Nel suo ultimo libro Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzioni” (Einaudi) il giornalista Vincent Bevins ha ripercorso quanto accaduto in giro per il mondo tra il 2010 e il 2020, interrogandosi su cosa non abbia funzionato e sul perché gli obiettivi prefissati non sono stati raggiunti
Come è possibile che il decennio più partecipato di sempre in termini di proteste abbia portato pochi o nulli cambiamenti nella società? È quello che il giornalista statunitense Vincent Bevins ha provato a chiedersi nel suo ultimo libro Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzioni, edito da Einaudi, raccontando i vari movimenti che, tra il 2010 e il 2020, sono nati in giro per il mondo. Dal Brasile a Hong Kong, dal Cile alla Turchia, passando naturalmente per le primavere arabe. Eventi che hanno caratterizzato la storia nazionale, incapaci però di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissati.
L'ultimo decennio è stato il più partecipato in tutta la storia in termini di proteste. C'è un elemento determinate che ha spinto così tante persone per le strade?
Ce ne sono diversi. Cerco sempre di affermare che ogni caso è diverso, ma due di questi sono presenti in quasi tutti quelli che ho analizzato. Il primo è la risposta alla crisi finanziaria del 2008 e il modo in cui le élite hanno risposto a quella crisi, non solo negli Stati Uniti, ma anche in Europa occidentale, Africa, Asia, America Latina. La seconda è l’avvento dei social media, che hanno contribuito a causare molte di queste rivolte. Spesso, la narrazione di allora era che queste rivolte erano tutte legate ai social media, e che questo fosse un bene. Il mio punto di vista si tratta solo in parte dei social media e che, nella misura in cui è vero, non è una cosa positiva. I social network hanno reso più facile la mobilitazione rapida, ma non hanno certo reso più semplice la vera organizzazione. Forse l'hanno addirittura resa più difficile.
Anche quando le proteste hanno avuto successo, non si è ottenuto tutto quello che si voleva conquistare. Rivoluzioni a metà, potremmo chiamarle. Cosa lo ha reso possibile?
Ho cercato di ricostruire gli eventi in modo cronologico, chiedendo alle persone cosa è successo, cosa hanno cercato di raggiungere, cosa hanno ottenuto e cosa avrebbero fatto in modo diverso. La dimensione del successo o della sconfitta varia. Alcune di queste proteste sono riuscite a raggiungere quelle che si chiamano vittorie qualificate, come in Corea del Sud o in Cile. In altri casi, le cose sono andate male. Mi sono incuriosito al fatto che le proteste di massa potessero esistere in termini di euforia ma che non avessero la forza di portare a una rivoluzione. Sarebbe però sbagliato dire che questa strategia non abbia funzionato.
Il bilancio è più positivo o negativo?
È stata incredibilmente efficace nel portare in strada o nelle piazze molte più persone di quante si potesse mai immaginare. Questo ha creato opportunità reali, rovesciando un governo esistente o convincendolo che, per salvarsi, avrebbe dovuto cedere in qualche modo al popolo. Ma quando si sono create queste opportunità si è scoperto che una protesta, in particolare una protesta di questo tipo, era molto poco adatta a sfruttarle. Nei casi specifici che ho esaminato, in nessuno di essi è stato il movimento di protesta a trarre vantaggio.
C’entra qualcosa la mancanza di un leader riconosciuto alla guida dei vari movimenti?
L’assenza di una leadership chiara ne ha imposta una dall’esterno. Una protesta strutturata orizzontalmente, senza leader, spontanea, riunita dai social media, non poteva colmare un vuoto di potere per formare un governo provvisorio e nemmeno far parte della transizione verso un nuovo esecutivo. Quando i vari governi hanno cercato di andare in piazza per capire cosa chiedevano, questi movimenti non sono riusciti nemmeno a elaborare una serie di richieste chiare. Credevo che fosse comprensibile l’istinto di dare voce a chiunque in modo uguale, rinunciando a quelle strutture verticali che si credeva avessero causato abusi nel passato.
E invece?
Molte persone che hanno preso parte alle proteste credevano che ci fossero le condizioni per andare avanti, ma questo avrebbe richiesto un meccanismo per agire collettivamente e per decidere come interagire tra il movimento e il mondo esterno. Tutto questo non è necessariamente autoritario. Ci sono modi democratici in mano a un movimento per decidere che struttura vuole avere, chi lo deve rappresentare, quali richieste presentare, cosa tollererà e cosa no. Ma l’orizzontalità tipica dei social network non ha permesso che queste decisioni venissero prese in tempi brevi.
