giovedì 24 aprile 2025

25 APRILE. FRA RESISTENZA E RIVOLUZIONE. BARONE E., Dalla Resistenza alla Rivoluzione: la via esclusa, SINISTRAINRETE, 23.04.2025

 1. La “rivoluzione senza rivoluzione”1: il caso italiano

Nella primavera del 1943 gli operai di Torino presero l’iniziativa di un possente movimento di sciopero che si estese anche a Milano e a Genova, coinvolgendo più di centomila lavoratori. La sconfitta tedesca a Stalingrado, lo sbarco angloamericano in Sicilia, gli scioperi operai del Nord fanno comprendere ai gruppi dirigenti della borghesia italiana che è giunto il momento di sbarazzarsi di Mussolini e di rifugiarsi sotto l’ala protettrice degli Alleati. Nel contempo, il loro principale obiettivo è quello di prevenire uno sbocco rivoluzionario della crisi del regime, mentre il governo Badoglio mostra fin da subito la sua vera faccia, repressiva e antipopolare.

In una circolare governativa del governo Badoglio (definito con giusto disprezzo “governo dei Fu”) – la tristemente nota “circolare Roatta” del 26 luglio 1943 - si dànno le seguenti istruzioni, che saranno fedelmente applicate dall’esercito nella repressione sanguinosa dei moti popolari che esplosero nel periodo dei “quarantacinque giorni” (25 luglio 1943 – 8 settembre1943): «Ogni movimento deve essere inesorabilmente stroncato in origine […] Le truppe procedano in formazione di combattimento, aprendo il fuoco a distanza, anche con mortai e artiglieria, senza preavvisi di sorta, come se si procedesse contro il nemico. Non si tiri mai in aria, ma colpire come in combattimento, e chiunque, anche isolatamente, compia atti di violenza contro le forze armate venga immediatamente passato per le armi.» 2

La storia subisce una forte accelerazione: i partiti antifascisti e i sindacati ritornano alla legalità, mentre si moltiplicano gli scioperi in cui si esige la liberazione dei detenuti politici. Nelle fabbriche si costituiscono per elezione le commissioni operaie (i primo organi elettivi che sorgono in Italia dopo la caduta di Mussolini). Frattanto i tedeschi che già avevano sette divisioni in Italia ne inviano altre 18, occupando di fatto il Nord e il Centro del paese senza che il governo Badoglio prenda alcuna misura difensiva.


Il re e il maresciallo, e la grande borghesia italiana, memori della nota tradizione per cui la dinastia dei Savoia non aveva mai concluso una guerra dalla stessa parte in cui l’aveva iniziata, si illudevano di porre in atto il ‘revirement’ nel campo della politica estera e di potersi concentrare nella lotta contro il nemico interno, utilizzando l’apparato dello Stato fascista e avvalendosi del consenso dei tedeschi e degli angloamericani nel condurre in porto tale operazione. Ma la reazione dei tedeschi chiuse questa prospettiva e l’unica soluzione che rimase al ‘Governo di Sua Maestà’ fu quella di rifugiarsi al Sud, nel territorio occupato dalle truppe alleate, senza aver preso la minima misura difensiva e lasciando ai tedeschi il compito di reprimere il movimento antifascista nel Nord e nel Centro del paese. Dopo l’8 settembre passerà ancora più di un mese prima che Badoglio, dietro pressione degli Alleati, dichiari la guerra alla Germania.

A partire dal novembre 1943 il movimento di massa e l’azione armata cominciano ad assumere una grande ampiezza nella zona settentrionale e si sviluppano scioperi importanti in Piemonte, in Lombardia, in Liguria e in Toscana. Per iniziativa della direzione comunista del Nord e con l’appoggio del CLNAI, nel marzo 1944 viene dichiarato lo sciopero generale nel territorio occupato dai tedeschi. Più di un milione di lavoratori partecipano al movimento, il più importante di questo genere durante la IIª guerra mondiale nell’Europa occupata. Contemporaneamente alle azioni di sciopero e alle altre forme di lotta di massa, si sviluppa rapidamente la lotta armata partigiana, Mentre nel Nord incomincia così a prendere corpo un tessuto di vero e proprio potere popolare, nel Sud agrario incominciano a formarsi le strutture di un nuovo potere politico della borghesia italiana.

Nel periodo che segue la caduta di Mussolini i ‘leader’ della sinistra cercano di giungere a un accordo con Badoglio per organizzare la lotta contro l’occupazione tedesca, ma la politica repressiva e antipopolare, praticata con immutato spirito forcaiolo dal re e dal maresciallo, e la loro tacita complicità con i nazisti rendono impossibile qualsiasi collaborazione. Dopo l’abbandono di Roma il problema di creare un governo rappresentativo dell’antifascismo, che sia disposto a portare avanti la lotta contro la Germania nazista, balza in primo piano. Frattanto i “tre grandi” hanno riconosciuto ‘de facto’ il governo Badoglio e nella loro “Dichiarazione sull’Italia”, pubblicata alla fine dell’ottobre 1943, raccomandano l’inclusione nel governo di «rappresentanti di quei settori del popolo che si sono sempre opposti al fascismo». Il 12 novembre 1943 la «Pravda» pubblica un articolo di Togliatti, il quale si trovava ancora in Unione Sovietica: «Le misure indicate in questa dichiarazione – scrive il capo del PCI – corrispondono esattamente alle aspirazioni e agli interessi del popolo italiano. Costituiscono il programma intorno a cui devono unirsi tutte le forze antifasciste democratiche del paese per rendere possibile la sua immediata realizzazione.» Vale la pena di rammentare che la sostanza di questo “programma”, firmato dai rappresentanti di Churchill e di Roosevelt, consisteva nell’instaurazione di una democrazia borghese in Italia e che per iniziare la sua costruzione esso esigeva l’accordo tra i partiti antifascisti e il governo Badoglio, che era giustamente considerato da questi partiti come una sopravvivenza del fascismo.

