mercoledì 13 novembre 2024

FETICCI ECONOMICI E INFELICITA' COLLETTIVA. LASTRUCCI, CALDES PINILLA, Il Pil, critiche e alternative per la misura del reale benessere delle nazioni, CENTRO SALUTE GLOBALE REGIONE TOSCANA, 2021

 Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi il Prodotto Interno Lordo (PIL) è stato usato da ogni paese come unità di misura dei propri successi e la sua crescita è stata messa al centro delle politiche nazionali. Numerose sono le critiche e le evidenze scientifiche che mostrano come il PIL sia una misura fuorviante del benessere e del progresso di una società. Indicatori alternativi più adeguati sono già disponibili ed molti altri sono allo studio.



Storia e definizione del PIL. Il concetto di Prodotto Interno Lordo (PIL) si è perfezionato nel tempo, e gradualmente non solo è diventato l’unità di misura della ricchezza prodotta in un Paese, ma si è anche andato a guadagnare una posizione di preminenza nell’esprimere e simboleggiare il benessere di una collettività nazionale.


In conseguenza della crisi economica del 1929, l’allora presidente degli Stati Uniti d’America Franklin Roosevelt, si rivolse al Dipartimento per il Commercio per l’elaborazione di un mezzo di misurazione standardizzato, che consentisse di verificare in maniera costante le condizioni economiche generali del Paese. Fu così elaborato il PIL, alla cui determinazione contribuì in modo significativo l’economista Simon Kuznet (premio Nobel per l’economia nel 1971).

Nel corso della storia sono stati apportati numerosi aggiustamenti nel modo di calcolare il PIL, che ad oggi viene definito come: “il valore totale dei beni e servizi prodotti in un Paese da parte di operatori economici residenti e non residenti nel corso di un anno, e destinati al consumo dell’acquirente finale, agli investimenti privati e pubblici, alle esportazioni nette (esportazioni totali meno importazioni totali). Non viene quindi conteggiata la produzione destinata ai consumi intermedi di beni e servizi consumati e trasformati nel processo produttivo per ottenere nuovi beni e servizi.” 1

Dalla fine della seconda guerra mondiale ad oggi, in quasi ogni paese la crescita del PIL è rimasta l’obiettivo primario delle politiche nazionali 2.

I limiti del PIL come misura del progresso reale di una società. I limiti dell’utilizzo del PIL come indicatore non solo economico, ma anche di benessere di una collettività in un paese sono insiti proprio nella sua definizione, infatti:

  • ll PIL tiene conto solamente delle transazioni in denaro, e trascura tutte quelle a titolo gratuito: restano quindi escluse le prestazioni nell’ambito familiare, quelle attuate dal volontariato (si pensi al valore economico del non-profit) ecc. Il rischio di utilizzare il PIL per valutare l’economia si può vedere meglio proprio nei paesi cosiddetti “in via di sviluppo” (termine che già di per sé è definito principalmente attraverso il PIL). In questi paesi molta della produzione avviene all’interno di un’economia di tipo famigliare ed è quindi al di fuori della comprensione del PIL. Una strategia di sviluppo basata sulla crescita del PIL può minare questa economia familiare e quindi diminuire il benessere della popolazione.
  • Il PIL non fornisce una misura della distribuzione del reddito all’interno della società, quindi non indica il livello di equità all’interno del paese. In letteratura è ampiamente riportato come il livello di disparità di reddito in una società sia fortemente correlato con una serie di outcomes di salute e sociali come l’aspettativa di vita, i tassi di mortalità, l’obesità, le gravidanze in età adolescenziale, la prevalenza di patologie psichiatriche, il tasso di omicidi e di violenza, la qualità delle relazioni sociali, le performance scolastiche e la mobilità sociale3. Stati con PIL simile possono avere differenze notevoli in termini di distribuzione del reddito e quindi differenze enormi anche in termini di benessere.
  • Il PIL tratta tutte le transazioni come positive, cosicché entrano a farne parte, ad esempio, i danni provocati dai crimini (riciclaggio di denaro), dall’inquinamento, dalle catastrofi naturali. In questo modo il PIL non fa distinzione tra le attività che contribuiscono al benesseree quelle che lo diminuiscono: persino morire, con i servizi connessi ai funerali, fa crescere il PIL
  • Il PIL non attribuisce i profitti di una multinazionale allo stato dove questa ha sede (dove i profitti al finale tornano) ma li attribuisce allo stato dove la fabbrica o attività è locata. Questo nasconde un fatto fondamentale: le Nazioni del “Nord” prendono le risorse dei paesi del Sud e lo chiamano un guadagno per il Sud.

