Un luogo desolato, abbandonato, privo di speranza, dal quale anche Milano appare come un miraggio, una salvezza inaccessibile: io questa Roma la riconosco.
È la Roma descritta da Edoardo Vitale in Gli straordinari (Mondadori), un romanzo che prima ancora che parlare di lavoro e delle sue condizioni disumane, di produttività obbligata, di tardo capitalismo e relativi interrogativi etici, parla di invivibilità, e questa condizione inizia proprio dalla città, descritta con uno sguardo equanime che non credevo possibile.
Vitale finalmente toglie gli occhiali con le lenti rosa del passato, dell’affetto, della nostalgia, della Vespa; della dolce vita e pure della Roma mezza-criminale di Pietro Castellitto e tutta l’epica dei Parioli.
Evita infine anche la “simpatica canaglieria”, la presunta quirkiness presente in tanti racconti della romanità, quella cosa per cui è tutto un-sacco-strano ma ci piace così com’è (ma piace a chi?) e riparte dalla verità dell’osservazione: dalle zone che vanno a fuoco, «la fiumana di turisti in marcia verso via dei Fori Imperiali. Esseri umani che si trascinavano in infradito sotto il sole feroce, in preda alle allucinazioni.
Di tanto in tanto venivano investiti, derubati, truffati. Uno scellerato cammino attraverso l’aria ferma e nera», e i poverissimi per terra in tenda, e i ricchi a fare gender reveal party e due figli a testa.
Situazioni invivibili
L’invivibilità è il grande tema di questo romanzo, e cioè l’impossibile bruttezza degli ambienti che abbiamo creato: ambienti urbani, ambienti relazionali, condizioni sociali, metropolitane. Una bruttezza figlia del nichilismo e della pigrizia, dell’accidia come massimo strumento di lotta.
I protagonisti di questo libro, in controtendenza, credono o provano a credere, umanisti irriducibili, nel sentimento che li lega e nel dare un senso al lavoro. Forzando la mano della credibilità, l’autore basa la sede italiana della sua fittizia multinazionale svedese del benessere a Roma, dove nessuno svedese di buon senso investirebbe nemmeno 10 euro.
Negli uffici di pANGEA si creano idee per far fruttare il trend del wellness e dell’ecologia (app, contenuti); Nico e Elsa fanno i co-direttori creativi, coppia nel lavoro e nella vita. Gli uffici di pANGEA sono ridicoli: abbiamo imparato a riconoscere questi spazi, sono stati raccontati fin da quando Google ha messo i divanetti e le caramelle a disposizione dei dipendenti. Ma quello che li rende invivibili sembra più il fuori che il dentro, più la mancanza di speranza rispetto alla vita e agli spazi che lavoro non sono.
Per quanto antipatico stereotipato e orrendo sia l’ufficio, è quello che (non) si trova fuori il vero problema. Il protagonista non è in controllo della città, non è a suo agio negli spazi. Come me, non sa quanto dista il Pantheon da piazza Navona, non è mai entrato al Colosseo.
Non penso che questa comunanza sia casuale, in una città che risulta ugualmente respingente per chi ci vive da sempre o da pochi anni, la città – ma si potrebbe dire del paese – non vuole essere vissuta, non vuole che ci allarghiamo, che respiriamo a pieni polmoni. E non si salva certo chi va a vivere in campagna: Daniele e Miranda, nella valle del Turano, finiscono in un isolamento sociale che li rincoglionisce.
Monetizzare tutto
Come ricorrente segnale di implosione, di questa impossibilità di espandersi e andare fuori da sé, Nico soffre di attacchi di emicrania che lo riducono a un puntino, un bozzolo, un niente. Il lavoro presenta la logica della produttività di facciata, e di quella specifica produttività che sfrutta il capitale intimo di ognuno di noi, le nostre convinzioni di ciò che è buono e giusto. Prendere un principio in cui crediamo (la lotta al cambiamento climatico, l’inclusività, il femminismo) e renderlo content, slogan, monetizzarlo. È questa la situazione in cui ci troviamo in molti ed è questo che rende intollerabile il lavoro.