Sennonché la posizione di Togliatti divergeva nettamente dalla posizione che in quel momento aveva il PCI nel paese. Non a caso un documento interno della direzione del partito che operava nell’Italia occupata, risalente alla fine di ottobre 1943, afferma quanto segue: «Compito e funzione della classe operaia è di porsi all’avanguardia della lotta per la liberazione nazionale, e attraverso questa lotta conquistare tale influenza sul popolo italiano da divenire la forza direttiva per una effettiva democrazia popolare. Questa deve essere la politica del Partito comunista.» Il documento indica due errori: il primo sarebbe consistito nell’identificare gli obiettivi della Resistenza con la rivoluzione proletaria, cadendo nell’“infantile estremismo”. «Ma sarebbe pure grave errore in senso opportunista quello di sottovalutare l’importanza del problema della direzione politica nel complesso delle forze fra cui opera la classe operaia, e per un malinteso senso di unità, accedere e consentire alle esigenze di quelle forze reazionarie di cui Badoglio e la monarchia sono l’espressione.» 3 È significativo che questo documento fosse pubblicato dalla stampa illegale del partito sotto forma di articolo nel mese di dicembre, dopo che la radio di Mosca aveva fatto conoscere la posizione di Togliatti. Merita inoltre di essere sottolineato che la politica del partito socialista in questo periodo non si poneva alla destra del PCI, ma era ben più radicale, e anche il Partito d’azione affermava che gli obiettivi della Resistenza non potevano limitarsi all’instaurazione di una democrazia borghese.

 

2. La “svolta di Salerno” e la sua gestione opportunista

Alla fine del gennaio 1944 si riunisce a Bari un Congresso unitario di tutti i partiti antifascisti, cui assistono alcuni delegati del CLN. Il Partito d’azione propone al Congresso una serie di misure che vengono appoggiate dai comunisti e dai socialisti, oltre che dai delegati del CLN: esigere l’abdicazione immediata del re; costituirsi in Assemblea rappresentativa del paese fino alla elezione di un’Assemblea Costituente; designare una giunta esecutiva incaricata dei rapporti con le Nazioni Unite. Il nodo gordiano che non poteva essere sciolto se non con un atto di forza ed entrando in conflitto con gli Alleati, è però quello del destino del sovrano. Viene tuttavia nominata una giunta esecutiva, ma il Congresso non arriva a costituirsi in Assemblea rappresentativa. A ogni modo, i partiti di sinistra non rinunciano alle loro posizioni; anzi, in risposta al discorso che Churchill pronuncia il 22 febbraio e in cui ironizza sulle risoluzioni antimonarchiche e antibadogliane del Congresso di Bari, 4 gli operai di Napoli indicono uno sciopero, che di fronte all’opposizione delle autorità militari alleate viene sostituito da un grande comizio popolare cui partecipano soltanto i partiti di sinistra. Quando nel mese di marzo l’agitazione contro il governo raggiunge il culmine, Badoglio annuncia il riconoscimento del suo governo da parte dell’Unione Sovietica e il ristabilimento dei rapporti diplomatici tra i due paesi (gli Alleati non avevano ancora compiuto questo passo).

Questa è dunque la situazione che trova Togliatti quando sbarca a Napoli il 27 marzo 1944, deciso ad applicare il programma dei “tre grandi”, Non può allora sorprendere il fatto che il suo giudizio sulla politica dei partiti antifascisti di sinistra, e in particolare su quella del suo partito, fosse piuttosto severo. Anni dopo dirà ai suoi biografi che il PCI si era messo su una “strada pericolosa, senza prospettive”, giungendo al punto di organizzare «comizi di protesta contro Churchill, studiando con altri gruppi antifascisti la possibilità di fare una consultazione popolare per iniziativa non del governo ma dei partiti». 5 In un attimo Togliatti sposterà il partito dal piano inclinato di una politica di classe e lo porterà sulla retta via della politica di unità nazionale. Il 29 marzo si riuniscono i dirigenti del partito nella zona meridionale e Togliatti propone di «aggiornare il problema istituzionale fino al momento in cui potrà essere convocata un’Assemblea costituente, di mettere in primo piano l’unione di tutte le correnti politiche nella guerra contro la Germania e di giungere alla creazione immediata di un governo di unione nazionale». Secondo quanto si legge nella stessa biografia, all’inizio “la maggior parte dei presenti fu sbalordita”, ma Togliatti, oltre a essere un polemista di razza, espose il suo discorso con tutta l’autorevolezza che gli derivava dal prestigio dell’Internazionale Comunista e dell’Unione Sovietica e, anche se alcuni vecchi dirigenti del partito non si lasciarono convincere così facilmente, finì con l’ottenere il consenso dell’uditorio al quale si rivolgeva. 6

La svolta del partito comunista, passata alla storia come la “svolta di Salerno”, permise di vincere la resistenza dei socialisti e degli ‘azionisti’. Vittorio Emanuele, cedendo alle pressioni di Benedetto Croce e di Roosevelt, accettò di ritirarsi e di nominare luogotenente del regno il principe Umberto, una volta che Roma fosse stata liberata. Nel nuovo governo Badoglio entrò come vice-presidente del Consiglio lo stesso Togliatti. Orbene, nei documenti del PCI si è sempre presentata la costituzione del governo di unità nazionale presieduto da Badoglio come un’iniziativa essenzialmente italiana, il cui principale artefice era stato Togliatti. In realtà si era trattato di un’operazione dei “tre grandi” e, secondo alcune fonti sovietiche, il merito dell’iniziativa deve essere attribuito al governo dell’URSS. La Grande Enciclopedia Sovietica lo afferma a chiare lettere: «per iniziativa dell’URSS che l’11 marzo aveva stabilito relazioni dirette con il governo italiano, il 22 aprile 1944 venne riorganizzato il governo Badoglio con l’inclusione di rappresentanti dei sei partiti della coalizione antifascista.» 7 Siccome chi governava di fatto il territorio italiano era l’AMGOT (la commissione militare alleata, in cui non c’erano rappresentanti sovietici), il riconoscimento diplomatico del governo Badoglio, con l’ingresso dei comunisti in tale governo, dava all’URSS la possibilità di intervenire direttamente su questo terreno. Nell’ottica di Stalin la questione consisteva pertanto nel potenziare in alcuni paesi-chiave dell’Europa occidentale, come la Francia e l’Italia, i fattori capaci di controbilanciare l’influenza degli Alleati.

