Nato negli anni Dieci come conseguenza della crisi finanziaria del 2008, il populismo non può più essere visto come un’anomalia, ma va considerato come una componente strutturale degli assetti democratici contemporanei. Negli Stati Uniti l’esito delle ormai prossime elezioni presidenziali rimane apertissimo. In Francia l’annunciata vittoria del fronte nazionale è stata fermata solo da una mobilitazione senza precedenti. E poi ci sono state le elezioni in tre Lander dell’ex Germania dell’est (Turingia, Sassonia e Brandeburgo) dove l’affermazione dell’Afd – un partito classificato dai servizi segreti interni come estremista di destra – ha raccolto oltre il 30% dei voti. Risultato analogo a quello ottenuto qualche giorno fa, in Austria, dal Partito della libertà guidato da Herbert Kickl.
Lo schema ormai si ripropone ovunque allo stesso modo: i partiti di governo (popolari e socialisti) prevalgono nelle città e nei ceti acculturati ed economicamente benestanti. I partiti di destra si affermano invece nelle periferie, nelle regioni meno sviluppate e nei ceti medi e popolari. I tratti della frattura sociale sono evidenti. I partiti populisti si sviluppano in contesti di doppia deprivazione. In primo luogo, deprivazione economica: sono ormai molti anni che la crescita economica, oltre a essere zoppicante, produce disuguaglianze sempre più marcate. I suoi benefici non sono distribuiti in maniera equa. Ciò genera un’insoddisfazione diffusa che ha a che fare in parte con reali condizioni di precarietà, in parte con la percezione di aver perso non solo le sicurezze del passato, ma anche le prospettive del futuro.
Ma la dimensione economica non basta a spiegare il populismo. A pesare c’è anche la ”deprivazione culturale”, che nasce dal vivere in un mondo dove ogni certezza viene minata dalle fondamenta. Una trasformazione incalzante – anche sui temi fondamentali della vita personale – che, amplificata dal caos comunicativo dei social, provoca quello che Oliver Roy chiama senza mezzi termini “deculturalizzazione”: cioè la disgregazione di quei depositi culturali su cui si sono da sempre appoggiati i ceti popolari.
Questa doppia deprivazione genera un diffuso senso di insicurezza che non ha però la possibilità di incalanarsi nelle forme tradizionali del conflitto sociale.
In una economia finanziarizzata, non ci sono più le classi sociali né il “padrone” da combattere; e nella nebulosa di internet ogni significato si sfalda nella confusione della moltitudine. In questa situazione, l’immigrato diventa il bersaglio su cui si concentra il risentimento per tutto quello che non va. Senza negare la problematicità della questione – da sempre la presenza dello straniero provoca tensioni nella comunità ricevente – il tema del migranti diventa il parafulmine su cui si scaricano le insoddisfazioni economiche e culturali di molti. Gli immigrati – facilmente identificabili – diventano così la causa tanto dell’impoverimento economico (il falso lietmotiv secondo cui i migranti portano via il lavoro agli autoctoni) quanto del disorientamento culturale (con il richiamo identitario giocato nella contrapposizione della razza). Nella classica logica del capro espiatorio.
La verità è che il populismo si avvantaggia (distorcendola) della fatica popolare nei confronti di un modello socioeconomico che, al di là dei suoi pregi, dimentica dimensioni importanti della vita personale e sociale.
Da questo punto di vista, la cronicizzazione del populismo – che rischia di evolvere in forme radicali sempre più pericolose – è anche il frutto di una pigrizia delle élites politiche, economiche e culturali che tardano ad ammettere i problemi derivanti dal modello di organizzazione sociale affermatosi negli ultimi decenni.
È capitato più volte nella storia che siano stati i ceti svantaggiati a sollevare la questione della necessità di un cambiamento. Spesso senza essere in grado di indicare soluzioni adeguate alle questioni sollevate. Non sempre le élites sono capaci di riconoscere l’urgenza del cambiamento. Soprattutto quando si tratta di mettere in discussione i privilegi di cui godono. Ma quando ciò accade, il rischio è che il malcontento inneschi la spirale della rabbia e della violenza.
Emblematica di tale incapacità di leggere il tempo è l’espressione attribuita alla regina Maria Antonietta che, a fronte alla prime proteste che avrebbero poi portato alla rivoluzione del 1789: se ne uscì con la celebre frase: «Se hanno fame, che mangino brioches».
Disinnescare il populismo significa prendere sul serio il disagio che lo origina. Avendo il coraggio di cambiare ciò che deve essere cambiato.
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