Non sono (solo) le ore, non sono gli straordinari non pagati, la tecnologia che ci obbliga a uno stato di allerta perenne, ma è questa commistione, la fusione fra qualcosa di essenziale e qualcosa che dev’essere venduto e, per essere vendibile, dev’essere prima svuotato di senso.
Questa è la grande violenza imposta alla nostra generazione: il dover monetizzare anche i concetti più intimi e vicini al nostro senso di sé. Sentiamo che non è sano, ma ci viene ripetuto che è necessario. Nico e Elsa inventano il concetto di una app di wellness chiamata “We breath again”, che propone esercizi di respirazione che anche loro stessi eseguono, salvo, come tutti, rimandare le notifiche, disobbedire al tempo di riposo dagli schermi, inserire password di emergenza per aggirare i sistemi che loro stessi implementano per stare lontano dallo schermo.
Il lavoro è un orrore: ci sono le vaschette che contengono cibo maleodorante da riscaldare in pausa pranzo, ci sono gli sguardi terrorizzati degli stagisti che hanno sbagliato un copy, c’è anche Quinto, che affida a un vago filosofeggiare senza costrutto la sua intera personalità.
Tuttavia, anche i bagni spesso sporchi di vomito dell’ufficio e i cestini della spazzatura pieni di scatole vuote di antidepressivi, non sono niente confronto al fuori, all’assenza di sogni di piani B e di ispirazione. Nico non si illude come gli altri di “essere in controllo” (chi con la lettera di dimissioni in tasca, chi con il proposito ancora vago di “mollare tutto”).
Lui trova «più avvincente osservare le mosse di chi si accontentava, di chi non pretendeva di più da sé stesso». Nico e Elsa hanno comprato una casa, hanno avuto un successo, per quanto potevano averne, sono stati “straordinari”, a costruire tutto con la laurea in comunicazione.
Di fronte alle proteste per il clima ricordano con nostalgia i loro ideali giovanili non perché li hanno rinnegati e si sono venduti a un «lavoro da adulti»: in questo mondo lavorare in banca o per una multinazionale del petrolio non è la cosa peggiore che può capitare a dei giovani di belle speranze. Dice Elsa: «“Dobbiamo girare lo spot per una nave da crociera e sottolineare il loro impegno per “un mondo più green” fece delle eloquenti virgolette con le dita. “che altro dobbiamo fare? Lavorare con la Formula Uno, lo sport preferito dell’ambiente? Curare il posizionamento di mercato della bomba atomica?”».
Una specie di servizio militare
Sono situazioni che conosce benissimo chiunque abbia lavorato anche indirettamente con un’“agenzia digital”, cioè in pratica tutti i nati fra metà anni Ottanta e metà anni Novanta: è una specie di servizio militare che facciamo. Solo che non finisce mai, quindi forse è più simile a una guerra.
Una coscrizione perenne, fino alla caduta. Che sia sbiancare la pelle a una modella mixed race per esaltare il prodotto di make up che si sta vendendo, o scrivere un post pieno di stereotipi di genere in occasione della festa della donna per un brand che vende biscotti per la famiglia tradizionale, ci siamo passati tutti e le abbiamo viste tutte. E lo chiamiamo anche lavoro creativo.
Sogniamo di tornare a fare i commessi in un negozio vintage o le receptionist in palestra, però questi lavori che stancano fisicamente senza intaccare l’anima, il sé, quella cosa ineffabile che ci rende umani, insomma che non ci cavano il sangue, i lavori pagati il minimo, non pagano abbastanza per vivere. E quindi eccoci a usare il nostro raffinato intelletto e le nostre lauree prestigiose per edulcorare, spezzettare e rendere digeribile la nostra visione del mondo, da vendere in microporzioni di content pubblicitario.
Il lavoro, in tutto il suo orrore, è solo lo specchio di una società orrenda, «un mondo di fragili possibilità abbandonate» e del relativo senso di allarme: «Quando qualcuno entrava dopo di me in un bagno pubblico, temevo sempre che si trattasse di un sicario». Questo senso di allarme è più vero e inquietante di qualsiasi ambientazione passata. E forse è per questo che il presente – e soprattutto il presente urbano – non è molto frequentato nella letteratura italiana: un luogo e un tempo spaventosi e invivibili.
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