 

3. La “svolta di Salerno” e il corso opportunista e revisionista del PCI

È doveroso, a questo punto, affrontare una questione cruciale che si può riassumere nella seguente domanda: che rapporto intercede tra la “svolta di Salerno” e il revisionismo togliattiano? In altri termini, quando cominciò a manifestarsi apertamente il revisionismo di Togliatti? Nella ricerca della risposta corretta a questi interrogativi occorre, in primo luogo, sgombrare il campo da un falso problema e riconoscere che la scelta di formare un governo di unità nazionale per la lotta contro il nazifascismo era del tutto giusta e non sbarrava affatto la prospettiva della rivoluzione. In secondo luogo, poiché non esiste alcun documento dell’epoca (e nemmeno posteriore a quell’epoca) in cui sia dato trovare una concreta analisi del PCI riguardo al rapporto di forze tra borghesia e proletariato nella congiuntura storica 1944-1947, il presupposto secondo cui tale rapporto non permetteva una soluzione socialista della crisi del capitalismo italiano (o conduceva inevitabilmente ad un esito di tipo greco) veniva affermato dalla direzione del PCI (ma analogo ragionamento valeva anche per il PCF) come una sorta di principio metafisico o di assioma matematico, partendo dal quale tutta la politica successiva del partito era giustificata. In realtà, non fu la “svolta” in quanto tale, e tanto meno l’URSS, ad impedire uno sbocco rivoluzionario della crisi del capitalismo italiano; fu invece Togliatti a escluderlo in modo aprioristico usando la vaga formula della “democrazia progressiva” la quale, secondo la sua interpretazione, indicava un regime che, pur restando nell’àmbito della società borghese, si sarebbe trasformato gradualmente in un regime socialista grazie al progressivo estendersi dell’egemonia politico-culturale della classe operaia e dei suoi alleati, laddove tale egemonia era vista non come una delle condizioni per la conquista del potere ma come la via stessa per giungervi.

Insomma, non fu Stalin a scambiare la tattica per la strategia rivoluzionaria né fu la “svolta di Salerno” ad aprire il corso opportunista e revisionista del PCI. Fu invece la concreta prassi politica seguita in quel periodo da Togliatti e dal gruppo dirigente del PCI, che in quella congiuntura trovarono l’occasione per imboccare una linea di destra, revisionista, di cui si erano peraltro manifestati alcuni sintomi nel periodo precedente e di cui il browderismo fu la manifestazione più clamorosa a livello internazionale. 8 Tale linea era. da un lato, il prodotto della sfiducia nelle capacità e nelle possibilità rivoluzionarie del proletariato e dei suoi alleati, e dall’altro scaturiva dalla scelta di rimanere sul terreno preferito dalla borghesia e non su quello, più vantaggioso per il proletariato, di una lotta rivoluzionaria di massa per modificare i rapporti di forza e creare le condizioni della vittoria nel processo della rivoluzione ininterrotta che avrebbe dovuto portare dal capitalismo, attraverso la distruzione del fascismo, al socialismo/comunismo. Questo orientamento democratico-riformista era già evidente nelle istruzioni per la Direzione del partito che Togliatti inviò il 6 giugno 1944 “a tutti i compagni e a tutte le formazioni di partito”. In questo importante documento Togliatti, dopo aver affermato che la linea generale del partito è l’insurrezione generale delle regioni occupate contro i nazifascisti, precisa «che l’insurrezione che noi vogliamo non ha lo scopo di imporre trasformazioni sociali e politiche in senso socialista e comunista, ma ha come scopo la liberazione nazionale e la distruzione del fascismo. Tutti gli altri problemi verranno risolti dal popolo, domani, una volta liberata tutta l’Italia, attraverso una libera consultazione popolare e l’elezione di una Assemblea costituente». 9 È quasi superfluo osservare che qui manca il concetto di una rivoluzione ininterrotta ed è invece presente il riferimento ad una futura democrazia fondata sui partiti, sia borghesi che proletari (del resto, è opportuno rammentare che i CLN erano basati sui partiti e non su organismi di massa).

 

4. Il Togliatti revisionista: realismo o utopia?

Le prime tappe di questo percorso involutivo, conseguenza inesorabile della drastica esclusione di una linea rivoluzionaria, furono: la rinuncia a sfruttare la situazione di accesa lotta di classe, una vera e propria mobilitazione rivoluzionaria delle masse, apertasi nel 1945; l’amnistia ai fascisti; la mancata risposta di lotta quando nel maggio del 1947 il PCI fu estromesso dal governo per opera di De Gasperi, il quale agiva su mandato degli USA, che dovevano avviare il Piano Marshall, e del Vaticano, attestato con il papa Pio XII su una linea di aggressivo anticomunismo; l’art. 7 della Costituzione che, illudendosi di modificare l’atteggiamento del Vaticano, convalidava il Trattato e il Concordato mussoliniani che riconoscevano al cattolicesimo e al clero cattolico privilegi speciali ecc. In buona sostanza, Togliatti sfruttò la nuova situazione politica, che egli stesso aveva contribuito a creare, e la stessa esperienza delle alleanze antifasciste per annebbiare la coscienza del proletariato e seguire un’altra linea, non più rivoluzionaria e di classe ma gradualista e interclassista, non più caratterizzata dal legame fra lotta antifascista e lotta per il socialismo ma subordinata agli interessi della classe dominante. Egli non commise dunque solo errori tattici e di valutazione, ma strategici e di principio, escludendo la via rivoluzionaria della conquista del potere da parte della classe operaia, teorizzando la via pacifica e parlamentare, trasformandosi in tal modo da comunista in socialdemocratico ben prima della svolta revisionista attuata dal XX Congresso del PCUS (1956).