 

Concetti brillantemente riassunti dal sociologo e filosofo Zygmunt Bauman che denunciando “un potere, quello finanziario, totalmente fuori controllo”, descriveva così l’assurdità della situazione: “Se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico perché il PIL non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo. [..] C’è una crisi di valori fondamentali. L’unica cosa che conta è la crescita del PIL. E quando il mercato si ferma la società si blocca”.

Già a partire dalla nascita del PIL nel 1934 durante la presentazione al Congresso Kuznet si espresse critico sulla possibilità di misurare il benessere di una popolazione basandosi sul solo reddito pro-capite: “[..] Il benessere di una nazione difficilmente può essere dedotto da una misura di reddito nazionale come sopra definito [..]”.

Nel corso della storia non sono state risparmiate critiche molto dure sulla possibilità di stimare il benessere di una nazione attraverso questo indicatore, resta celebre ad esempio il discorso pronunciato da Robert Kennedy alla Kansas University durante la campagna elettorale del 1968 pochi mesi prima del suo assassinio. Il tema del suo discorso era proprio il PIL ritenuto capace di misurare tutto “eccetto ciò che rende la vita veramente degna di essere vissuta”: “Non possiamo misurare lo spirito nazionale sulla base dell’indice Dow Jones né i successi del Paese sulla base del Prodotto Interno Lordo. Il nostro prodotto nazionale lordo, ora, è di oltre 800 miliardi di dollari l’anno, ma tale prodotto nazionale lordo – se giudichiamo gli Stati Uniti d’America in base ad esso- conta anche l’inquinamento dell’aria, la pubblicità delle sigarette, le ambulanze per sgombrare le nostre autostrade dalle carneficine del fine settimana… Comprende programmi televisivi che valorizzano la violenza per vendere prodotti violenti ai bambini. Cresce con la produzione di napalm, missili e testate nucleari».  E ancora: “Il PIL non tiene conto della salute delle nostre famiglie, della qualità della loro educazione e della gioia dei loro momenti di svago. Non comprende la bellezza della nostra poesia e la solidità dei valori familiari. Non tiene conto della giustizia dei nostri tribunali, né dell’equità dei rapporti fra noi. Non misura né la nostra arguzia né il nostro coraggio né la nostra saggezza né la nostra conoscenza né la nostra compassione. Misura tutto, eccetto ciò che rende la vita degna di essere vissuta“.

Spostandoci nel passato più recente, queste criticità appaiono nettamente confermate anche da un rapporto consegnato a Settembre 2009 4 al governo francese che all’inizio del 2008 aveva incaricato venticinque studiosi di calibro mondiale di studiare la relazione tra PIL e benessere sociale. I premi Nobel Joseph Stiglitz e Amartya Sen hanno coordinato la ricerca che prende appunto il loro nome, insieme a quello dell’economista Jean-Paul Fitoussi, titolare di molte cariche pubbliche in Francia e all’estero. Il voluminoso studio – trecento pagine – prova molto chiaramente che benessere e PIL sono due cose distinte, dimostrando così anche quanto sia errata la concezione che lega il benessere all’andamento del PIL.

Il Rapporto distingue opportunamente tra benessere materiale e benessere immateriale. Nel primo caso, l’attenzione si sposta dalla produzione al reddito e ai consumi del nucleo familiare, a un livello dunque più vicino alla persona. Nel secondo, si ricorda che il benessere dipende anche da attività che non danno luogo a scambi di mercato, come le prestazioni dirette tra soggetti. Prestazioni che si svolgono molto spesso nel tempo libero di cui infatti si sottolinea decisamente l’importanza, al punto che si rileva come molti paesi europei sorpasserebbero gli USA in termini di PIL pro capite, se il tempo libero fosse incluso nell’indice di benessere.

Le conclusioni di questo recente rapporto non fanno altro che confermare quello che molti cittadini già sanno senza bisogno di evidenze scientifiche, perché lo provano direttamente sulla propria pelle. Caso esemplificativo di questo è la campagna elettorale nel 1994 negli Stati Uniti: L’economia andava a gonfie vele (per lo meno a vedere dagli indici standard), la produttività e il tasso di occupazione erano alti, l’inflazione era sotto controllo e il World Economic Forum in Svizzera aveva dichiarato che gli Stati Uniti avevano ripreso la leadership di economia più competitiva al mondo, ma gli elettori non erano contenti. Questo gap tra quello che gli economisti scelgono di misurare e quello che gli Americani sperimentavano divenne l’enigma ufficiale della campagna elettorale “Paradosso del ’94:Elettori tristi in un periodo favorevole” Titolava in prima pagina il New York Times, e sulla copertina di Time Magazine si poteva leggere: “Boom per chi?”.