Sembrerebbe che i social media abbiano solo remato contro le proteste, invece che favorirle.
Hanno permesso una rapida trasmissione delle immagini da una parte all’altra del mondo. Il sottotitolo del libro è “Le proteste di massa del decennio e la rivoluzione mancata” e all’interno del volume mi soffermo molto sul Brasile. Ma avrei potuto chiamarlo “Il decennio di Piazza Tahrir”. Molto di quello che accade dopo il 2011 è una conseguenza di ciò che le persone vedono accadere al Cairo, nel tentativo di fare lo stesso nel loro paese. In Occupy Wall Street c’era la riproduzione del modello di Piazza Tahrir, così come nei movimenti in Grecia e in Spagna. A Hong Kong hanno cercato di emulare Occupy Wall Street, che è ispirato dal caso egiziano. I social network permettono una solidarietà immediata in tutto il mondo, oltre che un aumento nell’accesso dell’informazione. È un qualcosa di estremamente positivo. Se pensiamo alle rivoluzioni del 1848, il processo era simile ma molto più lungo. I gruppi rivoluzionari prendevano l’ispirazione da eventi accaduti giorni o settimane prima. Nel 2011 tutto questo è avvenuto cinque secondo dopo. Anche riproponendo le stesse tattiche in contesti molto diversi rispetto al Cairo, come possono essere New York o Hong Kong.
Ha parlato di immagini che circolano rapidamente in tutto il mondo. Contrariamente a quanto credeva l’ex primo ministro britannico Gordon Brown, convinto che grazie ai social le atrocità sarebbero diminuite, queste sono comunque state amplificate dalle piattaforme.
È difficile spiegare a persone molto più giovani di me che nel 2010-11, all’epoca di Gordon Brown, le persone credevano che Internet e le aziende di social network californiane avrebbero contribuito a rafforzare la democrazia, la trasparenza e a raccontare la verità. Ora è vero l’esatto opposto, ovvero che possono essere venire usati per disinformare invece che fare rivoluzioni. Non solo i buoni hanno imparato a usarli. Gruppi di destra, fascisti, Stati autoritari: tutti hanno imparato a farlo per promuovere le loro idee. Abbiamo una tale quantità di materiale che si può creare qualsiasi narrativa.
Lo stiamo vedendo con le guerre in corso. Come giudica l’operato di Israele in termini di comunicazione?
Ho personalmente partecipato alle proteste contro ciò che sta accadendo in Palestina, prima e dopo il 7 ottobre. Leader come Benjamin Netanyahu e Joe Biden possono scegliere di ignorarle, se vogliono. Un po’ come successe nel 2003 al momento dell’invasione dell’Iraq. Il messaggio che era stato mandato dalle persone di tutto il mondo a Tony Blair e George W. Bush era molto chiaro, ma hanno scelto di non ascoltare. Il motivo è che queste proteste non sono abbastanza. Di solito è necessario esercitare un tipo di pressione su questioni che interessano davvero chi prende decisioni. La storia dell’ultimo decennio è piena di persone che compiono sacrifici per cause nobili, ma senza che ciò funzioni. È possibile dimostrare al mondo che sei nel giusto ma, allo stesso tempo, venire tragicamente ignorato da chi è al potere.
Nel libro c’è una dura critica alla stampa e al ruolo negativo che ha avuto nelle proteste. Il giornalismo cosa dovrebbe imparare dall’ultimo decennio?
Abbiamo bisogno di una solida capacità di comprendere il contesto e di capire cosa c’è dietro le storie, piuttosto che limitarci a puntare lo smartphone o la macchina fotografica su qualcosa che appare sensazionale o che si pensi possa interessare di più alla gente perché conferma il loro pensiero. Intervistando le persone per questo libro ho scoperto come molte di loro credono che questa protesta di massa apparentemente senza leader e spontanea è particolarmente vulnerabile al traviamento da parte dei media, o perché lo fanno di proposito o perché vogliono costruire una storia che soddisfi il loro capi. Abbiamo fallito. Servono organi di stampa migliori, giornalisti più numerosi e responsabili. Ma tutto ciò richiede finanziamenti. E il giornalismo sta vivendo un momento crisi, in cui i modelli di business sono tutti scomparsi e non siamo in grado di immaginare alternative.
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