La critica di ordine va quindi centrata sul fatto che la ‘svolta’ non costituì l’inizio di un ampio disegno politico di classe (come allora numerosi amici e nemici del PCI credettero), ma fu invece l’inizio di quello che del resto lo stesso Togliatti proclamò, e ha poi sempre ribadito, che fosse, e cioè un inserimento strategico e permanente della classe operaia nella società borghese e nella sua gestione governativa. In altri termini, quando Togliatti evocava la formula della “democrazia progressiva”, dimostrava di essere giunto alle ultime conseguenze del lungo viaggio che dal marxismo-leninismo l’aveva portato al revisionismo.

A pochi giorni dalla liberazione, il 7 aprile 1945, parlando al II Consiglio Nazionale del PCI, Togliatti precisava così gli obiettivi della propria politica: «1) Fare il più grande sforzo per la liberazione totale del paese…; 2) evitare che la liberazione del Nord sia accompagnata da urti e conflitti i quali possono creare gravi malintesi tra il popolo e le forze alleate liberatrici…; 3) evitare che si crei, liberato il Nord, una frattura tra il settentrione e il resto d’Italia, frattura che potrebbe essere esiziale per il nostro paese, in quanto aprirebbe un capitolo di storia pieno di confusione». Naturalmente tutte queste preoccupazioni di “fratture”, di “urti” e di “conflitti” non potevano che mostrarsi il migliore alleato per il ritorno in forze del sistema borghese. D’altra parte, tutta la teorizzazione togliattiana del “partito nuovo”, teso alla creazione di una “democrazia progressiva” in cui la classe operaia assuma una funzione dirigente senza l’abbattimento delle strutture dello Stato borghese, conteneva, dal punto di vista del marxismo, il grave errore di confondere una egemonia politica con l’effettiva dittatura del proletariato conquistata per via insurrezionale. Senza contare che, come si è notato in precedenza, la concezione, secondo cui la classe operaia possa acquisire una funzione dirigente nella vita nazionale prima della (e senza la) conquista del potere politico di Stato, è una posizione tipicamente gradualista e socialdemocratica.

Era davvero passata molta acqua sotto i ponti da quando, dieci anni prima, un Togliatti ancora leninista aveva dichiarato al VII Congresso dell’Internazionale che una «collaborazione temporanea con la borghesia», così come teorizzata dalla politica dei fronti popolari, «non deve mai condurre a rinunciare alla lotta di classe, cioè non può e non deve essere mai una collaborazione riformista. È tanto più necessario sottolineare questo elemento, in quanto sappiamo che la borghesia, anche se in un determinato momento è costretta a prendere le armi per la difesa della libertà e dell’indipendenza nazionale, è sempre pronta a passare nel campo avversario di fronte al pericolo della trasformazione della guerra in guerra popolare e di una potente sollevazione delle masse operaie e contadine per esigere l’attuazione delle loro rivendicazioni di classe». 10

È stato osservato, da un punto di vista sia teorico sia storico, che «aver ridotto il partito alla ceralacca che tiene insieme il blocco storico, è stato uno dei più forti, forse il più forte, elemento di blocco dell’intera prospettiva rivoluzionaria, in Italia. Il concetto gramsciano di blocco storico era niente altro che la rilevazione di uno stadio particolare, di un momento nazionale dello sviluppo capitalistico. La sua immediata generalizzazione, nelle stesse opere del carcere, era già un primo errore. Il secondo errore, molto più grave, fu la volgarizzazione togliattiana del partito nuovo che doveva tendere sempre più a identificarsi con questo blocco storico, fino a sparire in esso, man mano che la storia della nazione veniva a identificarsi con la politica nazionale del partito di tutto il popolo. È facile dire oggi: il disegno non è riuscito. La verità è che non poteva riuscire. Il capitalismo non permette queste cose a chi, sia pure formalmente, parla a nome della classe avversaria. Il capitalismo tiene questi programmi per sé, li adatta al suo livello, li usa nel proprio sviluppo. Tutti hanno detto Togliatti realista. Ma è stato forse l’uomo più lontano dalla realtà sociale del suo paese che il movimento operaio abbia mai espresso. Viene il dubbio che il suo non fosse opportunismo ben calcolato, ma un’utopia bella e buona scarsamente ragionata.» 11

 

5. Una ‘possibilità reale’ scartata a priori

Per converso, ricorrendo a un’ipotesi controfattuale, si può provare a delineare uno scenario ben diverso, corrispondente a quella ‘possibilità reale’ che allora fu scartata dal gruppo dirigente del PCI a causa del condizionamento opportunista e revisionista. 12 La premessa maggiore dell’argomentazione che ci si propone di svolgere è la seguente: a partire dal 1943 la possibilità di una soluzione rivoluzionaria della guerra di liberazione contro il nazifascismo si profila, per quanto concerne lo scenario dell’Europa occidentale, in quattro paesi: Italia, Francia, Jugoslavia e Grecia. Nel contempo si profila la sconfitta della Germania e il ruolo decisivo che hanno in essa le armate sovietiche, la cui offensiva generale si sviluppa con un ritmo travolgente su tutti i fronti nell’estate di quell’anno.