Gli indicatori economici sono il principale feedback che chiude il loop delle politiche nazionali. Definiscono i problemi, non solo economici, che la politica cerca di risolvere. Se gli indicatori di progresso economico sono obsoleti, allora saremo costretti a ricorrere continuamente a politiche che non possono avere successo perché non stanno affrontando il vero problema. Immaginiamo come sarebbe leggere sui giornali i valori di indicatori che permettessero di fare riflessioni del tipo la produzione nazionale è aumentata, ma i genitori lavorano per più ore e quindi hanno meno tempo per stare con i figli. Oppure, i consumi sono aumentati, ma la gran parte della differenza è attribuibile all’aumento delle spese mediche e per le riparazioni delle macerie lasciate dagli uragani e dalle inondazioni e cosi via. Report di questo tipo avrebbero un effetto radicale, romperebbero quella barriera di astrazione che l’economia così come è descritta oggi dal PIL e i suoi proxi (tasso di crescita, espansione, recupero, etc.) ci mette con la realtà. Questo permetterebbe alla politica di confrontarsi con l’economia reale che i cittadini sperimentano e in definitiva di dar conto delle proprie azioni.

Le alternative possibili. Per questi motivi altri indicatori per misurare il progresso di una nazione sono allo studio da tempo5. Tra i numerosi indici di benessere o di crescita alternativi al PIL sono stati proposti: L’indicatore di Progresso Reale (Genuine Progress Indicator- GPI)6, che cerca di misurare l’aumento della qualità della vita; l’Indice di Sviluppo Umano (HDI-Human Development Index)7 utilizzato dall’ Organizzazione delle Nazioni Unite a partire dal 1993 per valutare la qualità della vita nei paesi membri; l’Indice di Sostenibilità Economica (Index of Sustainable Economic Welfare); il  Subjective Well Being (SWB)8, vale a dire la percezione che gli individui hanno della propria vita e del grado di soddisfazione che provano per essa.

Il SWB, ad esempio, in paesi come gli Stati Uniti o come il Giappone diminuisce o stenta a crescere nonostante il reddito pro-capite tenda a crescere, costituendo per alcuni economisti un paradosso, il “paradosso della felicità” in quanto sono abituati a pensare al reddito come ad un buon indicatore di benessere.

Sia per convinzione sincera o per radicati interessi professionali, molti politici, economisti e l’opinione comune spesso affermano che una misura di progresso nazionale deve essere scientifica e priva di giudizi e che qualsiasi tentativo di misurare l’economia che veramente incide sulle persone comporterebbe troppi assunzioni e imputazioni, troppi giudizi di valore riguardo a cosa includere. Quindi in definitiva meglio rimanere nella supposta terra ferma del PIL. Ma il PIL è ben lontano dall’essere privo di valori. Lasciare i costi sociali, di salute o ambientali fuori dal calcolo economico non evita giudizi di valore. Al contrario, effettua un enorme giudizio di valore che cose come lo stato di salute, la disgregazione delle famiglie, la distruzione dell’ambiente, la perdita del tempo libero e la disoccupazione, contano per niente nel bilancio economico. La realtà è che il PIL già pone un valore arbitrario a questi fattori: un grande zero. Certamente non ci sarà mai la maniera di dare un esatto valore monetario alla nostra famiglia, comunità, oceani e spazi aperti. Ma questo non significa che non abbiano valore. Significa solo che non abbiamo un modo di valorizzarli nella forma comparabile ai prezzi di mercato. Visto questo la sfida è semplicemente di iniziare a dare valori che sono più ragionevoli di zero. Una approssimazione sarebbe meno distorta e perversa rispetto a come è il PIL adesso e produrrebbe un quadro dei progressi economici più accurato. Meglio essere approssimativamente nel giusto che precisamente in errore.

 

Bibliografia

Wikipedia

2 Van den Bergh, J. C. J. M. J. Econ. Psychol. 30, 117–135 (2009).

3 R.G. Wilkinson, K.E. Pickett The problems of relative deprivation: Why some societies do better than others. Social Science & Medicine 65 (2007) 1965–1978

Stiglitz, J. E., Sen, A. & Fitoussi, J.-P. Report by the Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress Vol. 12 (Commission on the Measurement of Economic Performance and Social Progress, 2009).

Robert Costanza, Enrico Giovannini, Richard Wilkinson. Development: Time to leave GDP behind. NATURE 16 Jan 2014. Vol 505 – 283

6 Talberth, J., Cobb, C. & Slattery, N. The Genuine Progress Indicator 2006: A Tool for Sustainable Development (Redefining Progress, 2007).

http://hdr.undp.org/en/content/human-development-index-hdi

Layard, R. Happiness: Lessons from a New Science. Penguin, 2

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