La sinistra è in difficoltà non perché abbia mancato i suoi obiettivi, ma perché li ha conseguiti, e stenta a darsene dei nuovi. Il mandato novecentesco, la socializzazione del plusvalore del capitale industriale, è stato realizzato dalle socialdemocrazie europee, e i tradizionali elettori della sinistra si dividono. Una minoritaria, “l’élite”, per la quale in effetti i cambiamenti politici contano poco, visto che vota a sinistra in base a convinzioni etiche.
Un’altra maggioritaria, “il popolo”, che, avendo incassato i benefici della socializzazione del capitale industriale, non è più interessata a un voto a sinistra perché la produzione non è più in carico ad agenti umani (gli operai), e il rischio è piuttosto quello di perdere i privilegi acquisiti, per esempio spartendoli con i migranti. La componente maggioritaria, dunque, vota a destra (esemplarmente, ed è un fenomeno vecchio di trent’anni, le regioni che passano dal comunismo al leghismo).
Sin qui tutto normale, e persino ovvio. Il problema è che di fronte a questo la sinistra non vede che il problema non è fidelizzare la minoranza etica, ma riottenere i voti della maggioranza opportunistica. I messaggi sono allora o la scimmiottatura inefficace degli slogan di destra, o la ricerca di nuovi elettori improbabili per ragioni di fatto (se le destre bloccano i migranti, quelli non ti voteranno mai) o di diritto (gli animali e l’ambiente non votano).
Più sensatamente, la sinistra dovrebbe mettere a fuoco il nuovo compito che ha di fronte a sé. Prima di tutto, capire che i lavoratori, se per “lavoro” si intende la fatica e l’alienazione, sono una minoranza in via di estinzione, almeno alle nostre latitudini. Vale la pena di osservare che quando si tratta di parlare di fatica, ci si riduce a tre esempi: i rider, i raccoglitori di pomodori e i magazzinieri di Amazon, tre funzioni che saranno presto svolte dai droni. E che quando si tratta di fare esempi di alienazione è difficile parlarne in senso proprio (gli stessi gesti ripetuti per ore, giorni e anni) ma si è costretti a sostenere che dopotutto chi si spara l’integrale di Narcos in un week end un po’ alienato lo è.
In secondo luogo, occorre comprendere che il lavoro è oggi produzione di valore, e va cercato non nella produzione, ma nella invenzione, nella mobilitazione e nel consumo. L’invenzione è trovare usi per i prodotti, seguendo l’esempio di Duchamp, che ha trovato nuovi pensieri per orinatoi, scolabottiglie e ruote di bicicletta e che l’umanità ripete collettivamente giorno dopo giorno (non è per una decisione individuale ma per una invenzione collettiva che il telefonino è diventato il centralizzatore della realtà sociale).
La mobilitazione è l’attività di generazione di dati che ci impegna in ogni momento, e che vale molto più della classica produzione (i turisti che affollano le calli di Venezia producono molto più valore che se scavassero in miniera). E il consumo è il fine ultimo che conferisce senso al sistema, ciò senza cui la produzione sarebbe futile, e soprattutto l’unica cosa in cui nessuna macchina potrà mai sostituire un umano, visto che è una funzione che richiede necessariamente un organismo: possiamo costruire macchine che fabbricano e distribuiscono sushi, non macchine che li consumano.
Immagino la domanda. Chi paga in tutto questo circolo virtuoso per cui gli umani inventano usi, informano sui comportamenti e i bisogni, e soprattutto consumano, mentre le macchine producono e distribuiscono? Ovvio: coloro che accumulano il massimo plusvalore, le compagnie di raccolte dati che ci danno informazioni che valgono 1 (che tempo fa a Roma, che Notre Dame brucia…) e in cambio raccolgono informazioni che valgono 1000: quanti hanno cercato il tempo a Roma o il rogo di Notre Dame, che cosa hanno cercato gli altri, dove si trovavano, e via classificando, non per sorvegliare, ma per vendere meglio.
Seconda domanda: ma chi li fa pagare? La sinistra, sempre che abbia voglia di darsi un obiettivo all’altezza di quelli che ha assolto, con successo, nel secolo scorso. La sinistra del ventunesimo secolo deve impegnarsi nella socializzazione del plusvalore del capitale documediale (così chiamo il nuovo capitale dei Big Data) proprio come la sinistra del ventesimo secolo aveva socializzato il plusvalore del capitale industriale. Prima di tutto concettualizzando il lavoro non come fatica e alienazione ma come produzione di valore, nel modo che ho descritto sopra.
Quando gli elettori che non hanno voglia di lavorare (e non sono interessati a guadagnare più di tanto) capiranno che possono essere pagati per consumare, e quelli che hanno voglia di guadagnare capiranno che la sinistra favorisce il consumo più di qualunque altra forza politica, e non crea noie sindacali perché tanto il lavoro lo fanno le macchine, il voto tornerà alla sinistra non per effimeri sortilegi elettorali, ma per ragioni strutturali.
Terza domanda, per i più esigenti: e gli ideali dove sono finiti? Ci sono, eccome, ma bisogna cercarli al posto giusto e non inseguire anacronisticamente il mondo dei campi e delle officine. Di fronte all’umanità si apre la prospettiva di una vita dedicata interamente alla produzione di valore, quella tanto idealizzata dei Greci e dei Romani, che hanno goduto prima di noi dei benefici dell’automazione, solo che nel loro caso gli automi erano gli schiavi. Loro lavoravano, mentre i patrizi scrivevano e viaggiavano. Proprio quello che potrebbe nel tempo fare l’umanità intera, magari imparando a scrivere cose intelligenti invece che hate speech, e smettendo di identificarsi con una categoria, quella del “lavoratore” che presto apparirà non meno inattuale di quella del “piccolo possidente terriero”.
A questo punto élite e popolo (se proprio vogliamo avvalerci di questi termini senza molto senso: Trump, ad esempio, è élite o popolo? È solo un caso di arretratezza culturale) condivideranno davvero gli stessi valori, proprio come oggi (diversamente che nell’Ottocento) condividono gli stessi consumi, e l’umanità avrà fatto un altro passo in avanti.
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