Si può allora affermare, da questo punto di vista, che la ‘svolta’, in quanto espressione di una politica abile e matura, poteva costituire l’inizio di un’azione a largo raggio tendente a battere i nemici di classe isolandoli volta per volta dalle altre forze, a partire dal fascismo e dai tedeschi, passando attraverso gli Alleati, per giungere ai partiti conservatori e reazionari. È innegabile che la possibilità di una linea politica che combinasse dialetticamente la lotta armata contro il nazifascismo con la lotta per una soluzione socialista si era presentata concretamente in Italia dopo la caduta di Mussolini, quando, per dirla con le parole di Togliatti, sprofondarono le vecchie fondamenta dello Stato borghese, compresa la sua organizzazione militare, ed ebbe inizio la sollevazione popolare più grande di tutta la storia d’Italia; quando sul fronte di questa formidabile avanzata popolare si trovarono comunisti, socialisti e intellettuali progressisti. Sennonché durante i due anni trascorsi tra lo sbarco alleato in Sicilia e l’insurrezione del Nord, il PCI non si propose di organizzare la lotta delle masse contadine per la terra e frenò le tendenze verso una soluzione socialista che si profilavano nel grande movimento proletario del Nord. In pratica, la gestione togliattiana della ‘svolta’, ossia della politica di unità nazionale, consisté nel frenare il movimento di massa per evitare, da un lato, la rottura della coalizione governativa e, dall’altro, qualsiasi scontro con le autorità militari angloamericane. Ma solo il movimento di massa, la sua affermazione come potere autonomo a tutti i livelli, con un suo specifico programma, poteva minare e alla fine impedire la restaurazione del potere tradizionale che si andava man mano compiendo. La presenza degli Alleati avrebbe dovuto certamente suggerire metodi differenti rispetto agli jugoslavi, una forma di scontro essenzialmente politica. Ma proprio questa presenza e proprio il comportamento delle autorità militari angloamericane fornivano un vivo insegnamento al popolo e permettevano alla sinistra comunista di esprimere e far valere la coscienza nazionale risvegliata dalla guerra di liberazione, esigendo il pieno riconoscimento della sovranità italiana e il diritto del popolo a darsi liberamente i propri organi di governo senza che le autorità militari angloamericane interferissero negli affari interni dell’Italia.

Riassumendo e concludendo, nei primi mesi del 1945 la Germania era praticamente sconfitta; le armate sovietiche, rinforzate da importanti contingenti bulgari, romeni e polacchi e anche dall’Esercito di liberazione jugoslavo, avevano una decisiva superiorità nel continente rispetto alle forze alleate; gli Stati Uniti erano ancora impegnati nella guerra del Pacifico. In tutta Europa era il momento del massimo entusiasmo popolare per gli ideali democratici e innovatori della Resistenza. Sviluppando allora l’ipotesi controfattuale in questione, ci si potrebbe domandare che cosa sarebbe successo se in questa situazione i movimenti operai della Francia e dell’Italia fossero passati risolutamente all’offensiva ponendo all’ordine del giorno la questione del potere dei lavoratori sulla base di un programma di trasformazione democratica e socialista. Sarebbe forse scattato l’intervento degli Alleati? Potevano Roosevelt o Truman rischiare politicamente di sostituirsi a Hitler contro la sinistra europea? Erano nelle condizioni militari per farlo? Certo, il pericolo non poteva essere scartato, come nell’ottobre 1917 non poteva essere scartato il pericolo dell’intervento degli eserciti tedeschi, che stavano per schiacciare la rivoluzione russa. È però altrettanto vero che finora non si sono conosciute rivoluzioni munite di permesso e garantite da ogni pericolo…

Ponendosi al termine della congiuntura storica oggetto di questa disàmina, ci si può chiedere infine se la politica di unità nazionale del PCI sarebbe stata più fruttuosa, qualora a condizionarla e a limitarla, soprattutto sul terreno politico e sociale, non vi fosse stato il timore di un brutale intervento angloamericano. È però incontestabile che essa venne sfruttata a fondo dalla borghesia italiana, poiché De Gasperi non deluse la fiducia e le speranze che le vecchie classi dirigenti italiane avevano riposto in lui. Poteva dirsi lo stesso riguardo alla fiducia e alle speranze che il proletariato italiano aveva riposto in coloro che lo rappresentavano nel momento in cui era avvenuta la maggiore catastrofe economica e sociale del capitalismo italiano? La missione storica del partito rivoluzionario era forse quella di contribuire a preparare le condizioni economiche e politiche della restaurazione capitalistica?

Nessuno può negare che i lavoratori italiani ottennero una serie di conquiste che non possono essere disprezzate: invece del fascismo la democrazia borghese; invece della monarchia la repubblica democratica con una Costituzione tanto avanzata quanto può esserlo una Costituzione borghese; infine, una serie di miglioramenti sociali. In sostanza, qualcosa di simile a ciò che il proletariato tedesco aveva ottenuto dopo la prima guerra mondiale con la sua ‘rivoluzione’ sotto la direzione della socialdemocrazia.

 

6. Le direzioni del tempo e la ‘possibilità reale’

Secondo Reichenbach, tempo e causalità sono strettamente connessi e i rapporti di causalità si situano tutti all’interno di un’area ben definita. La combinatoria di quelle che egli chiama biforcazioni congiuntive fornisce una descrizione proprio di quest’area, e comprende quattro casi possibili: biforcazioni chiuse verso il passato e il futuro (rappresentabili come un rombo: <>), aperte verso il passato e il futuro (una clessidra: ><), chiuse verso il futuro e aperte verso il passato (una freccia: >), chiuse verso il passato e aperte verso il futuro (di nuovo una freccia ma in direzione inversa alla precedente: <).

