tali proposte toccano un tasto particolarmente sensibile del dibattito pubblico. Pressioni in questa direzione- di fuoriuscita dai contratti collettivi nazionali- vengono, infatti, avanzate ormai da anni da diversi attori sociali e politici , in nome dello svecchiamento dell’inquadramento contrattuale professionale, dipinto come una sorta di gabbia obsoleta, nemica dell’efficienza e , naturalmente, del merito. Ora, al di là del possibile esito dei negoziati intrapresi da diverse Regioni per ottenere l’autonomia differenziata ( che non potrà non misurarsi con le contraddizioni dell’attuale scenario politico, con i vincoli costituzionali e, sperabilmente, con un’opposizione agguerrita in tutto il Paese), il paradigma ispiratore e le proposte che sono via via emerse rischiano, comunque vadano le cose, di legittimare idee e pratiche in aperto conflitto con I principi fondanti della Costituzione, a partire dall’articolo 3. Non è inutile ricordare che le diverse “riforme” che , dagli anni ’80 del Novecento, hanno deregolamentato il lavoro, privatizzato i servizi pubblici, aperto al mercato scuole ed ospedali, delimitato l’azione budgetaria dei governi, si sono spesso realizzate per progressivi aggiustamenti, sostenuti da pervasive campagne ideologiche affidate ai media e normati, poi, entro una cornice legale.
Nessun commento:
Posta un commento