Il primo caso, romboidale, rappresenta bene l’universo deterministico assoluto di cui gli Stoici furono i propugnatori e si può riassumere in questa proposizione: “Tutto quello che è, deve essere; e se non dovesse essere, non sarebbe”. Il secondo caso è invece la classica immagine dello spazio-tempo causale formulata (e formalizzata) dalla teoria della relatività, laddove il presente è il punto in cui i due coni della clessidra si oppongono al vertice. In un certo senso, esso definisce lo spazio in cui abita la categoria della ‘possibilità reale’, che, come si è cercato di dimostrare nel presente elaborato, è il cardine epistemologico della tesi secondo cui era concretamente possibile, non solo in Italia, un esito politico e sociale molto più avanzato di quello che fu raggiunto con la guerra partigiana nel periodo 1944-1947 qui individuato come periodo di riferimento L’ultimo caso disegna i confini entro cui, generalmente, opera la prassi medica e qualsiasi processo di ricostruzione. Vale la pena di notare che, riferito alla prassi politica comunista, chi ragiona secondo questo biforcazione congiuntiva commette l’errore di invertire l’ordine di successione temporale, considerando il presente alla stregua del passato di un futuro indefinito. È la posizione del riformismo socialdemocratico, di cui Bernstein ha fornito la classica formula con la nota massima, e di cui Togliatti e il gruppo dirigente del PCI, tra la fine della guerra e l’inizio del dopoguerra, hanno fornito la prassi (e più tardi, a partire dal 1956, la teoria): «Il movimento è tutto, il fine è nulla». 13

Ma, tornando alla questione da cui si son prese le mosse, occorre ribadire, in opposizione ad una interpretazione dogmatica del determinismo come quella esemplificata nel primo caso della combinatoria testé illustrata, che se non esistesse alcuna libertà di scelta (o i margini, per quanto ristretti, di tale libertà) perderebbe ogni senso, nell’ottica marxista l’alternativa stessa fra una scelta rivoluzionaria e una scelta riformista.

Di fronte allo squallore, alla grettezza e alle menzogne delle “galline” del riformismo odierno, il quale si caratterizza per la sua completa accettazione e perfino glorificazione dello stato di cose esistente (politica di guerra inclusa), spiccano invece il valore, la coerenza e il coraggio di “aquile” come Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht e Leo Jogiches, per i quali la certezza della sconfitta e della morte fu oggetto di una scelta consapevole. In ciò vi è davvero qualcosa di grande, la cui luce si riverbera su quel sacrificio. E in questa luce chi milita nel movimento rivoluzionario riconosce l’espressione più alta della coscienza di classe: la parzialità nell’universalità e l’universalità nella parzialità. 14


Note
1 Nel novembre del 1792, prendendo la parola dalla tribuna della Convenzione nazionale a Parigi, Maximilien Robespierre domandò: «Cittadini, volete una rivoluzione senza rivoluzione?» Poco meno di un mese dopo, da quella stessa tribuna, Robespierre riprenderà la parola in uno dei suoi discorsi più memorabili, nel corso del rovente dibattito sul processo a Luigi XVI, e ricorderà ai convenzionali che non spettava loro condannare o assolvere un re deposto, ma solo prendere una misura di “salute pubblica”, ossia giustiziarlo. Ciò significa che nella rivoluzione francese, così come in quella russa e in ogni rivoluzione degna di questo nome, il Terrore non è una parentesi o un incubo, ma è parte integrante del processo rivoluzionario. In questo senso è doveroso rammentare il fondamentale articolo di Stefano Merli, I nostri conti con la teoria della “rivoluzione senza rivoluzione” di Gramsci, pubblicato in «Giovane critica», 17 (autunno 1967), e ripubblicato nel n. 21 (autunno 1969) della stessa rivista. Riguardo al sintagma ossimorico di “rivoluzione senza rivoluzione”, parola d’ordine dell’“emancipazione accidiosa”, superfetazione dei cascami post-sessantotteschi e matrice di ogni opportunismo (e della stessa controrivoluzione), i Wu Ming hanno argutamente osservato: «Il 1789 senza il 1793, quindi. È una tendenza del tutto contemporanea. Coca-Cola senza caffeina, sigarette che si possono fumare in aereo perché non si accendono e non fanno fumo, yogurt senza grassi, dolcezza senza zucchero, sensazioni senza corpo, Guerra apparentemente senza Guerra, nel senso che non tocca noi, Rivoluzione senza Rivoluzione: l’edulcorazione prima di tutto».
2 R. Del Carria, Proletari senza rivoluzione, vol. 2, Edizioni Oriente, Milano 1972, pp. 309-310.
3 F. Claudìn, La crisi del movimento comunista. Dal Comintern al Cominform, Feltrinelli, Milano 1974, pp. 276-277 e sgg. Nella nota a piè di pagina (p. 276) si rileva che in questo articolo Togliatti tace sul fatto che la dichiarazione delle tre potenze riguardante l’Italia conteneva una disposizione secondo la quale durante la guerra tutto il potere effettivo restava nelle mani delle autorità alleate (Allied Military Government of Occupied Territories, in sigla AMGOT). Il diritto del popolo italiano a eleggere democraticamente il suo governo veniva rimandato a dopo la vittoria.
4 È il “discorso della caffettiera”, così passato alla storia, il quale, se mai ce ne fosse bisogno, rivela le doti di brillante scrittore e di mordace polemista che possedeva Churchill. In questo discorso i partiti antifascisti vengono paragonati a “strofinacci”, che per di più non servono allo scopo, e su Benedetto Croce viene espresso questo sarcastico apprezzamento: «Apprendo da MacMillan che Croce è un professore nano sui 75 anni che ha scritto buoni libri di estetica e di filosofia. Non ho più fiducia in Croce che in Sforza. Vyšinskij, che ha provato a leggere i suoi libri, li ha trovati persino più noiosi di quelli di Carlo Marx…» (cfr. P. Spriano, Storia del Partito comunista italiano, vol. V, Einaudi, Torino 1975, pp. 288-289).
5 Marcella e Maurizio Ferrara, Conversando con Togliatti, Edizioni di Cultura Sociale, Roma 1953, pp. 318-319.
6 In realtà, la gestione opportunista della ‘svolta’ non passò senza produrre lacerazioni nella sinistra operaia. Giancarlo Pajetta ebbe ad accennare in una conferenza al caso dei dirigenti comunisti calabresi che rifiutarono di «accettare i primi documenti del partito considerandoli come documenti falsificati da provocatori, quando videro posti in questi documenti i problemi della riscossa nazionale e dell’unità delle forze democratiche» (cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 337).
7 Cfr. F. Claudìn, op. cit., p. 280.
8 Rivelatore fu l’atteggiamento di Togliatti nei confronti della deviazione rappresentata dal browderismo, richiamata esplicitamente negli interventi duramente critici verso il partito comunista italiano e quello francese che furono pronunciati dalla maggioranza dei delegati alla conferenza di Szklarska Poreba, da cui nacque il Cominform (1947-1956). Nel 1943 Earl Browder, segretario del partito comunista degli Stati Uniti, identificò infatti il “New Deal” rooseveltiano, cioè una politica economica che era sostanzialmente funzionale alla fuoriuscita dalla “grande crisi” del 1929 e alla preparazione della guerra, con una sorta di nuovo “fronte popolare” e decise di sciogliere in esso il CPUSA, trasformandolo in una “"Communist Political Association”, dalla cui denominazione era addirittura sparita ogni connotazione di partito. La trasformazione del partito in ‘associazione’ significava che i comunisti americani sarebbero stati una delle forze presenti nel ‘melting pot’ dell’esperienza ‘radical’ del “New Deal” e nel fronte antifascista americano (donde si può notare quanta fortuna abbia avuto, e abbia anche ai nostri giorni, il browderismo nella storia antica e recente della ‘sinistra’ nostrana). Narra Italo De Feo, al tempo segretario di Togliatti (cfr. Diario politico. 1943-1948, Rusconi, Milano 1973, pp. 114-116), che, quando i giornalisti americani chiesero al ‘leader’ italiano di commentare quella clamorosa decisione, egli rispose «che Browder era uno dei capi più autorevoli del comunismo internazionale» e che «gli sembrava che l’indirizzo adottato da Browder di piena collaborazione con l’amministrazione di Roosevelt corrispondesse agli interessi del suo paese e della causa della democrazia». Dopodiché, così Togliatti precisò il suo pensiero parlando con De Feo che l’accompagnava: «Riprese il discorso su Earl Browder e il comunismo americano, per dire che quegli era andato forse un po’ oltre nel ritenere che il capitalismo avesse perduto i suoi artigli; ma che nel sostenere che il partito comunista dovesse diventare un partito democratico come gli altri avesse ragione [e qui vien fatto di pensare al PD come esito finale di un processo trasformistico, spacciato come innovativo, che avrebbe compiuto, per gradi, un vero e proprio salto di qualità]... Le cellule e il resto, aggiunse, sono cose del passato... Ricordò che in questo spirito s’era sciolto il Komintern, che era stato l’organo più efficace del vecchio tipo di organizzazione». In realtà, mentre Stalin aveva disegnato una strategia geniale di utilizzazione delle contraddizioni fra i diversi capitalismi sia sul versante interno (approfondendo il conflitto tra la democrazia progressiva e lo Stato borghese) sia sul versante esterno (impedendo la saldatura tra paesi fascisti e paesi democratico-borghesi, che sarebbe stata esiziale per l’intero schieramento comunista internazionale), Togliatti ridusse quella strategia ad una politica di inserimento subalterno della classe operaia nelle strutture dello Stato borghese spacciandola, grazie anche all’uso del pensiero gramsciano in chiave revisionista, per una “trasformazione democratica e socialista” della società. Bisogna tenere presente, peraltro, che l’emergere delle tendenze revisioniste in quegli anni non fu un fenomeno soltanto italiano, ma internazionale, con precise radici di classe. Il browderismo era quindi il prodotto, in primo luogo, della formidabile pressione esercitata dall’imperialismo, in ispecie da quello statunitense, sulla classe operaia e sulle sue organizzazioni, e in secondo luogo dell’influenza delle concezioni borghesi e piccolo-borghesi nelle file dei partiti comunisti, concezioni non combattute e fatte passare da dirigenti che non avevano assimilato il marxismo-leninismo. In questo quadro spicca la debolezza ideologica e politica dei capi del PCI, le deviazioni dei quali sono note: basti ricordare la lunga storia di dissidi con il Komintern, culminata nello scioglimento del Comitato Centrale nel 1938. Ma vi è di più: nel 1947, quando si riunì in Polonia il Cominform, venne avanzata da Andrej Zdanov, a nome del PCUS, e dai dirigenti di altri partiti comunisti ed operai una dura critica al PCI (fra questi ultimi si distinse per ampiezza, radicalità ed asprezza quella del partito comunista jugoslavo). L’accusa non fu quella di aver compiuto la “svolta di Salerno”; fu invece il cretinismo parlamentare, il legalitarismo, lo sviluppo pacifico verso il socialismo, la subalternità del PCI nei confronti dell’ingerenza statunitense, l’essersi fatti estromettere dal governo (non di esservi entrati!), la mancanza di un piano offensivo, l’alleanza con la DC.
9 Cfr. R. Del Carria, op. cit., p. 335.
10 Ivi, pp. 364-365.
11 M. Tronti, Operai e capitale, Einaudi, Torino 1971, pp. 116-117. A volte la verità, che ha una sua sottile ironia, può manifestarsi nelle voci più avverse.
12 Nella Scienza della logica Hegel afferma quanto segue: «Questa realtà, che costituisce la possibilità di una cosa, non è quindi la sua propria possibilità, ma è l’essere di un altro reale…» (Cfr. G. F. W. Hegel, Scienza della logica, Laterza, Bari 1968, vol. II, p. 617). Per Hegel, quindi, la possibilità è sempre qualcosa di realmente esistente; essa è possibilità solo in relazione a un altro esistente, a una realtà che va trasformandosi. Il marxismo, sviluppando l’interconnessione dialettica della possibilità e della realtà e riconoscendo nelle categorie “forme d’esserci, determinazioni d’esistenza” (Marx, Introduzione del 1857), applica la categoria modale di ‘possibilità reale’, elaborata da Hegel, all’analisi delle (e all’intervento nelle) situazioni concrete. Come argomenta, richiamandosi alla teoria del processo rivoluzionario formulata da Lenin, il filosofo sovietico Alexander Sceptulin, autore di un testo importante del “Diamat”, La filosofia marxista-leninista (Edizioni Progress, Mosca 1977, p. 188), «la possibilità diventa realtà… solo in opportune condizioni. Ad esempio, la possibilità della rivoluzione socialista nei paesi capitalistici può trasformarsi in realtà solo nel caso di una crisi di tutta la nazione, di una situazione in cui non solo gli strati inferiori non vogliano vivere come per il passato, ma anche gli strati superiori non possano governare come per il passato, in cui si aggravino più del solito l’angustia e la miseria delle classi oppresse e si accresca la loro attività, e, infine, in cui la classe operaia sia capace di compiere “azioni rivoluzionarie di massa sufficientemente forti per poter spezzare (o almeno incrinare) il vecchio governo». Forse che la ‘possibilità reale’ qui esposta non corrispondeva alle situazioni analizzate nel presente scritto? Ma se essa sussisteva e corrispondeva, che cosa le ha impedito di diventare, per dirla con Hegel, “un altro reale”?
13 Per la tematizzazione del tempo e della causalità nella scienza contemporanea è particolarmente utile un testo di H. Reichenbach, The Direction of Time, Dover Books on Physics, Mineola (New York), pubblicato postumo nel 1956. Circa il problema filosofico dei margini di libertà che vanno riconosciuti, insieme con la correlativa responsabilità, ad un soggetto che interviene in una situazione data è famoso l’argomento di Aristotele sulla previsione della “battaglia navale”. Tale argomento è sviluppato da Aristotele nella sezione 9 di Perì hermeneìas (Sull’interpretazione) e muove dalla disgiunzione esclusiva, che è quasi una tautologia, in base alla quale, se affermo che è vero p o è vero non-p, allora ciò che affermo è vero indipendentemente dal fatto che la verità (o la falsità) sia attribuita a non-p. Questa tautologia trapassa in due princìpi logici: quello di bivalenza e quello del terzo escluso, che Aristotele cercò di tenere distinti allo scopo di salvaguardare la libertà umana. E infatti: se affermo che domani vi sarà o non vi sarà una battaglia navale, l’affermazione è certamente vera, e questo implica che uno dei due disgiunti è certamente vero. Gli Stoici, portando il ragionamento alle sue logiche conseguenze, ne concluderanno validamente che è già vero oggi ciò che accadrà domani (determinismo assoluto). La soluzione individuata da Aristotele per salvaguardare la libertà umana fu quella di negare che ogni enunciato debba essere necessariamente vero o falso (rifiutando la bivalenza), pur continuando a sostenere che non esiste una terza possibilità (riaffermando perciò il principio del terzo escluso).
14 Merita di essere citato l’epitaffio che Lenin consacrò alla Luxemburg:«Paul Levi vuole aggraziarsi la borghesia - e, conseguentemente, i suoi agenti, la II Internazionale e l’Internazionale due e mezzo - ripubblicando precisamente quegli scritti di Rosa Luxemburg in cui lei era in torto. Noi risponderemo a ciò citando due righe di un buon vecchio scrittore di favole russo: "le aquile possono saltuariamente volare più in basso delle galline, ma le galline non potranno mai salire alle altitudini delle aquile". Rosa Luxemburg sbagliò sulla questione dell’indipendenza della Polonia; sbagliò nel 1903 nella sua valutazione del menscevismo; sbagliò nella sua teoria dell’accumulazione del capitale; sbagliò nel luglio 1914, quando, con Plekhanov, Vandervelde, Kautsky ed altri, sostenne la causa dell'unità tra bolscevichi e menscevichi; sbagliò in ciò che scrisse dal carcere nel 1918 (corresse poi la maggior parte di questi errori tra la fine del 1918 e l’inizio del 1919, dopo esser stata rilasciata). Ma a dispetto dei suoi errori lei era - e per noi resta – un’aquila. E i comunisti di tutto il mondo si nutriranno non solo del suo ricordo, ma della sua biografia e di tutti i suoi scritti (nelle pubblicazioni disordinatamente aggiornate dai comunisti tedeschi, solo parzialmente scusabili dalle tremende perdite subite durante la loro dura battaglia), che serviranno da utili manuali nella formazione delle future generazioni di comunisti di tutto il mondo. "Dal 4 agosto 1914 la socialdemocrazia tedesca è stata un fetido cadavere" - questa dichiarazione renderà il nome di Rosa Luxemburg famoso nella storia del movimento proletario internazionale. E, certamente, risalterà nel movimento proletario, fra i mucchi di letame e le galline come Paul Levi, Scheidemann, Kautsky e tutta la confraternita di coloro che schiamazzeranno sugli errori commessi dai più grandi comunisti. A ognuno il suo» (Note di un pubblicista in V. I. Lenin, Opere complete, vol. XXXIII, Editori Riuniti, Roma 1967, p. 189).

Nessun commento:

Posta un commento